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La conversione degli ebrei
05 Aprile 2011
Un lettore scrive a Copertino: «Egregio dottor Copertino mi aiuti a capire questa frase... e a interpretarla nella giusta maniera e con equilibrio, come molto bene sa fare lei. Dal nuovo libro del Papa, ne parla qui Tornielli Ecco il nuovo libro su Gesù, la Chiesa non si preoccupa di convertire gli ebrei. Il Papa cita Hildegard Brem, la quale, commentando un passo di Paolo, afferma: “La Chiesa non deve preoccuparsi della conversione dei giudei, perché occorre aspettare ‘il momento stabilito da Dio quando la totalità dei gentili avrà raggiunto la salvezza’ (Romani 11,25). Al contrario, i giudei sono essi stessi una predica vivente, alla quale la Chiesa deve rimandare, perché richiamano alla mente la passione di Cristo...”. “Nel frattempo Israele - scrive Ratzinger - conserva la propria missione. Sta nelle mani di Dio, che al tempo giusto lo salverà ‘interamente’, quando il numero dei pagani sarà completo”. Grazie, cordiali saluti e che Dio la aiuti e la illumini sempre nel suo prezioso lavoro di scrittore.
Enzo»
Premetto che non ho ancora letto il nuovo libro del Papa su Gesù. Tuttavia quel che il lettore riferisce si inserisce del tutto in un contesto paolino. San Paolo, infatti, non ragionava ancora in termini di ebrei e cristiani ma per lui, da buon fariseo, la distinzione fondamentale era quella tra ebrei e gentili. Secondo l’ebraismo, Dio ha scelto gli ebrei per portare il monoteismo ai gentili pagani. Ma questa elezione è una sorta di marchio per il quale Israele da un lato è chiamato a soffrire ma dall’altro è chiamato ad un primato spirituale che alla fine dovrà essere riconosciuto dai gentili, quando questi ultimi saranno approdati al monoteismo. La difficoltà di questa posizione è evidente: quando mai i gentili potranno accettare la fede in un Dio che contestualmente comporta anche la sottomissione ad un popolo? Sottomissione che – oggi ma non ieri – viene presentata certamente come spirituale e che però facilmente può tralignare in ben altro tipo e comportare, come nel caso del sionismo a matrice religioso-fondamentalista, una pretesa di superiorità politica. E’ evidente che senza Cristo non si comprende il senso vero ed autentico della vocazione di Abramo e della Legge di Mosé, che costituiscono l’unica radice dell’elezione di Israele unico popolo, in quei tempi, monoteista in un mondo pagano. L’elezione di Israele era, infatti, in vista del Cristo Venturo che avrebbe aperto, universalmente, a tutti i gentili l’Alleanza stretta da Dio con Abramo per tutta l’umanità. Cristo, perciò, come comprese Paolo, aveva abolito ogni distinzione tra greco e giudeo e di tutti aveva fatto un unico Nuovo Popolo di Dio, popolo teologale. Ecco perché la Chiesa ha sempre affermato di essere il Vero e Nuovo Israele nel quale la teologalità insita nel Vecchio Israele secondo la carne è finalmente giunta a maturazione, liberandosi dalle pastoie e dalle costrizioni etniche necessarie nell’economia dell’Antica Alleanza ma ora non più essenziali. Una maturazione che però comportava, e comporta, l’abbandono da parte degli israeliti autentici di ogni residua pretesa di specialità. Esattamente quel che fece San Paolo e, nei secoli, hanno fatto gli israeliti che, portando a compimento la loro fede, sono approdati a Cristo. Ciononostante una parte di Israele, dice San Paolo, non ha accettato Cristo e si è posto così al di fuori della Rivelazione. L’Apostolo, nel capitolo 11 della Lettera ai Romani, prende atto di questo stato di cose con l’immagine dei «rami recisi dall’Olivo Santo” al cui posto sono stati innestati gli olivastri, ossia i gentili. Infatti, nei primi secoli la diffusione della fede cristiana trovò da parte della sinagoga forti ostacoli. Per quegli ebrei che non avevano accolto Cristo Messia, l’idea che Dio avesse equiparato ebrei e gentili era