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Ebraismo e cristianesimo (parte VI)
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Parte Sesta

Misterium iniquitatis
?

Alla base del messianismo giudaico vi è – lo abbiamo già detto - la convinzione della realizzazione intra-storica ed intra-mondana del regno promesso da Dio. Un tempo l’ebraismo aspettava un Messia personale, inteso come invincibile capo politico-religioso, che avrebbe consegnato ad Israele l’egemonia sui pagani e pacificato il mondo. Persa questa speranza – la cui realizzazione le profezie, secondo gli stessi convincimenti ebraici, poi rinnegati, del tempo, indicavano in un periodo temporale coincidente con il I secolo – l’ebraismo, che non volle accettare un Messia morente sulla Croce ed il cui Regno non è di questo mondo, rielaborò l’attesa messianica nei termini, ultimi, del Messia collettivo: è lo stesso popolo ebreo, sofferente tra le genti, ad incarnare la messianicità per portare il monoteismo tra i popoli ed inaugurare l’era definitiva della pace universale. Si noti che questa prospettiva ebraica post-biblica è stata ripresa dalla cultura post-cristiana occidentale: si pensi, ad esempio, all’umanitarismo, che promette l’umanizzazione del mondo nella giustizia e nella prosperità globale, o alla filosofia massonica che ciancia di edificazione interiore del tempio salomonico per consentire la pace mondiale, oppure, in campo filosofico, a Kant con la sua idea della pace perpetua da assicurare mediante un tribunale internazionale o a Marx ed alla sua fine della storia nel paradiso comunista. Anche, però, la globalizzazione liberista, oggi trionfante, si nutre, nella sua utopia, della prospettiva mondana apportata dal messianismo giudaico post-biblico.

Come il giudaismo risolve, allora, il problema del Messia che esso ha respinto perché fallito sulla Croce e che, però, ha effettivamente esteso il suo regno a tutto il mondo, ossia universalmente, ma, nonostante i peccati dei cristiani, sui cuori e non in termini politici di egemonia sui popoli?

Vi è una pagina eccezionale di un grande esegeta ebraico, Pinchas Lapide, che è stato console di Israele a Milano nonché protagonista del cosiddetto dialogo ebraico-cristiano. E’ necessario riportarla per comprendere il punto di vista ebraico attuale su Gesù Cristo.

«Pretendere - scrive Lapide - che Gesù fosse solo un ebreo, soltanto un fariseo o nientaltro che un predicatore itinerante, sarebbe in misura somma unarroganza contraria alla Bibbia (…). Quel che so con certezza… (è che) il chiaro compito missionario che i profeti hanno dato ad Israele suonava così: ‘essere una luce per le nazioni’ (…). ‘Non basta che tu sia mio servitore per ristabilire le tribù di Giacobbe e ricondurre a casa i dispersi; io ti ho posto anche a luce delle genti, affinché tu porti la mia salvezza fino ai confini del mondo!’ (Isaia 49,6) (…). Questa diaconia cattolicaal servizio dellumanità, che è lunico fondamento della nostra elezione, è anteriore alla nostra nascita come popolo. Fin dai primi inizi di Israele, infatti, gli fu posto questo obbligo missionario, allorché al suo capostipite fu rivolta la promessa: ‘In te saranno benedette tutte le nazioni della terra’ (Genesi 12,3). Tutte le nazioni, è detto - e questo prima ancora che esistesse un popolo ebraico (…). Da sempre nostro compito è di portare i gentili al Dio unico, non di integrarli nella sinagoga (…). La nostra missione è mono-teizzare non ebraicizzare! (…). I profeti lhanno predicata e promessa; nel nome di Gesù di Nazaret questa missione è stata in parte adempiuta. Se lannuncio salvifico dellamore di Dio fosse stato rivolto alluniverso delle nazioni da un filosofo greco o da un augure romano, avrei probabilmente notevoli difficoltà a riconoscere in esso un momento del piano divino della salvezza. Poiché invece questa mono-teizzazione dellOccidente è stata compiuta nel nome di un pio ebreo, cui i Vangeli per tredici volte danno il titolo di rabbi, posso e debbo riconoscere nella storia dei suoi effetti una parte integrante del progetto salvifico di Dio, e accettare la Chiesa dei credenti (…) come istituzione di salvezza voluta da Dio» (1).

