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Israele contro Damasco. Anzi, contro Mosca
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L’aviazione israeliana, mercoledì 30 gennaio, ha bombardato la Siria: un centro di ricerca secondo il regime di Damasco, una colonna di missili destinati ad Hezbollah secondo una «informativa anonima» di fonte Nato, o Usa.

La reazione della Russia, per bocca del ministero degli esteri, è stata particolarmente dura. «Abbiamo a che fare ad attacchi senza alcun pretesto sul territorio di uno stato sovrano, ciò che infrange grossolanamente la Carta dell’Onu ed è inaccettabile qualunque ne sia il motivo. Noi prendiamo misure urgenti per chiarire questa situazione nei minimi dettagli». E poi: «Facciamo ancora una volta appello alla fine delle violenze in Siria, senza intervento estero – ciò sarebbe inammissibile – all’inizio di un dialogo inter-siriano basato sugli accordi di Ginevra del 30 giugno 2012».

Dunque per i russi, Israele ha colpito allo scopo di liquidare certi accordi in corso fra il regime di Assad e la plurima opposizione. Israele ha infatti bombardato proprio mentre a Ginevra si apriva un negoziato, a lungo preparato dalla diplomazia moscovita, per una soluzione concordata del conflitto siriano, soluzione già accettata dal presidente Bashar al-Assad. Si tratta di una conferenza intitolata «Per una Siria democratica ed uno Stato civile», che univa diversi partiti dell’opposizione fra cui il «Comitato di Coordinamento nazionale siriano per il cambiamento», oltre ad altre personalità arabe e straniere di 36 Paesi.

Un inizio di dialogo con il regime che doveva essere sventato ad ogni costo. Va notato che il governo francese ha cercato in tutti i modi di far abortire l’incontro, facendo pressioni incredibili sulla Federazione elvetica perché lo vietasse. Tentativo riuscito solo a metà (la Svizzera ha negato il visto a 67 esponenti siriani di cui 22 capi di partiti politici), ma la conferenza s’è tenuta ugualmente, con gli interventi dei senza-visto via Skype. A questo punto, il governo francese ha organizzato in tutta fretta un incontro alternativo a Parigi, radunando cosiddetti «Amici della Siria», la frazionata galassia dei «ribelli» irriducibili. (Crie syrienne: la rencontre de Genève se prépare pour dialoguer avec le régime)





L’incontro è stato presieduto dallo stesso ministro degli esteri francese, Laurent Fabius: il che non stupisce se si sa che Fabius è di padre askenazita, di madre americana e fanatico pro-sionista. Come tutto il governo Hollande, dopotutto. La cui politica medio-orientale non fa che proseguire quella dell’avversario (cosiddetto) Sarkozy, aggressore della Libia, guidato spiritualmente dal «maitre à penser» Bernard Henry Lèvy: il quale, dopo l’assassinio di Gheddafi, promuove in ogni spazio pubblico (e dietro le quinte del potere) l’intervento contro la Siria.

Si capisce quindi la valutazione allarmata di Mosca, e il timore – espresso nel comunicato – di un intervento diretto militare straniero che mandi all’aria gli incipienti accordi diplomatici, nei quali la Russia ha interesse: sia a mantenere un piede in Siria (il porto militare, unica base nel Mediterraneo) sia un ruolo futuro per la famiglia Assad. Tanto più che, secondo Voltairenet (che ha fonti interne al regime siriano), «l’esercito siriano regolare s’è impadronito giorni fa di materiali israeliani sofisticati utilizzati dai Contras, e li aveva portato nel suo Centro di ricerca dove dovevano essere smontati ed analizzati. È probabilmente questo materiale che gli israeliani hanno voluto distruggere prima che venisse trasportato in Russia o in Iran».

Apparentemente, la questione è se mantenere Assad al potere durante la transizione futura, oppure un «ribelle». Gli americani hanno scelto Ahmed Moaz al-Khatib, preteso capo del SOC (Syrian Opposition Coalition ) che è un Fratello Musulmano: istruttivo legame che si è visto anche in Egitto. Il vice-presidente Joe Biden ha incontrato recentemente Al-Khatib a Monaco.

