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L’ultima di Obama (bin Laden?)
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Anas Al-Libi («Il Libico», se è lui), il «terrorista di Al Qaeda» sequestrato dai Navy Seals, è attualmente detenuto su una nave da guerra americana nel Mediterraneo, sottoposto ad interrogatorio da specialisti arrivati da Langley; ovviamente senza alcuna tutela di legge. È un desaparecido. Secondo gli americani, è la mente dell’atroce attentato esplosivo all’ambasciata Usa a Nairobi, nel lontano agosto 1998, in cui morirono 220 persone.

Anas Al-Libi
  Anas Al-Libi
Ma subito qualcosa non quadra in questa narrativa: questo Al-Libi avrebbe viaggiato a Nairobi, insieme ad un altro personaggio di Al Qaeda non indicato, e vi avrebbe condotto «visual and photographic surveillance of the United States Embassy», nel 1993: dunque cinque anni prima dell’attentato. È un notevole anticipo per un sopralluogo sul posto dove si intende commettere il delitto, ma si sa Al Qaeda fa le cose lentamente e con scrupolo; tuttavia sembra un po’ strana una così lunga attesa. L’altra cosa strana è che Al Libi (vero nome Nazih Abdul-Hamed Nabih al-Ruqai), nel 1993, abitava da anni a Londra, dove aveva ricevuto l’asilo politico come perseguitato dal regime di Gheddafi, e faceva il pizzaiolo. Secondo il Telegraph, nel 1998 quando esplose l’ambasciata Usa a Nairobi, la polizia britannica aveva «perquisito il suo appartamento, ma Libi aveva preso la precauzione di distruggere ogni prova del suo viaggio in Kenia cancellando l’hard drive del suo computer. Le autorità britanniche non avevano base per perseguirlo: che disdetta.

Ma il Regno Unito è o non è lo Stato del diritto? Le autorità britanniche dovettero tenersi il pericoloso personaggio a Londra, dato che non avevano prove per incastrarlo. Anzi, già che c’erano tanto valeva utilizzarlo: risulta che nel 1996, Al Libi era una figura chiave di un certo «Gruppo Libico di Combattimento per l’Islam» (Libyan Islamic Fighting Group) il quale ha ricevuto ingenti somme di denaro dall’MI6, i servizi di Sua Maestà, per organizzare l’assassinio del colonnello Gheddafi, complotto che fallì. Al Libi ha dovuto lasciare Londra solo nel 2000, due anni dopo l’attentato di Al Qaeda a Nairobi, in quanto formalmente incriminato dagli Usa dell’eccidio. Poi si è reso uccel di bosco.

Di Al Qaeda questo Al Libi faceva parte davvero? Eh sì. Dagli anni ’80. Quando però Al Qaeda era l’organizzazione buona che reclutava guerrieri islamici da mandare a combattere contro il regime comunista in Afghanistan, sostenuto dall’URSS. Allora non era affatto disdicevole militare in Al Qaeda: il presidente Ronald Reagan aveva salutato questi guerrieri islamisti come «l’equivalente morale dei nostri padri fondatori», e la CIA li copriva di milioni di dollari in armamenti ed assistenza varia. Sembra che Al Libi sia stato in Afghanistan in quel periodo, e che poi abbia seguito Osama Bin Laden in Sudan; dove ancora per qualche anno, Al Qaeda fu buona: difatti mandò, su indicazione della Cia, drappelli di guerriglieri a battersi nella Bosnia aggredita dalla Serbia; nel ’93 Bin Laden ebbe la nazionalità e il passaporto bosniaco. Nel 1995, il Sudan obbligò Bin Laden a mandar via tutti i suoi miliziani di nazionalità libica; non su richiesta americana, ma del colonnello Gheddafi, che s’era messo in testa che quelli gli volessero fare la pelle su mandato Usa. Poco dopo lo stesso Bin Laden fu invitato ad uscire dal Sudan; stavolta su pressioni dell’Egitto, dopo che una «cellula Al Qaeda» aveva cercato di assassinare il presidente Mubarak.