Al di là della intrinseca bellezza di questa pagina è bene che i cristiani si rendano conto della polpetta avvelenata che essa contiene. Lapide espone egregiamente l’attuale punto di vista ebraico su Cristo, solo che esso afferma due cose cristianamente inaccettabili. La prima che Gesù fu solo un uomo, un pio ebreo, cui Dio ha affidato il compito di monoteizzare i pagani, ferma rimanendo la speciale missione propria di Israele. La seconda che, appunto, rimanendo immutata la peculiarità di Israele, esistono due vie parallele di salvezza, quella ebraica per i giudei e quella cristiana per i gentili. La teologia delle salvezze parallele - che si è infiltrata in ambito cattolico e che, come ricordato, anche di recente Benedetto XVI ha rigettato con scandalo di ebrei e cristiani giudaizzanti abituati ormai all’idea della resa cattolica – ha origine in questo tentativo di rileggere la figura di Cristo del tutto interna all’ebraismo. Ma – attenzione! – rileggere non in continuità innovativa rispetto all’ebraismo profetico veterotestamentario quanto piuttosto interna – il che tra l’altro è un anacronismo – al giudaismo post-biblico ossia alla rilettura ebraica post-cristiana delle speranze messianiche andate deluse nel I secolo e successivamente reimpostate come auto-messianismo israelocentrico. Questa rilettura di Cristo, interna alla visione del giudaismo post-biblico, fa di Nostro Signore una figura a latere, accessoria, rispetto alla centralità messianica dell’Israele post-cristiano. Non si tratta, qui, di studiare ed approfondire le radici ebraiche del Cristianesimo, come abbiamo fatto in questa sede anche noi invitando i cristiani ad evitare derive marcionite, quanto piuttosto di riassorbire nell’ebraismo farisaico Cristo, che invece nell’Ordine della Grazia ha superato l’esclusivismo ebraico ed adempiuto nella circoncisione del cuore l’essenza d’amore della Legge mosaica.

Che la nostra non sia una impressione ce l’ho conferma lo stesso Lapide il quale, a proposito di Gesù Cristo, così continua:

«Devessersi quindi trattato di più che un semplice galileo figlio di falegname, che diede vita ad un movimento di penitenza. Che cosa sia stato questo di più’, non so (…). Fu un predicatore di salvezza? Un operatore di miracoli? Un uomo di Dio? Un annunciatore del regno dei cieli? Fu tutto questo, così ci sembra, considerando oggi le cose retrospettivamente, ma ciò non basta a rendere conto del fatto inconfutabile che tutto lOccidente, dallIslanda al Cile, dalla California alla Sicilia, ha preso il nome da questo galileo, e che grazie a lui decine di nazioni gentili sono divenute mono-teiste (…). E chiarissimo che questo Gesù di Nazaret, per le vie imperscrutabili di Dio, è diventato il salvatore del mondo dei gentili - proprio come ha annunciato il vecchio Simeone nel secondo capitolo del vangelo di Luca: Gesù è diventato una luce che illumina i gentili e la lode del popolo dIsraele che lha generato» (2).

Dunque Lapide ammette in Gesù un qualcosa di più ma non sa dire cosa sia questo di più. Esclude però la Divinità di Cristo. Predicatore penitenziale, operatore di miracoli, perfino uomo di Dio ma Dio certamente, dice Lapide, no! Ciononostante questo Gesù, in quanto uomo eccezionale, ma solo uomo, è il salvatore del mondo dei gentili. Ci sarebbe da chiedergli perché mai Dio avrebbe inviato un Messia ebreo per i soli gentili, se non sapessimo in anticipo che la risposta di Lapide implicherebbe l’autoidolatria messianica dell’ebraismo attuale che si vuole esso l’agente messianico a proprio uso e consumo esclusivo. Un documento come la Dominus Jesus, approvato da Giovanni Paolo II ma elaborato da Joseph Ratzinger, che riafferma l’Unicità e l’Universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, ci si mostra, a questo punto, in tutta la sua provvidenzialità epocale, nonostante i tentennamenti della neoteologia per interpretarlo in modo da non far dispiacere i fratelli maggiori. Come provvidenziale è il fatto che Benedetto XVI abbia ricordato, nel libro intervista, Luce del mondo, con Peter Seewald, l’unicità ed universalità salvifica di Cristo alla quale, che essi lo vogliano o meno, sono soggetti anche gli ebrei.