Ahmed Moaz al-Khatib
  Ahmed Moaz al-Khatib
Ma a questo punto è stata la diplomazia iraniana a fare una mossa sottile. Il ministro degli esteri di Teheran Ali Akbar Salehi, alla Munich Security Conference (una specie di Forum di Davos militare) ha avuto un colloquio con Al-Khatib e, subito dopo, ne ha lodato pubblicamente «la disponibilità a trattare con il governo siriano»; e intanto anche il ministro degli esteri russo, Lavrov, ha incontrato il capo «ribelle», dichiarando: «Se si tiene presente che la coalizione è stata fondata sul rifiuto di principio di dialogare con il regime, è un passo avanti importante». Perché, ha aggiunto, «L’insistenza di quelli che dicono che la priorità assoluta è la dipartita di Assad è la sola e prima causa del fatto che la tragedia in Siria continua».

Dunque la Russia e l’America convergono nell’indicare l’esponente dell’opposizione autorizzato? Non proprio, visto che Joe Biden, immediatamente ha sottolineato che tra Washington e Mosca «restano grandi differenze», anche se poi ha invitato Khatib a continuare i suoi sforzi per mantenere l’unità del SOC, isolare gli estremisti ed «essere inclusivo delle comunità in Siria, inclusi alawiti, cristiani e curdi». Per concludere che, comunque, «il tiranno Assad deve andar via». Rivelando così troppo apertamente di stare dalla parte di quelli che vogliono che la carneficina continui... (Iran, Russia Meet Moaz Al-Khatib in Munich, Welcome His Talks Initiative)

Incauta affermazione. Perché persino Erdogan, dalla Turchia, ha dovuto aspramente deplorare l’aggressione militare israeliana in Siria, così come gli altri caporioni sunniti anti-Assad. E Washington dovrebbe affinare la sua politica rozzamente anti-russa nell’area, perché la situazione è in rapida e imprevedibile evoluzione. Recentemente, Erdogan ha fatto una dichiarazione stupefacente: «L’altro giorno ho detto a Putin: “Prendici nello SCO e noi lasciamo perdere l’Europa...”». Lo SCO, Shanghai Cooperation Organization (detta anche Shanghai Five), è l’alleanza militare organizzata attorno alla Russia e alla Cina; per entrarvi, la Turchia dovrebbe abbandonare la NATO. Da tempo Putin, metà per scherzo e metà no, dice ad Erdogan «che cosa stai a fare nella NATO? Vieni con noi». Adesso Erdogan ha risposto, forse metà per scherzo – o per ricattare l’Unione Europea che «non ci vuole e non ce lo dice, lasciandoci in stallo» – ma forse sul serio, dato il carattere suprematista ottomano e psicologicamente imprevedibile che Erdogan ha mostrato in modo sempre più chiaro: «Shanghai Five è migliore e più forte», ha detto.  (Erdogan Serious About Turkey's Bid For Shanghai 5 Membership)

La Casa Bianca (ed ancora più ridicolmente i suoi maggiordomi europei) non prende atto della crescente irritazione, e del conseguente indurimento di Mosca di fronte al cieco e sordo trattamento che subisce da Washington, che la tratta da potenza minore e négligeable. Nelle trattative anti-missili, di primaria importanza per la Russia, «non abbiamo visto nessun addolcimento né alcuna flessibilità» da parte americana, ha constatato il pur moderato Medvedev: «Noi capiamo chiaramente che se non abbiamo alcuna garanzia sul pareggiamento dei nostri programmi (di difesa missilistica), la difesa missilistica americana può valere anche contro l’arsenale nucleare russo (...) Il pareggiamento, che abbiamo ricordato al presidente Obama firmando il nuovo trattato START (su missili balistici nucleari straegici, ndr) è rotto, perché la difesa missilistica USA è la diretta continuazione della capacità nucleare offensiva, di armi nucleari da combattimento...». Quanto a Putin, più volte ha avvertito che la politica americana – dal rovesciamento di Gheddafi all’appoggio dei contras in Siria, fino alle minacce continue all’Iran – è «costosa, inefficiente e imprevedibile».