Sparito da Londra nel 2000, Al Libi conduce vita da terrorista ricercato introvabile fino al 2011: quando riappare nella sua natia Libia, giusto in tempo per fare la sua parte di combattente della libertà e entrare in una delle brigate islamiste che, con l’aiuto della NATO, dei francesi, inglesi ed americani, stanno cercano di rovesciare Gheddafi. Raggiunto lo scopo, Al Libi vive indisturbato e alla luce del sole a Tripoli, noto agli americani, fino al giorno del suo rapimento per mano americana.

Come mai? Un litigio fra intimi partner che si conoscono da decenni, e che hanno condotto insieme tante imprese coperte ed aperte?

Si sa che la Cia e i suoi terroristi (pardon, combattenti per l’Islam) oggi si amano, domani si odiano, e dopodomani sono di nuovo amici e pronti a qualche impresa comune. Come i terroristi qaedisti che abbatterono le Twin Towers, ma entravano ed uscivano liberamente dagli Usa con il beneplacito della Cia e lì presero le fatali lezioni di volo per cui sono diventati famosi, con una mezza dozzina di servizi d’intelligence (fra cui israeliani) che li seguivano ad ogni passo.

Qualcuno sospetta che il motivo del litigio, che è costato ad Anas Il Libico il rapimento, deve aver qualcosa a che fare con gli spaventosi fatti di Bengasi dell’11 settembre 2011, in cui una massa di libici armati e infuriati (apparentemente per il trailer di un film diffamatorio su Maometto, mai realizzato: qualcuno aveva preparato solo il trailer) assaltarono il consolato Usa trucidando l’ambasciatore Chris Stevens e alcuni suoi guardaspalle. Stevens era un amico degli islamisti su piazza; aveva coordinato lui le azioni militari loro, in collegamento con quelle NATO, durante la rivolta anti-Gheddafi. Sembra certo che, inoltre, la CIA avesse nella Bengasi «liberata» una vasta operazione segreta per avviare quantità di armamenti, presi dai depositi di Gheddafi, ai ribelli in Siria. Qualcosa deve essere andato storto, le relazioni si devono essere guastate allora, per qualcosa che non è mai stato chiarito da parte americana.

Ma cosa e perché? Vi dico l’ipotesi più pazzesca di tutte, da non credere se non l’avesse fatta Michael Rivero, il noto blogger di «Whatreallyhappened», uno dei primi a mostrare che l’attentato dell’11 Settembre puzzava di false flag. Ebbene: Rivero ci ricorda che, nel 2012, Obama stava per affrontare le elezioni, il suo avversario Romney minacciava di superarlo nei sondaggi, e dunque aveva bisogno di un «evento» che lo rendesse più eroico e popolare. A farla breve: secondo il progetto o messinscena, un gruppo di «terroristi di Al Qaeda» avrebbe preso in ostaggio l’ambasciatore Stevens e i suoi accompagnatori; qualche giorno di tensione crescente, sapientemente tambureggiata dai media; poi l’intervento dei Delta Forces sotto la guida sicura del Comandante Supremo Barack Hussein Obama... e il trionfo. Invece, al posto dei terroristi di Al Qaeda amici, si devono essere presentati sulla scena i terroristi di Al Qaeda nemici, spalleggiati da una folla libica inferocita, ed hanno fatto la strage. O forse i terroristi «amici» sono diventati «nemici», o ancora forse gli «amici» non si son fatti vedere, mentre i «nemici» incendiavano il consolato, e gli americani dentro li hanno creduti «amici»... valla a sapere.

Lo so, sembra pazzesco. Ma un momento... questo spiegherebbe perché il fatto avvenne l’11 settembre 2012: data troppo evocativa, che sembra cercata apposta per una trovata propagandistica. Spiegherebbe perché alcuni operativi della CIA e dei Navy Seals che si trovavano in una «casa sicura» a un chilometro dal consolato di Bengasi e volevano accorrere con le armi in pugno a dar man forte, ricevettero l’ordine di «stand down», ossia di non muoversi. Dopodiché, questi stessi operativi furono aggrediti ed assediati, si difesero per quattro ore, il tempo necessario per spedire rinforzi addirittura dalla base di Sigonella; ma nulla accadde. Spiegherebbe perché dopo la tragedia, Hillary Clinton (Stevens era un uomo suo, e forse anche lei aveva organizzato il piano) si è ritirata in silenzio; perché il capo della Cia Leon Panetta è stato sostituito. (Benghazi rescue nixed)