Come, poi, si concili, nella prospettiva del giudaismo post-biblico, illustrataci magistralmente da Lapide, un mondo non ebreo salvato dall’ebreo Gesù con la permanenza del primato messianico universale e speciale di Israele, resta incomprensibile. La risposta, probabilmente, ce la darebbe, nella sua assurda follia millenaristica, un predicatore cristiano-sionista come Lewis David Allen secondo il quale Cristo, il cui ritorno sarebbe imminente, regnerà sulla terra ristabilendo insieme al re Davide, risorto, il regno di Israele sui pagani, al quale i cristiani rinati si assocerebbero, come adepti, quindi in posizione subordinata (altro che “non più giudeo né greco” di Paolo!), nell’amministrare la volontà di Dio.

Ma, a questo punto, approfondiamola meglio questa prospettiva messianica del giudaismo post-biblico, anche per verificarne le connessioni con il panorama politico internazionale attuale.

La speranza messianica dell
Israele post-biblico

Il Neusner nel suo libro, già citato, ricorda quale è la speranza messianica ebraica:«Israele provocherà la caduta di Roma» (3). Questa convinzione, richiamata dal Neusner, trova la propria origine storica nell’epoca della dominazione romana in Palestina. In quel tempo il messianismo ebraico si alimentava dell’aspettativa del Messia condottiero che avrebbe sconfitto il dominio romano e ristabilito il regno di David. L’Antico Testamento veniva piegato a questa esigenza messianica ed il biblico Edom diventò il simbolo del potere pagano di Roma. Ora, quando Roma da pagana divenne, con Costantino, cristiana ha continuato a mantenere, per il giudaismo post-biblico, questo stesso (dis)valore simbolico ed il nemico fu individuato nella fede eretica del Nazareno, che, agli occhi ebraici, aveva preso il posto del potere romano. Si è visto come questa ostilità abbia prodotto la preghiera della Benedizione dei minin. Per venti secoli i rabbini hanno predicato nelle sinagoghe che le promesse messianiche ad Israele non sono venute meno ma che si realizzeranno quando, venuto meno il potere della Roma cristiana, Israele tornerà nella sua terra, datale da Dio, e riedificherà il tempio distrutto nell’anno ‘70.

Neusner illustra, nel suo libro, come il giudaismo post-biblico si sia spiegato la caduta di Gerusalemme in quell’epoca. La responsabilità fu dell’arroganza dei giudei zeloti del I secolo, specialmente di Bar Kobà (o Kokcheba) che rifiutando di abbandonarsi alla provvidenza divina pretesero di edificare il regno d’Israele con le loro forze naturali e politico-militari. Tale arroganza provocò l’abbandono di Israele, da parte di Dio, nelle mani di Roma. Da qui l’impressione della vittoria cristiana sul giudaismo.

Scrive Neusner: «Bar Kobà tratta il cielo con arroganza, chiedendo a Dio di non intromettersi (…). Bar Kobà distrusse lunica protezione di Israele. Lesito fu inevitabile» (4).

Si noti che questa posizione è la stessa che oggi diversi gruppi di ebrei ortodossi hanno assunto nei confronti prima del sionismo e poi dello Stato d’Israele. Gruppi come i Neturei Karta, infatti, rigettano lo Stato sionista d’Israele perché edificato per mano umano con la violenza, contro i gentili, senza attendere il Messia, l’unico che potrà edificare il regno di Israele. L’apocalittica ebraica rinvia alla fine dei tempi la restaurazione messianica del regno d’Israele (5). Per la teologia cristiana della storia, invece, come sappiamo, il regno sarà oltre-storico ed oltre-mondano e l’Impostore si presenterà proprio come colui che emulerà il Cristo promettendo al mondo intero pace e sicurezza. San Paolo: «E quando si dirà: ‘Pace e sicurezza’, allora dimprovviso li colpirà la rovina, come le doglie di una donna incinta, e nessuno scamperà» (1Tessalonicesi 5,3).

