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Putin ci faceva un favore a stare in Europa
03 Febbraio 2015
«Il South Stream non si farà più. Gazprom non ha più soldi per atti di generosità, dato il prezzo del greggio crollato. D’ora in poi, la costruzione di nuove pipeline sarà dettata dal calcolo puramente economico, dalla necessità di fare cassa». Una conversazione un po’ casuale e un po’ interrotta con un esperto di mercati petroliferi, mi ha aperto uno scenario più grave e temibile di quanto immaginassi. Gli avevo chiesto, in realtà, quanta verità ci sia nella promessa o minaccia della Russia di far arrivare parte del gas che serve a noi italiani in Grecia attraverso la Turchia, sia aumentando la portata del gasdotto esistente fra Turchia e Russia (il Blue Stream) sia costruendone un altro. Con ciò, Mosca libererebbe sé e noi dal ricatto ucraino, attraverso i cui tubi passa la fornitura energetica per l’Italia, e farebbe della Grecia il terminale primario da cui dovremmo servirci. L’esperto ha scosso il capo: «Gazprom è interessata a fornire il cliente-Turchia perché quella turca è la sola economia che cresce in Europa, ammesso si possa parlare di Europa in questo caso. A questo scopo, il Blue Stream basta per rifornire il cliente, e anche per la sua crescita futura prevedibile. Se si farà un secondo gasdotto, sarà solo per servire la Turchia e la sua crescita. L’Italia, come l’Europa tutta, è un’economia in declino storico, che consumerà sempre meno, e come cliente diventa ogni giorno meno interessante per una Gazprom. L’interesse che Mosca aveva per noi era politico più che economico. Adesso non ha più i mezzi per questo favore politico. Adesso, Gazprom si deve rivolgere verso la zona del mondo in tumultuosa crescita economica, dove si ricavano profitti veri: la Cina, l’India, il Sud-Est Asiatico». Dunque, non si pensi più che se l’eurocrazia istigata dagli USA cessasse di sanzionare la Russia e consentisse di riaprire i commerci, Putin e Gazprom sarebbero felici di tornare a fare affari in Europa, comprare le nostre merci in cambio del petrolio e gas. «Il rovesciamento di direzione verso Est, verso i grandi clienti asiatici, è permanente, perché necessitato dall’economia: è là che c’è la crescita. Per contro, l’intero Occidente è in decrescita; non solo l’Europa ma gli USA, nonostante le statistiche». Statistiche occupazionali falsificate, crescita illusoria sostenuta dalle mostruose iniezioni di dollari creati dal nulla dalla FED. E tuttavia, l’economia reale, quella produttiva americana, è in complessivo declino dal 2008, e non si risolleva. «È l’intero baricentro del mondo che ha cambiato posizione, ha spostato il suo peso dall’Ovest all’Est. Ed è un peso enorme», mi dice l’interlocutore. «Basta vedere il crollo dei prezzi petroliferi per accorgersene». I prezzi del petrolio passati da 100 a 40, in pochi mesi – chiedo – non solo effetto di manipolazioni saudite per gettare fuori mercato gli americani con il loro gas di scisti, o punire Putin? La manipolazione può aver prodotto «un primo calo, magari; ma un simile collasso dei prezzi non se l’aspettava nessuno. Nemmeno i sauditi, mi creda», mi dice l’interlocutore. Col prezzo a 100 dollari e oltre, troppi investimenti sono andati alla produzione del greggio, attratti dalla speranza di alti profitti; da qui la crisi di sovrapproduzione, che ha fatto calare i prezzi. Ma ad aggravare e rendere maligno il ribasso dei prezzi, a trasformarlo in crollo, è stata la domanda: l’Occidente ne richiede sempre meno. Un po’ per una superiore efficienza energetica, molto perché la domanda è permanentemente diminuita. C’è meno attività produttiva in tutto l’Occidente. Abbiamo tutti abbassato la manopola del fornello, ci basta poco gas perché siamo vecchi, siamo in deflazione, siamo demograficamente in calo, siamo perdenti sui mercati mondiali che contano, e le merci industriali, invece di produrle noi, le importiamo dalla Cina. Già. Il mio telefonino è un LG, conglomerato cinese. Anche il mio nuovo frigo