considerata assurda. Al massimo si accettava il proselitismo ossia l’ammissione, in subordine, dei gentili alla fede ebraica ma non alla dignità spirituale di israelita. Proselita, ad esempio, era quel Cornelio che, negli Atti, chiede a Pietro di entrare in casa sua ricevendone inizialmente una risposta negativa, ragionando ancora il primo Papa come un buon ebreo. Di questa prevenzione ed opposizione da parte ebraica restano diverse testimonianze scritturali. Ad esempio in 1Ts 2,14-16, ove San Paolo, rivolgendosi ai gentili cui egli stesso aveva portato la fede, così si esprime: «Voi infatti, fratelli, siete diventati imitatori delle Chiese di Dio in Gesù Cristo, che sono nella Giudea, perché avete sofferto anche voi da parte dei vostri connazionali come loro da parte dei Giudei, i quali hanno persino messo a morte il Signore Gesù e i profeti e hanno perseguitato anche noi; essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini, impedendo a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano la misura dei loro peccati! Ma ormai l’ira è arrivata al colmo sul loro capo». Ebbene, è qui evidente che l’Apostolo vuole incoraggiare i pagani convertiti e perseguitati dagli altri pagani additando loro le sofferenze degli ebrei che hanno riconosciuto in Cristo il Messia e sono perseguitati dagli altri ebrei. La colpa di questi ultimi, irretiti dai loro capi religiosi (che sono solo essi, e non tutti gli ebrei, i veri responsabili della morte del Signore), è per l’Apostolo esattamente quella di voler impedire di predicare ai pagani e di portare loro la salvezza. Paolo spiega questo mistero con il fatto che Israele ha urtato contro la «pietra d’inciampo» secondo quanto era scritto «Ecco che io pongo in Sion una pietra di scandalo e un sasso d’inciampo; ma chi crede in lui non sarà deluso» (Romani 9,33). Questa caduta di Israele, per l’Apostolo, si è resa necessaria proprio per far arrivare la salvezza a tutti i gentili. La momentanea recisione di Israele non è per sempre ma limitata al tempo nel quale anche i gentili sono chiamati alla salvezza in Cristo. Ai cristiani di provenienza pagana Paolo raccomanda di non essere presuntuosi e ricorda che: «l’indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti» (Romani 11,25). La Porta per la quale si entra nell’Alleanza è infatti Cristo. E solo Lui! Non l’Israele post-biblico! Quando gli ebrei saranno entrati nella Chiesa di Cristo, allora tutto Israele, ossia sia quello proveniente dal mondo pagano che quello proveniente dal mondo ebraico, sarà salvo ed ogni barriera sarà definitivamente abbattuta nella Misericordia che Dio userà a tutti, dopo aver tutti, prima i pagani e poi gli ebrei, chiuso nella disobbedienza (Romani 11, 28-32). Questo significa che gli ebrei riconosceranno la Divino-Umanità Messianica di Cristo e abbandoneranno ogni residua pretesa di specialità fondendosi insieme ai cristiani di provenienza pagana nel Nuovo Israele che è la Chiesa cattolica, ossia Universale. Una prospettiva ineluttabile che però fa ancor oggi scalpitare e fremere di riluttanza gli israeliti, convinti erroneamente di essere ancora un popolo speciale e soprattutto distinto dai gentili. Si noti che, in quest’epoca nella quale si è abusato del concetto di antisemitismo, che è un fatto razziale e moderno, legato al positivismo ed alla teosofia massonica tedesca del XIX secolo, certuni sono arrivati all’assurdo di ritenere che la radice del razzismo antisemita starebbe proprio nella stessa fede cristiana che promette, escatologicamente, la conversione degli ebrei e l’abbandono da parte loro della pretesa di specialità (cristianamente parlando, un tempo certa e necessaria ma oggi, dopo Cristo, non più sostenibile, checché ne dicano tanti esegeti e teologi alla moda ma in divergenza con la Rivelazione e la Tradizione). Penso dunque che il Papa, nelle frasi da riportate dal lettore, abbia inteso ricordare il