L’Anticristo, che – ci dice l’Apostolo – giungerà soltanto dopo l’apostasia universale, potrà agire solo quando sarà venuto meno il katéchon, ossia ciò che lo trattiene:

«Ora vi preghiamo, fratelli, riguardo alla venuta del Signore Nostro Gesù Cristo e alla nostra riunione con Lui, di non lasciarvi così facilmente confondere e turbare, né da pretese ispirazioni, né da parole, né da qualche lettera fatta passare come nostra, quasi che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire lapostasia e dovrà esser rivelato luomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e sinnalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando sé stesso come Dio (si noti che anche nell’Apocalisse - 13,18 – il numero dell’Impostore, della Bestia, è detto essere ‘nome duomo’, nda). Non ricordate che, quando ancora ero tra voi, venivo dicendo queste cose? E ora sapete ciò che impedisce la sua manifestazione, che avverrà nella sua ora. Il mistero delliniquità è già in atto, ma è necessario che sia tolto di mezzo chi finora lo trattiene (in greco katéchon, nda)» (San Paolo 2 Tessalonicesi 2,1-7).

Marta Sordi interpreta il passo paolino sul katèchon come riferito all’influsso frenante che Seneca, il quale – è ormai sicuramente provato – era in rapporti di amicizia e stima con l’apostolo, esercitava su Nerone. Da parte nostra riteniamo che l’interpretazione della Sordi non sia affatto errata nel contesto storico al quale fa riferimento ma che sia limitata dal punto di vista teologico perché, nella Scrittura, i passi profetici possono essere, senza contraddizione, applicati sia al contesto nel quale sono stati formulati sia agli avvenimenti futuri. Si veda ad esempio il discorso escatologico di Gesù, nei Vangeli, circa la distruzione di Gerusalemme, che era riferito certamente agli avvenimenti, allora imminenti, dell’anno 70 ma che, chiaramente nel testo, assumono una valenza più universale, appunto escatologica.

Sionismo messianico

Ora alla luce della sopra descritta prospettiva messianica del giudaismo post-biblico si possono comprendere molte cose a proposito del sionismo e della attuale convinzione ebraica circa la funzione messianica, più che meramente politica, dello Stato israeliano sorto nel 1948, dopo la persecuzione nazista assurta, nella prospettiva teologica giudaica, che è oggi la prospettiva teologica di tutto l’Occidente post-cristiano, ad olocausto.

A causa della particolare natura del giudaismo post-biblico e della storia del popolo ebreo, che è la storia della sua diaspora, non è possibile prescindere dal fatto che il nesso tra identità religiosa ed identità etnica nell’ebraismo post-cristiano non interviene solo nella modernità, come uno scivolamento dal Trascendente all’immanente innescato dal processo di secolarizzazione, ma è, sotto molti ed essenziali aspetti, coevo alla stessa nascita del giudaismo talmudico, al momento della sincope del ruolo elettivo avuto dal popolo ebreo prima dell’anno 70 dopo Cristo. Per capire l’ideologia stessa del sionismo e, soprattutto, i suoi rapporti, non facili ma stretti, con l’ebraismo religioso è necessario superare l’idea, molto diffusa, che il sionismo si caratterizzi al suo apparire, prima di diventare nel XX secolo una ideologia nazional-religiosa, come semplice ideologia di riscatto nazionale di stampo romantico-illuminista.

Generalmente il sionismo è, infatti, presentato come scaturente da un drammatico bisogno di sicurezza nutrito, all’indomani dell’emancipazione, dal popolo ebreo, a causa delle persecuzioni subìte nei secoli della diaspora. In realtà le cose non sono così lineari e nella genesi del sionismo incidono molto di più categorie in qualche modo ancestrali, pur rielaborate nella prospettiva tipicamente mitizzante dell’illuminismo e del romanticismo, che non categorie meramente nazionaliste.

Nel giudaismo post-biblico, lo si è visto, la categoria del messianismo, a carattere millenarista, gioca un ruolo essenziale. Ad angosciare Theodore Herzl, il fondatore del movimento sionista, non era solo il bisogno ebraico di sicurezza quanto piuttosto il rischio, dopo l’emancipazione, di una nuova diaspora, questa volta culturale, nazionale e persino razziale. Egli, infatti, scriveva:

«Per mezzo delloppressione e della persecuzione non è possibile estirparci…; gli ebrei forti ritornano ostinatamente alla loro stirpe, quando scoppiano le persecuzioni. Ciò si è potuto vedere ben chiaro nel tempo che seguì immediatamente allemancipazione ebraica: gli ebrei che si trovavano più in alto sotto il punto di vista spirituale e materiale, smarrirono interamente il senso della solidarietà di razza» (6).