è un LG, stessa ditta (un tempo era Candy o Indesit, ora non più). Simbiosi con Pechino Costretto dalla ostilità europea agli ordini di Washington, Putin, come si ricorderà, ha stretto con Pechino un patto trentennale per la fornitura di gas russo, al costo per la Cina di 400 miliardi di dollari: miliardi. Il prezzo inizialmente sembrava basso, poco favorevole a Gazprom; ma alla luce dei nuovi prezzi attorno a 40 dollari, la cosa cambia. È il vantaggio dei contratti a lungo termine, quali proponeva il nostro Enrico Mattei coi Paesi petroliferi: convenivano a noi compratori, e convenivano al venditore che si sottraeva alla «volatilità dei mercati» manipolati dalle Sette Sorelle, potendo contare su un’entrata sicura e stabile sulla base della quale concepire i suoi piani di sviluppo. I cinesi hanno «troppi» dollari di riserve. E li stanno investendo freneticamente nelle aree asiatiche della Russia e alleati vicini. Si veda l’enorme progetto – per cui sono stanziati 242 miliardi di dollari fra i due Paesi – per una linea ferroviaria ad alta velocità che unirà Mosca a Pechino: un percorso 7 mila chilometri , che in parte ricalcherà la vecchia Transiberiana, ma ridurrà i tempi da 6 giorni a due: 48 ore fra Mosca e Pechino. Non c’è dubbio che questo forte investimento darà ritorni altrettanto forti, e non solo in termini monetari: una simile linea farà concorrenza a navi e persino ad aerei per il trasporto cargo (infatti Mercedes e BMW sono interessatissime ad esportare via terra le loro auto di lusso in Cina), ed apre una via maestra all’immigrazione cinese nelle aree spopolate della Siberia e delle ex-repubbliche asiatiche: un beneficio dubbio per la Russia demograficamente sfavorita, e un incubo storico per Mosca, che ha tentato invano di sviluppare e popolare le vaste, potenzialmente ricche e gelide regioni della taigà. Adesso è stata formulata una evidente rivalutazione del problema e delle sue opportunità: Putin ha da poco creato un nuovo ministero per lo Sviluppo dell’Estremo Oriente, mettendoci a capo un trentanovenne. La Cina dal canto suo ha progetti per investimenti fisici verso la Russia del valore di 113 miliardi di dollari, in aggiunta ai 242 miliardi per la nuova ferrovia. Particolare istruttivo, Mosca aveva dapprima impegnato la francese Alstom, costruttrice di Tgv (trains grand vitesse), a cui aveva commissionato il primo tratto di lavori fra Mosca e Kazan. Dopo che Hollande, su ordine USA, ha rifiutato di consegnare la nave da guerra Mistral già pagata da Mosca, la commessa ferroviaria è passata alla China Railway High-speed (CRH), una sussidiaria della China Railway (CR), compagnia di Stato, che si affianca in joint venture alla russa Uralvagonzavod. E non si è trattato di un ripiego, di una seconda scelta tecnologica: la China Railways ha creato e gestisce la sola monorotaia a levitazione magnetica, ha progettato e costruito la prodigiosa Pechino-Lhasa, 1956 chilometri di sfide tecnico-scientifiche vinte: dalla necessità di gettare i binari sul permafrost senza che si sciolga (problema risolto genialmente con l’immissione di aria ambiente, sempre fredda, nel permafrost stesso), fino alla sovralimentazione dei motori delle locomotive, costrette a salire fino al passo tibetano Tanggula (5.072 me tri sul livello del mare), quando l’ossigeno atmosferico diminuisce del 40 per cento e il rendimento dei motori diesel cala di altrettanto. Per non parlare dei vagoni pressurizzati e forniti di respiratori ad ossigeno per passeggeri... Esistono progetti per prolungare tale linea fino al Nepal — e da lì all’India, se l’India vorrà. La costruzione dei 7 mila chilometri della neo-Transiberiana, come sempre accade, fornirà alla China Railways nuove sfide e dunque di accumulare inedito know-how, esattamente quello che la Francia perderà. E in Europa? «In Europa (e USA) invece si gioca al ribasso, al non costruire nulla; a risparmiare sugli investimenti in economia reale, cioè nella creazione di vera ricchezza con ritorni nel futuro prossimo. E invece ad “investire” in trucchi finanziari da illusionista. Ad “investire” in economia fittizia senza relazione alcuna (se non di mutual destruction) con l’economia reale», come scrive l’amico Umberto Pascali, giornalista di Washington. Putin voleva fare della Russia parte dell’Europa, quale essa è spiritualmente, culturalmente e politicamente. Con una visione grande che manca ai nostri politicanti, ci faceva un favore con il South Stream. L’Europa sotto controllo USA gli ha risposto con minacce e sanzioni autolesioniste. Quale è lo scopo? Brzezinski l’aveva delineato da decenni: «Privata dell’Ucraina, la Russia diventa una potenza asiatica secondaria». Questa profezia sta avverandosi in un modo forse spiacevole per Brzezinski, Washington e Berlino-Bruxelles: l’alleanza con la Cina sta diventando simbiosi, non più rovesciabile nemmeno dal «cambio di regime» che Washington promuove e che sta forzando con il crollo del prezzo petrolifero. Del resto, come mi dice l’esperto di mercati energetici, il prezzo del petrolio così basso non può durare a lungo: la chiusura massiccia e accelerata delle infrastrutture che lo producono a costi non competitivi (come l’industria-bluff dello shale americano) fa già sentire i suoi contraccolpi sull’economia di USA, Canada, Norvegia, Regno Unito. E non basta. Come mi scrive Pascali, «Il terrorismo & guerre made in USA avranno l’effetto di spingere alla non produzione aree sempre più vaste. Pensa quanto stanno producendo l’Iraq, la Libia, Yemen, Sudan, Nigeria etc., devastati». Più mercato per i servetti sauditi che poi devono dare il cut del 90% ai loro padroni angloamericani. Facile previsione: il petrolio tornerà a salire per scarsità di offerta, ridando vento finanziario alle vele di Vladimir. Il mio esperto prevede il rialzo entro l’anno e mezzo (Putin ha riserve finanziarie sufficienti a tener duro), ma forse avverrà prima: già il Brent è rincarato dell’8% in pochi giorni, fino a 53 dollari, un 7 dei pozzi americani è stato disattivato. Ciò mentre in Europa si riduce la torta produttiva «e l’unica soluzione proposta da questi geni è quella di mangiare sempre di meno e godersi le gioie dell'auto-cannibalismo», mi scrive Pascali. Proprio per non lasciare che il tempo agisca a favore di Mosca, Obama (o i poteri da cui è il posseduto portavoce) rialza la posta della sua roulette mortale, minaccia di fornire tre miliardi di armamenti «letali» al regime di Kiev: un regime in piena disfatta militare e morale, bancarotta economica politica. «Il Paese è fallito, e il denaro che dovrebbe aiutare la popolazione che soffre della crisi, viene semplicemente rubato; il gas è rubato dai gasdotti; un oligarca vende ai suoi propri miliziani i giubbotti antiproiettile a tre volte il loro prezzo», ha raccontato il regista russo Nikita Mikalchov. Gli americani hanno incitato questo loro fantoccio marcio e impotente a violare la tregua di Minsk per tentare la spallata ai ribelli del Donetsk, quella che avrebbe costretto Mosca a intervenire direttamente. Il risultato è l’ennesima sacca in cui sono chiusi senza scampo a 7 mila reclute (a cui Alexander Zakharchencko, il «primo ministro» della repubblica del Donetsk ha promesso salvezza ed asilo, se depongono le armi), morti e feriti incalcolabili (i servizi di sicurezza di Kiev hanno vietato agli ospedali d i dare le cifre dei ricoverati militari e civili), diserzioni in massa, la fuga dei richiamati davanti alla quarta «mobilitazione totale» in un anno (gli alberghetti della Romania alla frontiera sono pieni di giovani ucraini espatriati per non farsi arruolare, il 57% dei chiamati della regione di Ivano-Frankovsk non hanno risposto alla cartolina precetto): insomma gli ucraini non si vogliono battere, questa guerra potrebbe finire domani per mancanza di armati di Kiev, e per la perdita totale di legittimità del regime agli occhi della sua stessa popolazione. Lo spettro della fine è così imminente che i «volontari di Maidan», i neonazisti addestrati ed armati dai polacchi coi fondi americani di Barbara