Ciò potrebbe spiegare alcune rapide esecuzioni che hanno avuto luogo dopo l’eccidio di Stevens. Un’autobomba esplode davanti alla stazione di polizia di Bengasi il 4 novembre 2012, ferendo tre persone. Il 20 novembre il capo della polizia di Bengasi, Farraj al-Dursi, viene mitragliato da un’auto in corsa ed ucciso. Pochi giorni prima al Cairo la polizia aveva ucciso tale Karim al-Azizi, che gli americani indicavano come uno in qualche modo coinvolto nell’eccidio dell’ambasciatore Stevens. (Libya: Benghazi police chief assassinated)

Operazioni che sanno di «clean-up», la necessaria ancorché sgradevole «pulizia» che le agenzie come la Cia devono fare quando un’azione fallisce, per non lasciare troppe tracce o testimoni. La patetica richiesta di «spiegazioni» del governicchio libico agli americani per aver rapito un suo cittadino sul suo territorio senza permesso, non è stata creduta dai «terroristi islamici», anche perché, dice il figlio di Al Libi, quelli che l’hanno portato via erano tre uomini che parlavano un dialetto libico. Ne è conseguito il sequestro-lampo di Ali Zeidan, premier del governicchio suddetto, sospettato di collaborazionismo, l’ulteriore collasso dell’ordine stabilito nella Libia liberata.

Certo, solo un’ipotesi. Ma è vero che nel groviglio creato in Medio Oriente, il filo del Bene e quello del Male sono quasi impossibili da sceverare. L’intrico è così inestricabile, che a volte tiri un filo verde e ne viene fuori uno blu. Cerchi Osama e trovi Obama. Per esempio, lo sapevate?

Obama ha un Fratello. Musulmano...

Malik Obama
  Malik Obama
E questo Malik, il fratellastro keniota del presidente degli Stati Uniti è attualmente indagato in Egitto (l’Egitto dei generali) per il suo ruolo nel seno dell’Organizzazione islamica DAWA - IDO - domiciliata in Sudan, e per i suoi legami con i Fratelli Musulmani in generale.

Il procuratore generale del Cairo Hisham Barakat, accogliendo precise denunce, ha proposto che Malik Obama venga iscritto nella lista dei sorvegliati speciali stilata dalle autorità egiziane, e se si fa vivo, interrogato sulle sue azioni di finanziamento del terrorismo islamico tradizionale. Di questa organizzazione IDO, Malik è segretario esecutivo. Lo scopo dell’IDO è promuovere la versione wahabita (saudita) di Islam in tutto il continente africano. Secondo gli inquirenti cairoti, lo IDO è probabilmente associato allo International Islamic Council for Dawa and Relief, che confedera 86 organizzazioni musulmane, ed ha sede al Cairo. Suo segretario generale è Abdullah Omare Nasseef, il quale è anche presidente del Congresso Islamico Mondiale, una delle organizzazioni primarie della Fratellanza Musulmana. A complicare le cose, Nasseef è anche segretario generale della Lega islamica mondiale: che è un’organizzazione sponsorizzata dall’Arabia Saudita (molto nemica dei Muslim Brothers); ed ha fondato insieme al generale ed ex presidente pakistano Zia ul-Haq, il «Rabita Trust», braccio finanziario della Lega. Il Rabita Trust è sotto inchiesta da parte del Senato Usa, e indicato dalle Nazioni Unite come organo vicino ad Al Qaeda.

Malik è dentro tutto questo. Esattamente come e perché, noi non sappiamo. Ma la vice-presidente della Alta Corte (costituzionale) egiziana, Tahani al-Gebali, ha dichiarato durante una intervista alla catena Bitna: «Il fratello di Obama è uno degli architetti della strategia d’investimenti per l’organizzazione internazionale dei Fratelli Musulmani». Ed ha aggiunto, l’alta magistrata: «Faremo rispettare il diritto, gli americani non potranno impedircelo. Dobbiamo aprire i dossier... l’amministrazione Obama non può fermarci, sanno che hanno sostenuto il terrorismo. Apriamo i dossier ed esponiamo gli Stati che sostengono il terrorismo...».(Les frères Obama: protecteurs du terrorisme islamique saoudien)

