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E Washington mandò i «suoi» jihadisti a ri-occupare l’Iraq
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Finalmente ci arrivano anche gli altri: l’avanzata improvvisa su Baghadd dei jihadisti vittoriosi ed inarrestabili dello «Stato Islamico dell’Iraq e Siria» (ISIS) non è una disfatta strategica americana. Anzi al contrario è la nuova versione di successo della guerra americana per mezzo delle sue pedine, per strappare il potere sull’Iraq e i suoi giacimenti al Governo sciita, vicino all’Iran. Il vostro modesto cronista ve l’aveva detto per primo; oggi si rallegra a vedere che alle stesse conclusioni è giunto un noto analista geopolitico americano, Tony Cartalucci: che titola la sua analisi «Amnerica’s covert re-invasion of Iraq».

Non è credibile, dice Cartalucci, che la CIA e gli altri servizi d’intelligence americani siano stati sorpresi – come asseriscono – dalla fulminea avanzata di questo vero e proprio esercito benissimo armato ed addestrato che è l’ISIS, e non l’abbiano «visto». Gli american i hanno coperto l’Iraq di apparati di sorveglianza; dispongono di spie e informatori; satelliti e droni USA non possono non aver identificato in anticipo i grossi movimenti delle milizie dell’ISIS.

Sono tre anni – rivela Cartalucci – che la CIA è attiva lungo la frontiera fra Turchia e Siria per sorvegliare ed armare i cosiddetti islamisti «moderati» combattenti contro il regime di Assad. E se poi tutte le fonti riservate, i potenti mezzi, i satelliti-spia non fossero stati sufficienti a rilevare l’imminente invasione jihadista, bastava che la CIA leggesse qualche giornale locale: il libanese Daily Star, nel marzo scorso, già riferiva che l’ISIS stava ritirando apertamente le sue forze dalle provincie di Latakia e Idlib (Siria occidentale) per riposizionarle ad est, lungo il confine siriano-iracheno.

Notava anche il giornale, che l’ISIS «aveva alienato molti ribelli occupando territorio e uccidendo i comandanti rivali», ossia facendo un repulisti sistematico dei gruppuscoli jihadisti non obbedienti, anarchici e ormai sconfitti, quindi in via di riciclarsi come delinquenti comuni.

Dopo tutti i milioni di dollari profusi in tre anni da USA ed Arabia Saudita, Turchia e Katar per formare ed armare i fanatici; dopo averli riforniti di 3 mila tonnellate armi pesanti tirate fuori dai magazzini dell’ex Yugoslavia con un vero ponte aereo sicuramente operato dalla NATO (75 voli da carico dall’aeroporto di Zagabria via Giordania ai ribelli anti-siriani, leggere per credere, il Telegraph del marzo 2013), dopo che questi armatissimi ribelli hanno sostanzialmente fallito di instaurare il califfato in Siria, i finanziatori hanno perso la pazienza e re-diretto i loro terroristi ad uno scopo più facile: debellare le ridicole forze armate dell’Iraq, per rimetterlo sotto il controllo sunnita — a cui era sfuggito dopo la caduta di Saddam.



La creazione del califfato wahabita fra parte della Siria e l’Iraq non può non piacere ai sauditi. Se credete che possa dar fastidio agli americani, varrà la pena di ricordare un fatto: nei Paesi petroliferi, gli USA hanno sempre preferito insediare fanatici oscurantisti spazzando via invece dittatori laici e modernizzatori. L’hanno fatto in Iran detronizzando lo Scià e insediando l’ayatollah Khomeini. In Afghanistan, creando di sana pianta (in Pakistan) gli «studenti islamici» armati – i talebani – e scatenandoli contro il regime comunista sostenuto dall’URSS. L’hanno fatto anche oggi facendo uccidere Gheddafi in Libia, e ancor più vistosamente in Egitto: dove hanno aizzato la primavera di Tahrir, sbattuto fuori il vecchio dittatore Mubarak, sostituendolo coi Fratelli Musulmani (che Obama apertamente ha incoraggiato e sostenuto politicamente): solo che, dopo alcuni mesi di Governo disastroso di questi settari incompetenti, la popolazione egiziana ha preferito tornare sotto l’esercito, e l’ultima incarnazione del dittatore moderno nasseriano, il generale Al-Sisi.