Nuland, rabbiosi e disperati, minacciano di rovesciare il Governo di Yatseniuk e Porochenko; il Battaglione Aidar (i paramilitari che hanno sparato a Maidan e formato le squadre di punizione assassine), hanno cercato di penetrare nel ministero della Difesa, fra scontri e nel caos. È a questo «governo» senza domani e senza scopo, che ora Obama vuol dare ancora più armi, specie missili anticarro ed artiglieria avanzata, forse droni ed elicotteri d’assalto, perché continui a combattere straziando ancora la popolazione. L’ha detto in una agghiacciante intervista alla CNN, delineando la strategia: «Sforzarsi affinché la Russia accusi le più pesanti perdite. Ci muoveremo su due piani: aumentare la pressione sulla Russia e rafforzare l’Ucraina." Un nuovo Vietnam in Europa Sembra proprio l’ennesima riedizione della politica americana in Vietnam: guerra per fantocci interposti, su territorio altrui, allo scopo (strategicamente torbido) di provocare l’esaurimento dell’avversario per attrizione ; escalation graduale dello sforzo bellico indiretto di fronte alle sconfitte dei fantocci, con nuove forniture di armi sempre più «letali», e impegno sempre più massiccio evidente di «istruttori militari» americani sul terreno, fino al coinvolgimento diretto della US Army, US Air Force, US Navy... in Vietnam, questa pessima strategia, basata su falsità, priva di nettezza intellettuale, s’è conclusa con la nota fuga vergognosa della superpotenza da Saigon. Ma è la strategia preferita dal sistema militare-industriale USA: consuma materiali, assicura commesse miliardarie dal Pentagono, fa bene al business. Potremmo assistere equanimi all’inevitabile esito di questo riarmo americano degli ucraini; ma esso avviene sul territorio europeo. La devastazione americana si opera sulle foreste e i campi ucraini alla cui fertilità è affidata ogni speranza di sviluppo, affama e priva di tetto civili europei, riduce allo stato miserabile e violento in cui ha ridotto Libia e Iraq, una società europea, da cui sono nati Gogol e Bulgakov (che scrissero in russo). Insomma l’America apre un gorgo in cui vuole farci inghiottire tutti noi europei, membri della NATO. «Un popolo non potrà mai comprendere cos’è la guerra se non l’ha conosciuta come presenza di un aggressore straniero sul proprio territorio», ha scritto il regista Mikalchov. Gli americani non l’hanno mai provata. La Russia l’ha nella propria memoria violenta e dolorosa come una ferita sempre aperta, da Napoleone fino alla battaglia di Stalingrado. «Non capiscono che qui è l’ultima frontiera: qui, non abbiamo più una parte dove andare. Oggi, noi (la Russia) siamo il solo paese che può ancora dire ‘no’ a questo mondo di aggressione. Il solo. Gli altri si tengono dietro a noi, non perché li andiamo a difendere, ma perché, più di chiunque altro, possediamo l’esperienza plurisecolare della difesa della nostra patria. Ed è una cosa sacra. Non si tratta di quante bombe e cannoni hanno loro e noi. È il fatto di sentirsi combattenti fino al midollo spinale». Ciascuno di noi servi pavloviani dell’America dovrebbe meditare queste parole gravi. Dovrebbero ascoltarne il tono ciascuno dei nostri politicanti flaccidi, superficiali, irresponsabili i abituati a ricevere ordini da altri che stanno in altri continenti. Dovrebbero riferirlo le tv europee che zombificano le nostre masse, i burocrati di Bruxelles dovrebbero prenderle molto sul serio.. E invece no. I nostri politici eletti e non-eletti ci stanno conducendo nella direzione più distruttiva e sbagliata che la storia europea abbia mai conosciuto. Alla più grossa sconfitta economica, strategica, e culturale. Ci stanno dando il rincaro dell’energia, la perdita di mercati di sbocco e la Russia che ci avrà voltato le spalle, e forse ci dovrà considerare nemici bellici, nuovi aggressori della terra «da cui non hanno parte dove andare», che li fa «combattenti fino al midollo spinale». Avremo la forza di punirli per quel che ci stanno facendo?
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