Anche un altro noto esponente sionista Max Nordau esprimeva preoccupazioni analoghe. E Scriveva:

«Lebreo privo di diritti dellepoca precedente allemancipazione era uno straniero fra i popoli, ma egli non aveva pensato mai di ribellarsi contro questa sua condizione. Egli sentiva in tutto e per tutto dessere membro di una stirpe speciale, che non aveva nulla in comune con gli abitanti di altri Paesi (…). Letnologo e lo storico dei costumi riconoscono che il ghetto, qualunque fosse lintenzione dei popoli che lo istituirono, non era sentito dagli ebrei del passato come una prigione ma come un luogo di rifugio (…). Nel ghetto lebreo aveva il suo mondo, la sua casa sicura che aveva per lui il significato spirituale e morale di una patria».

Ma a seguito dell’emancipazione il panorama cambiò radicalmente sicché Nordau si lamentava del fatto che:

«In una specie di ebbrezza lebreo si affrettò a rompere tutti i ponti dietro di sé. Egli aveva ora unaltra patria; non aveva più bisogno di rimanere legato ai suoi correligionari (…). Al posto del contrasto salvatore, subentrò il mimetismo utile» sicché – continuava Nordau – «Non è giusto dire che il sionismo non sia altro che un atto di sfida o di disperazione contro lantisemitismo (…). Per la maggior parte dei sionisti lantisemitismo non è stato che un invito a riflettere sui loro rapporti coi popoli, e questa loro riflessione li ha condotti a risultati tali che rimarrebbero il loro permanente patrimonio spirituale e morale anche se lantisemitismo scomparisse completamente dal mondo» (7).

Ecco perché sin dal suo comparire molti ebrei videro nel sionismo una ideologia del ritorno al ghetto, come è inevitabile pensare anche oggi di fronte alla trasformazione dell’intera Palestina in un ampio ghetto con la costruzione, iniziata da Sharon, del muro.

Il carattere teologico del sionismo si palesò immediatamente nel suo convincimento ideologico – condiviso, si noti bene, specularmente con le ideologie nazionaliste e fondamentaliste che gli si opponevano e gli oppongono come l’arabismo ed il fondamentalismo islamico – circa la propria missione storica consistente nella restaurazione della presunta purezza etnico-religiosa originaria per riallacciare l’ebraismo attuale alle radici di un glorioso passato. Fu ancora Nordau a sostenere che con il nuovo sionismo politico gli ebrei riacquistavano: «coscienza delle loro capacità etniche (e l’) ambizione di preservare lantichissima gente fino ad un avvenire il più possibile remoto e alle grandi gesta degli avi aggiungere le nuove illustri azioni dei discendenti» (8).

Ed al fine di ricostruire un’identità ebraica, con connotati tipicamente ideologici, decontestualizzati e mitizzanti, Herzl si richiamava al modello veterotestamentario della rivolta xenofoba antiellenistica dei Maccabei, minacciando, al contempo, l’espulsione dall’Eretz Israel prossimo venturo degli ebrei troppo assimilati ai quali non riconosceva un carattere autenticamente ebraico:

«Io credo pertanto – scriveva Herzl – che crescerà dalla terra una generazione debrei meravigliosi: i Maccabei risorgeranno (…). Chi può, vuole ed è costretto a scomparire, scompaia pure. Ma la personalità del popolo ebraico non vuole e non è costretta a scomparire (…). Interi rami dellebraismo possono morire, cader giù; lalbero vive. Se dunque tutti o alcuni degli ebrei francesi protestano contro il mio progetto, perché si sarebbero già ‘assimilati’, la mia risposta è semplice: tutta la faccenda non li riguarda. Essi sono francesi israeliti: benissimo! Questo però è un affare interno degli ebrei» (9).

Se queste sono le basi teologiche del sionismo e se esso non è nato, dunque, soltanto da un bisogno di sicurezza nazionale, non meraviglia che, proprio a causa della nascita dello Stato di Israele, esso abbia finito per assumere connotazioni marcatamente nazional-religiose, abbandonando quelle apparenti di movimento laico-romantico di liberazione nazionale, fino a trasformarsi, in alcuni settori ultraortodossi, in un vero e proprio fondamentalismo ebraico, caratterizzato da pulsioni millenaristiche indotte dal riaccendersi delle mai dimenticate, ma mal riposte, speranze messianiche nutrite da secoli in seno al giudaismo post-biblico a causa di un’errata esegesi biblica riguardo le profezie veterotestamentarie.

