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Le europee: sarà Schultz. O Juncker. Decide la Merkel
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A poche ore dal voto europeo, si può tornare sobri? Partiti e media complici sono riusciti a trasformarlo in politica interna: ossia nella solita rissa da condominio italiota, o meglio tra ubriachi in un basso napoletano. Promesse da ubriachi («aumento le minime a mille euro!»), insulti demenziali («assassino!», «vaffanculo!», «Vinciamo noi!»), il solito referendum pro e contro il nemico pubblico del momento, stavolta Beppe Grillo. O pro e contro il governicchio Renzi.

Giusto per fare un confronto, posto qui un esempio di propaganda per le Europee che si fa in Francia:



Come vedete, i socialisti francesi dichiarano di volere Schulz, un tedesco, a presidente della Commissione europea. I socialisti francesi, insisto: quelli che hanno vinto le elezioni politiche, ed hanno attualmente il loro uomo alla presidenza della Repubblica. Ma gli strateghi del partito socialista hanno organizzato la scomparsa di Hollande: nessuna apparizione in tv, nemmeno una sua foto su un manifesto, mai il suo nome in un solo volantino, altrimenti i francesi non votano PS — e loro non possono premere per il loro candidato... Schultz . In compenso il capo reale del Governo, Manuel Valls, si sta prodigando per la propaganda: è andato per questo perfino in Spagna, suo Paese d’origine.

Naturalmente, anche l’annuncio socialista francese è basato su una menzogna (si vede che i filo-euro non possono farne a meno): fanno credere ai cittadini francesi che «per la prima volta possono eleggere il presidente della Commissione Europea» , promossa nei dibattiti tv addirittura al «governo d’Europa».

Ma nulla è meno vero. Il presidente della Commissione non viene votato dal Parlamento europeo, che è e resta privo di ogni reale potere. A scegliere il successore di Barroso sono, per statuto, «i capi di Stato e di Governo» dell’Unione, i quali lo faranno «tenendo conto delle elezioni al Parlamento europeo»: se vogliono. Perché non hanno alcun obbligo di tener conto di quel che esce dal voto a cui stiamo andando. Angela Merkel, almeno lei, ha detto questa verità nascosta ai tedeschi: non c’è «alcun legame automatico fra il numero di voti e la carica da coprire», essi hanno solo «un valore indicativo».

Ed ha aggiunto: «Avremo molto da discutere a partire da domenica»: Cosa significa? Significa che da domenica non si proclama il presidente; cominciano lunghe trattative, negoziati, do ut des, tutte cose in cui i politici italiani sono incapaci da noi, e tagliati fuori in Europa non fosse che per deficit linguistico, e se sono grillini, a cui sono contrari per principio di purezza ideologica.

Nei fatti, sarà la Merkel, col blocco dei suoi satelliti (Austria, i baltici, Olanda, Lussemburgo) a decidere chi succederà a Barroso. I candidati ufficiali alla presidenza sono cinque (uno solo del Sud, il povero greco Tsipras) (1); nella realtà, la scelta si riduce al socialista tedesco Martin Schulz , e al conservatore lussemburghese, massone e tedesco d’onore, Jean-Claude Juncker.

La UE somiglia sempre di più all’impero del Kaiser, dove la dozzina di piccoli principati di lingua tedesca erano stati raccolti da Berlino sotto una «unione doganale», non politica: il motivo per cui Anhalt o Lubecca potevano dire la loro in base al peso che avevano (minimo) , ma era la Prussia che comandava — estendendo i suoi codici civili e penali, il suo ordinamento militare e insomma il suo stile di obbedienza da caserma agli altri. Ecco qui sotto la mappa dell’impero germanico, il Secondo Reich: in blu è la Prussia. Esattamente uno stato di liberi e uguali, come la UE.



Torniamo al reale: la scelta del presidente sarà una questione di politica interna – questa volta sì tedesca.