magistero di San Paolo, che ha tra l’altro citato, ed abbia voluto spiegare ai cristiani che sono inutili tutti i tentativi di conversione degli ebrei (tentativi che in effetti, nei secoli passati, hanno comportato anche vere mancanze di carità da parte di certi cristiani) tanto verrà inevitabilmente il momento, che Dio ha già stabilito, nel quale finalmente alla sinagoga, volente o nolente, cadrà la benda che ha attualmente sugli occhi, secondo l’espressiva iconografia medioevale. Come dire: cari cristiani è inutile che vi rodiate il fegato per la loro attuale caparbietà e superbia. Lasciate fare al Signore. Ci penserà Lui, come ha promesso. In fondo, a ben vedere, è un richiamo ad aver maggior fede nelle promesse di Dio. Certamente questo non toglie che sin da ora i cristiani possano e debbano testimoniare, senza facili irenismi, la fede in Cristo anche agli ebrei ed accogliere calorosamente quelli tra loro che Lo accettano o sostenere, con simpatia, ogni sforzo all’interno del mondo ebraico, ed in tal senso vi sono diversi sforzi in atto, di superare l’esclusivismo. Questi sforzi, infatti, rappresentano tanti piccoli ma decisi passi sulla via di Damasco! Poi, mi sembra, dalle frasi citate dal lettore, che il Papa abbia voluto porre anche la domanda sul ruolo dell’Israele carnale dopo Cristo. Una domanda che già i Padri della Chiesa si ponevano, rispondendo che Israele continua ad aver un’unica funzione – si badi: importantissima per i cristiani! – ossia quella di essere testimone della Verità dell’Antico Testamento, gelosamente custodito ma non ancora compreso perché letto senza la Luce di Cristo che ne costituisce l’unica vera chiave esegetica. Penso che l’espressione del Papa «i giudei sono essi stessi una predica vivente» si inserisca perfettamente in un contesto di continuità con l’insegnamento dei Padri della Chiesa circa la funzione testimoniale di Israele dopo Cristo. Benedetto XVI, inoltre, nella frase riportata, riecheggia San Bernardo di Clairvaux il quale, per fermare un pogrom antiebraico nella Germania del XII secolo, istigato dalla predicazione millenarista di un monaco in odore di eresia, ammoniva i cristiani a vedere nell’ebreo sofferente Cristo sofferente. Per quanto riguarda, invece, l’ultima delle frasi del Papa riportate dal lettore, bisognerebbe poterla leggere nel suo contesto (cosa che mi riservo di fare quando avrò letto il libro) perché gettata lì, in un tal modo decontestualizzato, può apparire ambigua. Infatti non si comprende se il Papa, dicendo che Israele conserva la sua missione, voglia riferirsi alla già accennata funzione testimoniale oppure si riferisca ad una qualche missione come la pretende il giudaismo post-biblico per il quale sarebbe l’Israele carnale il salvatore del mondo ed il portatore ai gentili, che però restano di serie B, della fede monoteista. Ora, conoscendo quanto Ratzinger ha già scritto in proposito sono propenso a ritenere che egli si riferisca alla prima ipotesi, alla funzione testimoniale, e non certamente alla seconda. Non dimentichiamo che egli è stato l’autore della Dominus Jesus, che ha riconfermato l’Unicità della Mediazione Salvifica Universale di Cristo. Nel libro intervista con Peter Seewald, Luce del mondo, il Papa ha ribadito, ponendo uno stop alla cosiddetta teologia delle salvezze parallele, che Cristo è il Salvatore di tutti, compresi gli ebrei. Benedetto XVI, infine, pur modificandola per via del famoso perfidis, liberalizzando la liturgia tradizionale in latino non ha esitato, nonostante le stridule grida della sinagoga, ha riproporre la preghiera del Venerdì Santo per la conversione degli ebrei. Tutto questo mi porta a dire che l’espressione citata dal lettore, nel suo contesto, è in linea con l’insegnamento di sempre. Mi riservo ogni altra considerazione a seguito della lettura integrale del testo. Luigi Copertino
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