E’ stato, infatti, osservato che sin dagli anni settanta del XX secolo si è potuto assistere in Israele allo sviluppo di vasti movimenti fondamentalisti che «rompono con le seduzioni della società laica per riorganizzare la loro esistenza esclusivamente su norme e divieti attinti ai testi sacri giudaici. Tale rottura esige una netta separazione tra ebrei e gojm (non ebrei, gentili) per combattere lassimilazione, massima minaccia alla sopravvivenza del popolo eletto» (10).

Un esempio tipico di questi movimenti politico-religiosi a carattere esclusivista e fondamentalista è quello del Gush Emunim, il Blocco dei fedeli. Israel Shahak, uno studioso israeliano del fondamentalismo giudaico, ci informa che questo movimento non è comprensibile senza tenere presenti gli articoli di fede del giudaismo alla fine del suo periodo classico. Le idee del Gush Emunim hanno - afferma sempre Israel Shahak - un peso determinante nell’attuale vita politica israeliana, influenzando persino i partiti della sinistra.

Questo peso, secondo Shahak, si spiega risalendo indietro nel tempo, quando il sionismo che, laicamente, assegnava agli stessi ebrei il compito di restaurare Israele, senza attendere improbabili eventi escatologici o divini, è stato consacrato dai due primi rabbini messisi alla testa degli insediamenti ebraici in Terra Santa, negli anni ‘30, ossia Abraham Itzhak ha-Cohen KooK e suo figlio Zevi Yehuda Kook. Nel magistero di questi rabbini il sionismo diventava, pur inconsapevolmente, l’agente messianico scelto da Dio per riportare gli ebrei in Palestina ed “i sionisti sono, senza saperlo, i veri emissari di Dio”. In tal modo pur se apparentemente secolare, il sionismo assurge a segno dell’inizio della redenzione venuta dal Cielo. Nel piano messianico di Dio il sionismo finisce per avere una funzione essenziale svolta la quale esso lascerà cadere la maschera laica per svelare il proprio volto religioso che confermerà davanti a tutte le genti che Israele è il messia collettivo (11).

In una recente intervista comparsa su una rivista cattolica (12) l’attuale presidente dello Stato di Israele, Shimon Peres, rispondendo ad una domanda dell’intervistatore finalizzata a comprendere la linea di demarcazione, nel pensiero e nella politica ebraica, tra i messianici ed i realisti, annoverava tra i secondi certamente Ben Gurion, ma tra i primi senza dubbio il rabbino KooK, ricordando che essi appartenevano più o meno alla stessa generazione.

E’ necessario, però, sottolineare un passaggio di questa risposta di Shimon Peres:

«Sul versante religioso, una (delle personalità da ricordare) è il rabbino Kook, che fu un grande leader religioso, estremamente rispettato e amato, e divenne rabbino capo di Israele. Lui si recava dovunque… e sempre andava ripetendo che il Signore è un Signore di misericordia, non un dio crudele, e che ognuno è fatto a Sua immagine. Che significa? Che ognuno nasce a immagine di Dio ma nessuno può diventare Dio… Ricordiamocelo! E che ognuno sia fatto a Sua immagine implica che ognuno debba camminare con le proprie gambe, non aspettarsi che Dio agisca al suo posto».

Si devono notare, in questa dichiarazione, due cose: innanzitutto l’affermazione che nessuno può diventare Dio. Un’affermazione cristianamente del tutto condivisibile se fosse solo espressione di anti-prometeismo. Tuttavia ci sembra di cogliere in essa l’eco millenario della polemica talmudica contro il Nazareno che ha preteso di farsi Dio. Ed è strano che l’intervistatore non abbia colto questa sfumatura. In secondo luogo la successiva affermazione, che sembra anch’essa banale, per la quale gli uomini, pur figli di Dio, godono di una certa autonomia e pertanto non devono aspettarsi che Dio agisca al loro posto. Qui trapela tutta la concezione prometeica del vecchio sionista che gli ebrei ortodossi anti-sionisti rimproverano al sionismo. L’idea, cioè, che il regno di Israele deve essere ricostruito per mano umana, ossia con mezzi politici, non esclusa la violenza, senza aspettare eventi escatologici.