Un po’ pateticamente, per migliorare la propria immagine nei «mercati», Mosca ha arruolato (con mezzo milione di dollari per adesso) nientemeno che Goldman Sachs. Il fatto è che Vladimir Putin sembra addirittura la figura più pronta ad accomodamenti in confronto al suo Parlamento, la Duma: la quale risponde colpo su colpo alle rozze minacce del Congresso Usa, spesso scavalcando il presidente (che evidentemente non è l’autocrate che viene dipinto; è la democrazia, dopotutto). La Duma ha cancellato due accordi con Washington sulla lotta alla droga e sull’applicazione di norme penali. Parte di questi accordi bilaterali era «l’assistenza» americana ad organizzazioni russe per la condotta di misure di polizia. Attività «assistenziali» in cui la Duma legge la continua possibilità di ingerenza americana negli affari interni russi.

«È il terzo accordo che abbiamo liquidato negli ultimi sei mesi», ha dichiarato soddisfatto Aleksey Pushkov, il capo della Commissione Esteri della Camera bassa. Il primo è stato, lo scorso settembre, l’invito all’US Agency for International Development (USAID) di fare le valige e chiudere gli uffici in Russia, dato che le sue filantropie non erano più gradite, tanto più che l’USAID era stata colta a manipolare gli eventi politici interni russi. Cosa che ha fatto schiumare di rabbia Hillary Clinton. «La Russia si sta liberando dalla dipendenza dalla superpotenza», ha detto Pushkov.

In altre parole: Mosca non capisce la politica Usa, la vive come una minaccia alla sua sovranità dettata da irrazionalità – e risponde indurendosi. Assiste alla distruzione deliberata di legami e canali di intesa che permanevano perfino quando c’era l’URSS, e interpreta giustamente questa come minaccia diretta. Ossia anche alla vita di Putin e degli altri dirigenti. Come ha spiegato Israel Shamir in un articolo da noi pubblicato, il Congresso usa ha varato «la Legge Magnitsky, un atto legislativo americano particolarmente pericoloso che permette agli USA di fermare, congelare e confiscare le proprietà di cittadini russi se i loro nomi sono inseriti in una lista segreta». Essendo la lista segreta, un russo che va negli Stati Uniti può trovarsi incarcerato senza sapere il perché, con tanti auguri alla democrazia, trasparenza e stato di diritto di cui si vanta l’Occidente. (Il terribile crimine di Putin contro i bambini)

Al Forum di Davos, il miliardario ebreo, decrepito George Soros, ha apertamente minacciato la vita di Putin: «Investire in Russia? Secondo me è un grosso errore. Il regime di Putin non rispetta lo stato di diritto», sicché la Russia subisce fuga di capitali e di cervelli, indebolendosi. «Perciò ritengo che Putin deve aggrapparsi al potere perché è il solo posto dove può sentirsi sicuro, per la sua sicurezza personale. Inevitabilmente, le cose si muovono...». (Putin's Russia and the Big Lie)

È una linea condivisa dall’Establishment Usa, sia la lobby sia il suo avversario, l’ex consigliere della sicurezza nazionale Zbig Brzezinsky. Invitato ufficialmente in visita a Mosca, con la speranza di un’intesa da costruire sui troppi punti di frizione, Barak Obama ha lasciato cadere l’invito. Non incontrerà Putin ma non prima del 20 settembre, e in occasione del G-20, gran kermesse; segno che la Casa Bianca non ha nulla da trattare. Putin aveva chiarito che, nonostante tutta la buona volontà, la Russia non avrebbe ridotto ulteriormente il numero delle sue testate nucleari strategiche (come pretendevano gli americani) se non veniva risolto il problema dei missili che gli USA continuano a voler piazzare a ridosso dei confini russi, secondo un progetto messo in atto da Bush e dai suoi neocon, e al quale si sperava Obama rinunciasse. La risposta è stata l’annullamento della visita.