Angela Merkel sta soppesando se mettere a quel posto Schultz: suo avversario politico, però nello stesso tempo esponente del partito socialdemocratico tedesco con cui la Cancelliera ha fatto coalizione di governo. Invece di litigare come nel condominio italiota, in Germania il problema si risolve trattando, nel quadro del comune destino che lega l’uno e l’altra. Le trattative sono già in corso da tempo, a nostra insaputa: già nell’ottobre 2013 Der Spiegel ha spifferato che Schultz aveva promesso ad Angela di cooperare, se lei lo mette all’alta carica eurocratica, il progetto di riforma europea voluto dalla Merkel. Che Dio ci salvi.

Ma da quando Schulz s’è un po’ troppo sbilanciato in dichiarazioni pubbliche sulla «crescita» (meno rigore), Angela s’è impensierita: ha intravisto il rischio che Schulz usi il suo mandato europeo per guadagnare popolarità interna, e presentarsi come avversario e temibile concorrente al Cancellierato, ossia alla sua poltrona. Mettendo in forse anche la fragile coalizione CDU-SPD su cui lei, CDU , domina.

Da democristiana, Frau Merkel conosce e pratica la politica dei due forni (Ah Andreotti, quanto ci manchi!). Così ha scelto lei il secondo candidato, Juncker, da presentare come concorrente di Schulz. È stata lei in persona ad imporlo come capo-lista dello schieramento conservatore alle europee, contro i vistosi mal di pancia del PPE: Juncker è un dinosauro eurocratico. Ultimo negoziatore del trattato di Maastricht ancora in attività (era ministro delle finanze lussemburghese nell’84), membro del Consiglio dei capi di Stato e di Governo da ere geologiche (1995-2013), annoso caporione dell’Eurogruppo (2004-2013), è l’incarnazione dell’eurocrazia austeritaria; per giunta è il gran difensore dei paradisi fiscali interni alle UE – per forza, essendo ex premier del Lussemburgo. Persino Sarkozy lo ha sempre considerato u po’ troppo “tedesco”. (Merkel et Juncker, couple vedette d'un «House of Cards» bruxellois)

La Merkel ha tirato fuori dai ghiacci questo fossile vivente, il quale non perde occasione per proclamarle la sua gratitudine e riconoscenza. Non ha nemmeno fatto campagna, come se l’appoggio della Merkel bastasse. E forse basta...

In ogni caso, la scelta è fra Schulz e Juncker. E a deciderla, sono considerazioni di politica rigorosamente interna, berlinese.

E i candidati italiani, che sono votati fra urla e strilli, fra promesse di Governo e di repulisti, di processi alla stampa, di esibizioni di Dudù, minacce di rovesciare l’Europa come un calzino, di battere i pugni sul tavolo eccetera?

Dopo tanti strilli, mandiamo a Bruxelles, in un Parlamento senza capacità decisionale, 73 deputati. Sui 751 che compongono detto Parlamento: che sùbito si divideranno tra gli otto gruppi, e quindi diventeranno ancor meno determinanti di quanto si siano resi in patria spaccandosi nell’eterna guerra civile, rifiutando di consentire ad un piano comune nell’interesse dell’Italia. Dal PPE, Berlusconi, coi suoi quattro gatti, sarà buttato fuori, finendo in isolamento. Se gli va bene, Grillo manderà a Bruxelles una ventina di grillini. Che sùbito proclameranno, come al solito, che loro non si alleano con nessuno. I deputati anti-europei, secondo i sondaggi, dovrebbero arrivare a 200: su 751, bastanti per destabilizzare l’inutile Pparlamento. Il Front National, con gli olandesi anti-euro e forse con l’UKIP, proverà a farne un gruppo unito: Grillo li disprezza, vuole il 100%, «abbiamo già vinto», «mandiamoli a casa tutti», «vaffan...».

Mai che si sia parlato di: fiscal compact, ossia del nostro obbligo di ridurre il debito pubblico del 30% annuo per vent’anni, ossia di fare per vent’anni tagli da 40 miliardi l’anno. Nemmeno una parola sul Trattato Transatlantico che procede in segreto, e che ci assoggetterà alle normative americane, OGM e vitelli all’estrogeno compresi. Niente sulla rottura che Bruxelles ha provocato, con Putin e la Russia sull’Ucraina, e che ha danneggiato i nostri interessi fondamentali (2).