Il punto di raccordo tra l’ebraismo ortodosso ed il sionismo, come si è detto, è stato intessuto da Rabbi Kook e suo figlio, non a caso ricordati con stima da Shimon Peres, che hanno fatto del sionismo l’agente messianico di Dio nel disegno della restaurazione di Israele nel suo dominio. Questa concezione, visti i successi conseguiti ripetutamente dal 1948, ha finito per conquistare quasi tutto l’ebraismo religioso (compreso quello italiano, quello di rabbi Di Segni, di Gattegna e di Pacifici) salvo alcuni minoritari gruppi tradizionalisti e resistenti, come i Neturei Karta, che non intendono muoversi dalla concezione talmudica tradizionale per la quale sarà Dio, e non l’uomo, a restaurare Israele, ma nella pace con i propri vicini. Infatti, uno dei motivi della polemica dei Neturei Karta – motivo condivisibile anche da noi cristiani – contro le illusioni religiose sioniste è proprio il fatto che da quando Israele si è insediato nel Vicino Oriente quella terra – la Terra Santa per ebrei, cristiani e mussulmani – ha perso la pace, mettendo a rischio anche la pace mondiale. Questo, dicono i Neturei Karta, non è certo un segno messianico!

In effetti, anche da un punto di vista cristiano, il sionismo ricade nel novero dell’idolatria propria del nazionalismo prometeico, quello che vuol camminare con le proprie gambe senza nulla chiedere al Signore e che la Chiesa condanna come pagano. Citiamo dal Catechismo della Chiesa cattolica (numeri 56 e 57):

«Dopo che lunità del genere umano è stata spezzata dal peccato, Dio cerca prima di tutto di salvare lumanità intervenendo in ciascuna delle sue parti. LAlleanza con Noé dopo il diluvio esprime il principio delleconomia divina verso le nazioni’, ossia gli uomini riuniti in gruppi, ‘ciascuno secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle loro nazioni (Genesi 10,5). Questordine, ad un tempo cosmico, sociale e religioso della pluralità delle nazioni, ha lo scopo di limitare lorgoglio di una umanità decaduta, la quale, concorde nella malvagità, vorrebbe costruire da se stessa la propria unità alla maniera di Babele. Ma, a causa del peccato, sia il politeismo che lidolatria della nazione e del suo capo costituiscono una continua minaccia di perversione pagana per questa economia provvisoria».

Tutta la terra è terra di colui che è santo

Nella stessa citata intervista a Shimon Peres, di cui sopra, l’intervistatore ricordava all’intervistato la spiegazione che il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha dato, durante la visita di Benedetto XVI in sinagoga, dell’espressione Terra Santa o Terra Promessa, secondo l’esegesi ebraica. Quell’espressione, spiegava Di Segni, in ebraico non significa che la terra sia santa di per sé ma soltanto che è Eretz Hakodesh ossia la terra di Colui che è Santo, la terra di Dio.

Una spiegazione del genere, osserviamo dal nostro punto di vista cristiano, rivela tutta la prospettiva a-cristologica dell’esegesi rabbinica delle Scritture veterotestamentarie. Un’esegesi che può portare, come effettivamente ha portato, ai tragici risvolti vicino-orientali cui stiamo (escatologicamente?) assistendo. Infatti questo tipo di esegesi, benché si sforzi sempre di sottolineare che il popolo-messia, al quale comunque si rivendica in esclusiva il diritto alla terra santa (in termini politici lo Stato etnicamente ebraico), è al servizio della Pace Universale e quindi delle genti, si espone, inevitabilmente, alla strumentalizzazione nazionalista della Scrittura.

Questa è l’irrisolvibile aporia del giudaismo post-biblico non colta neanche da Rabbi Neusner quando afferma che l’ebraismo talmudico non è nazionalista ma universalista. Il preteso universalismo talmudico poggia chiaramente su un etnocentrismo a carattere messianico che rende del tutto impossibile il disegno universale di Dio perché rimane integro in piedi l’esclusivismo tribale che impedisce ai gentili di essere spiritualmente parificati agli ebrei. A differenza del Cristianesimo, nel giudaismo post-biblico la distinzione tra giudeo e greco, che Paolo proclama abolita in Cristo, non è affatto superata, né, alle sue condizione, potrà mai esserlo.