«Questa», in Egitto, è stata la sconfitta degli americani, non il dilagare dei jihadisti in Iraq. La loro sistematica preferenza per i regimi islamisti, «religiosi» ed arretrati (come i Saud) nei Paesi petroliferi, è facile da capire: preferiscono trattare con questi fanatici (ipocriti e facili da corrompere con «puttane e champagne»), piuttosto che con dittatori che conoscono le quotazioni del greggio e vogliono usarne i profitti per dare al loro Paese infrastrutture, istruzione pubblica, sistemi sanitari moderni (come appunto faceva Saddam).

L’ISIS impara da Hollywood

Anche la tv France 24 ha notato questo strano fatto: i jihadisti dell’ISIS hanno prodotto video di propaganda delle loro imprese in Iraq, che sono fatti con sapienza tecnica sopraffina. Esplosioni al rallentatore, immagine riprese dal visore di un’arma, riprese aeree con droni... sembrano dei film d’azione di Hollywood. Potete vederli qui.

E magari lo sono, prodotti ad Hollywood. Dopotutto, l’ISIL può pagarsi i migliori registi: «è diventato il più ricco gruppo terroristico del mondo, essendosi impadronito di 500 milioni di dinari iracheni, pari a 429 milioni di dollari, saccheggiati dalla banca centrale dopo la presa di Mossul»: così ha scritto compiaciuto il periodico Business Times. Sono ormai una potenza finanziaria, che non manca di interessare Wall Street e la City di Londra. Tanto più che a Mossul si sono presi anche «una gran quantità di oro».

Le primavere arabe? Made in USA. Ecco la prova

Un think tank americano, Middle East Briefing (MEB), s’è fatto dare – usando della legge sulla Freedom of Information – un documento ufficiale del Dipartimento di Stato «Middle East Partnership Initiative: Overview», datato 22 ottobre 2010, ma tenuto riservato fino ad oggi. Questo rapporto dettaglia le strategie e le tattiche che le ONG americane devono attuare per «risvegliare la società civile» e scagliarla contro i regimi arabi o musulmani in genere. Ovviamente, eccitando il malcontento (che non manca) e con la propaganda la speranza di dare «società plurali, partecipative e prospere». Alle Ambasciate americane vengono dati fondi enormi per la sovversione, ossia il finanziamento degli agitatori locali, «agenti designati dalle ambasciate» stesse.

Il documento delinea anche il «servizio post-vendita»: una volta arrivate al successo le «rivoluzioni spontanee», come assicurare loro la partecipazione alla «ricostruzione del grande Medio Oriente» secondo la visione (e gli interessi) americani, senza sviare? A questo scopo, è stato creato nel settembre 2011 un ufficio «di coordinazione speciale per la transizione», che assiste le «democrazie nascenti» (sic), con a capo il diplomatico William B. Taylor. Sicuramente un competente del campo: Taylor è stato l’Ambasciatore in Ucraina durante la rivoluzione arancione, tra il 2006 e il 2009.

La notizia è stata data col giusti rilievo a un organo ufficioso del regime laico algerino, che è stato fatto segno di speciali tentativi di detronizzazione (guerriglieri islamisti apparsi dopo l’esecuzione di Gheddafi nel vasto deserto dalle frontiere incerte, con molte armi prese dagli arsenali libici, nella destabilizzazione prodotta volontariamente dall’Occidente). Il regime algerino, perfettamente istruito dai precedenti vicini (Tunisia, Libia, Egitto) si è chiuso a riccio e sta stroncando ogni germe di «primavera». Sembra con successo, per ora.




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