Persino Stephen Cohen, analista strategico della Università di New York, ha sunteggiato la situazione così: «Quando Obama e l’allora presidente Medvedev entrarono nel “reset” (delle relazioni bilaterali), Mosca voleva certe cose da Washington e Washington certe cose da Mosca. Senza scendere in particolari, Washington ha avuto da Mosca tutto quello che voleva, e Mosca non ha avuto niente». (‘US, Russia plunging into new Cold War’)

Addio reset annunciato e mai avvenuto.

Da qui all’incontro di settembre fra Obama e Putin, ci sono troppi mesi di vuoto, e di ritorsioni reciproche, provocazioni come quella israeliana sotto il naso della potente flotta russa del Mediterraneo piazzata in Siria, per non paventare pericoli estremi, e persino involontari.

In questo pericoloso frangente, ancora più ridicolo è l’atteggiamento europeo; da una parte vogliosi di migliorare i rapporti con Mosca (da cui dipendiamo ampiamente per l’energia, e per gli affari) i capi di Stato e di Governo con l’eurocrazia seguono ciechi, e a quanto pare terrorizzati, gli Stati Uniti nella politica di distruzione delle relazioni con la Russia che reggevano – abbiamo detto – financo nel culmine della guerra fredda. L’Europa non ha davanti l’ostacolo rappresentato dalla questione dei missili anti-missile che divide l’America da Mosca, se non per il fatto che accetta che questa rete di missili sia piazzata sui nostri Stati. Ma non osa dire no. E ad ogni incontro e negoziato i negoziatori europei si fanno precedere da pistolotti sui «diritti umani» che la Russia non rispetterebbe, lezioncine su come deve comportarsi per essere democratica, predicozzi di moralità pubblica, non senza mostrare un certo nobile disgusto per il fatto che Mosca, in preda ad un regime semi-dittatoriale, non è ancora da annoverare fra i paesi civilizzati.

I russi non solo considerano queste lezioni indebite, giudicando che diritti e democrazia non stanno certo meglio in Occidente. Secondo Dedefensa (che ha buone entrature a Bruxelles), i suoi negoziatori continuano a chiedere a quattr’occhi ai loro interlocutori europei: «Ma chi detta queste politiche così duramente anti-russe, che violano i costumi di rispetto tra nazioni sovrane? Da dove vengono queste politiche? Quali ne sono le cause e i motivi?». Domande a cui non ottengono risposta, e per una ovvia ragione: le politiche eurocratiche non vengono tanto da decisioni deliberatamente prese con lucidità, ma sono l’effetto di processi meccanici messi in moto decenni fa, e che nessuno ferma perché intellettualmente non all’altezza di elaborarne di nuovi. Vedi l’esempio dell’Unione Europea e il suo disastroso ampliamento, vedi l’adesione dell’Europa al globalismo distruttore delle nostre imprese e dei nostri salari, vedi la continua sottrazione di sovranità contro la ripetuta volontà popolare, vedi l’euro che sta affamando interi popoli... È l’adesione automatica al servilismo americano, alle grandi lobbies ed alle lobbies minime, agli interessi costituiti dalle entità che su questo ordine automatico hanno guadagnato potere e prestigio, come la Banca Centrale e la Commissione europea, e per le quali il ripensamento segnerebbe la loro fine.

Le stesse domande che pongono i negoziatori russi, in fondo, si possono estendere alla questione del matrimonio fra omosessuali: in piena grande depressione, con una Francia sull’orlo del baratro economico, Hollande annuncia le nozze gay; Cameron, sfidando l’opposizione del suo stesso partito, annuncia le nozze gay, Bersani e le sinistre italiote attueranno le nozze gay. Come se fosse quello il problema da risolvere subito, urgentemente, come se fosse chiesto a furor di popolo, nell’Europa con i suoi 26 milioni di disoccupati e in tragico declino storico.

«Chi detta quelle politiche? E perché?». Buona domanda.



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