Auguriamo lunga vita alla coraggiosa magistrata cairota, della cui salute – a dire il vero – cominciamo a preoccuparci. Ciò che ha detto concorda con quel che ha detto Saad al-Shater, figlio del dirigente dei Fratelli Musulmani Khairat al-Shater: quando papà è stato arrestato a fine agosto dalla polizia egiziana, il figlio ha detto di avere prove sufficienti «per mandare Obama in galera», e aveva aggiunto che il presidente Usa aveva mandato una delegazione al Cairo per far liberare suo padre ed alti esponenti della Fratellanza, al fine di scongiurare la pubblicazione di documenti esplosivi...

Sarà vero? La Casa Bianca ha deciso improvvisamente di tagliare – ma solo di poco – gli aiuti che dà tradizionalmente all’Egitto, e soprattutto ai militari egiziani: 1,3 miliardi di dollari su 1,55 miliardi di aiuti generici. La cosa ha irritato persino Israele, perché quel finanziamento e rifornimento faceva parte dei patti di pace fra Israele ed Egitto. Commentatori americani cadono dalle nuvole: a cosa serve un taglio «parziale»? Non ha alcun significato politico. Se Washington ritiene che i militari che hanno sbattuto fuori i Fratelli Musulmani abbiano torto, dovrebbe sospendere integralmente gli aiuti. Se li sostiene nel loro golpe, perché togliergliene una parte? Tanto più che Kerry s’è precipitato a balbettare che «il governo ad interim (del generale Al Sisi, ndr) comprende molto bene il nostro impegno americano al suo successo».

La mezza misura è riuscita ad irritare contemporaneamente i militari egiziani e i Muslim Brothers oggi perseguiti e clandestini, ed effettivamente non ha senso. A meno che ne abbia uno ben preciso: «avvertire» i militari al potere in Egitto che non è il caso di tirar fuori i dossier che riguardano il fratellastro Malik Obama, fratelloide musulmano.

E non si creda che i due fratelli (stessa madre diverso padre) non si frequentino. L’uno è stato testimone di nozze dell’altro. Malik Obama va e viene dalla Casa Bianca, e dirige le due fondazioni della famiglia. Una è la Barack H. Obama Foundation, macchina per il finanziamento della campagna elettorale che ha avuto guai col fisco americano per aver raccolto fondi deducibili dalle imposte senza avere lo statuto che lo consente, guaio poi sanato con i pagamenti delle imposte dovute. L’altra è la «Mama Sarah Obama Foundation», che – udite udite – accorda borse di studio per tre alte scuole in Arabia Saudita, specializzate nello studio della shariah: la Scuola Umm al-Qura, l’Università Islamica di Medina e l’Università islamica Imam Muhammad bin Saud, di Riyad. Insomma i legami della famiglia Obama con i monarchi sauditi e i loro interessi sembrano essere altrettanto stretti di quelli che la famiglia Bush intratteneva, e intrattiene ancora, con la ricca e numerosa famiglia Bin Laden.

Obama ha favorito inizialmente i Fratelli Musulmani in Egitto, salutando la loro vittoria elettorale come un trionfo della democrazia... L’attività di fratel Malik Obama c’entra per qualcosa. Ma perché? Interessi finanziari? O il tentativo di condurre una ambigua politica «in proprio» del presidente americano, di nascosto dalla nota lobby? Resta il fatto che Barak Hussein Obama, in nome dei diritti umani, ha distrutto il regime laico di Gheddafi, per abbandonare la Libia nel caos dominato da milizie islamiste, signorotti della guerra e pure e semplici bande criminali dedite ai sequestri di persona. E voleva far lo stesso con la Siria: e non vi hanno veramente rinunciato, dopo due anni e mezzo di devastazioni, oltre 100 mila morti, 8 milioni di rifugiati e profughi, la città martire di Aleppo, capitale economica, saccheggiata e dalla infrastrutture (ospedali e scuole comprese) distrutte, fosse comuni di trucidati dai «ribelli» perché alawiti o cristiani, cannibalismi, esecuzioni...

Il vero e profondo perché, ci sfugge. Entrano in gioco forze ed intelligenze, a cui confessiamo di essere troppo al disotto, in questo mondo.



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