Davvero tutta questa campagna elettorale è stata «come il discorso di un pazzo, pieno di furore e di foga, e che non significa nulla» (Shakespeare, Amleto).




1) Gli altri sono il belga liberale Guy Verhofstadt, l’ecologista tedesca fanatica Ska Keller, il greco super-comunista Alexis Tsipras con la sua corte dei miracoli girotodina italiota. Il solo che ha qualche possibilità reale è il belga (fiammingo, dunque «tedesco») Verhofstadt, se la scelta fra Schulz e Juncker va’ in stallo.
2) Per i lettori che certamente mi accuseranno di essere distruttivo e non avanzare proposte, propongo le considerazioni e proposte nell’ultimo libro di Giulio Tremonti, come lo cita l’EIR n.21 : «....Tremonti ha pubblicato un nuovo libro, Bugie e Verità: La ragione dei popoli (Mondadori, marzo 2014), in cui affronta nei dettagli la crisi dell'euro e i suoi riflessi in Italia negli ultimi anni, spiegando che cosa è stato fatto da entrambe le parti, per poi proporre un nuovo approccio per far sì che il paese riacquisti la propria sovranità e torni a pesare sulla scena internazionale. Nel libro Tremonti affronta anche il tema dell’uscita dell'euro. Tremonti parte dicendo che “uscire dall’euro è più facile dirlo che farlo. Servirebbe un governo vero e forte”. La sua posizione è che uscire dall'euro sarebbe in realtà molto difficile se non impossibile per il paese. Se non hanno fatto uscire nemmeno la Grecia, cosa farebbero se ci provasse l’Italia? Quali condizioni sarebbero imposte per gli acquisti dall'estero dopo un'eventuale svalutazione? Visto che una fetta del debito pubblico italiano è ancora in mani estere o comunque dipende dall'Europa, “Basterebbe un nulla, un annuncio, una tendenza, per fare saltare tutto. Per esempio, basterebbe cominciare a lavorare contro una banca italiana, magari qui sperimentando di fatto un primo bail-in, per seminare il panico tra la nostra gente”. Purtroppo l'Italia è un vaso di coccio dice Tremonti, e “la 'battaglia dell'euro', pur se popolarmente suggestiva nella sua configurazione, dovrebbe comunque essere molto ben preparata, se no potrebbe essere romantica, ma come una carica della cavalleria polacca contro i carri armati, o tragica come un 'atto assoluto', come cavalcare una tigre. Può non piacere, si ripete, ma è così”. Per trovare comunque “una soluzione alternativa all'uscita dell'euro, o preparatoria rispetto a questa”, Tremonti fa una serie di proposte, a partire dal rimpatrio del debito pubblico, che rimuoverebbe l'arma di ricatto che viene utilizzata per costringere l'Italia a seguire i diktat. Una misura che è “necessaria tanto per restare nell'euro, quanto per uscirne”. Si tratta di far acquistare una fetta significativa dei titoli pubblici agli italiani, dichiarandoli “esenti da ogni imposta presente e futura” e eventualmente fornendo anche ulteriori incentivi per garantire il successo dell'operazione. In questo modo ci si potrà “proteggere contro la forza della speculazione internazionale”, e tornare a far sentire il proprio peso in Europa, piuttosto che subire le imposizioni di paesi come la Germania. Battersi per i propri interessi, attraverso anche una rinegoziazione del cambio interno, sfavorevole per l'Italia, significa poi prendere una serie di misure per salvaguardare e far crescere l'economia italiana, di cui forniamo qui un elenco parziale: 1) gli eurobond, non per fare più debito pubblico ma per ridurre il peso e il rischio della speculazione finanziaria internazionale; 2) contestare la logica del Fiscal Compact; 3 l'Italia non deve più contribuire al fondo salvabanche nella misura del 18%, ma in base alla sua reale esposizione al rischio; 4 proteggere la produzione, a livello europeo; 5 separazione tra credito produttivo e attività speculativa; 6 contestare il bail-in; 7 dare alla Bce il potere di intervenire sul cambio». Ecco qualche proposta. Mai entrata nella rissa-spettacolo pubblica.



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