Queste considerazioni ci portano a riflettere sull’importanza, davvero provvidenziale e profetica, delle chiarissime affermazioni del recente Sinodo delle Chiese orientali, fortemente voluto da Benedetto XVI. Quelle Chiese, proprio perché più vicine al problema, lo vedono meglio che non la Chiesa che vive in Occidente o altrove.

Ci riferiamo al documento conclusivo del Sinodo nel quale i vescovi e patriarchi orientali affermano che: «Non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie» (13), dove le ingiustizie fanno evidente riferimento alla politica dello Stato ebraico, del quale certo non si nega il diritto naturale all’esistenza ma come un qualunque Stato della terra senza pretese messianiche ed escatologiche.

Significativamente monsignor Bustros, arcivescovo dei greco-melkiti, presidente della commissione sinodale per il messaggio finale, si è fatto, in quell’occasione, portavoce del sentimento generale spiegando che «la terra promessa è tutta la terra. E che non vi è più un popolo scelto. Non ci si può dunque basare sul tema della terra promessa per giustificare il ritorno degli ebrei in Israele e lesilio dei palestinesi (…). è chiaro, per noi cristiani, che non si può giustificare il ritorno degli ebrei e la espulsione dei palestinesi (…) (si) sono portati 4 o 5 milioni di ebrei in Palestina e, al contempo, sono stati cacciati 3 milioni di palestinesi dalle terre in cui avevano vissuto per 1600 anni (…). Si tratta di una mera questione politica, ecco perché non bisogna basarsi sulla Sacra Scrittura per giustificare loccupazione da parte di Israele nella terra palestinese» (14).

In altri termini il rappresentante ufficiale del Sinodo ci ha spiegato due cose che tutti i cristiani dovrebbero sapere: la prima che, dopo Cristo, non c’è più un popolo eletto (ma solo tutt’al più un popolo testimone dell’Antico Testamento misteriosamente preservato in attesa di essere riammesso nell’Alleanza quando anche tutti i gentili vi saranno, in Cristo e non in Israele, entrati) e la seconda che, sempre dopo Cristo, per quanto la Terra Santa conservi anche per i cristiani un valore paradigmatico, tutta la terra è santa, tutta la terra è terra promessa. Tutta la terra, per parafrasare l’esegesi di Rabbi Di Segni, è Eretz Hakodesh ossia Terra di Colui che è Santo: non solo la Palestina sulla quale dunque nessuno può accampare pretesi divini ed esclusivi diritti, a scapito di altri.

Ora, certamente, il documento conclusivo di un Sinodo non assurge a magistero universale ed infallibile. Tuttavia sia il Sinodo in sé sia i suoi documenti sono sempre sottoposti all’approvazione del Papa che, quando la concede, come nel caso di specie, rende le dichiarazioni sinodali, in quanto effettuate in comunione con la sede episcopale romana, parte del magistero ordinario, vincolante almeno per le chiese coinvolte ma latu sensu anche per le altre.

Le dichiarazioni del documento finale del Sinodo e la spiegazione di monsignor Butros sono state accolte, come molti forse ricorderanno, con grande disappunto da Israele, e questo c’era da aspettarselo, ma anche da molti cattolici comodamente allocati nell’Occidente attuale e che della realtà vicino orientale nulla conoscono se non mediante le menate mediatiche sull’islam sempre cattivo ed Israele avamposto, nel Medio Oriente, dell’Occidente e, nella prospettiva dell’ideologia ateo cristiana che è quella dell’attuale Occidente, della civiltà cristiana.

Tra gli scandalizzati bisogna annoverare anche Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, nonché docente universitario di valore internazionale. Riccardi, tuttavia, sconta, come storico e come cristiano, tutto l’infondato pregiudizio per il quale la Chiesa preconciliare si sarebbe compromessa con i regimi fascisti, anti-moderni, mentre con il Vaticano II la Chiesa avrebbe fatto pace con la modernità.

In realtà, da un lato, nazismo e fascismo tutto furono tranne che regimi anti-moderni (anzi sono stati, nella loro epoca, religioni secolari, che al posto di Dio idolatravano la nazione o la razza, e dunque una delle punte avanzate della modernità scristianizzante: che, poi, nel caso di alcuni fascismi, come quello italiano, vi siano state inattuate potenzialità di riconversione in senso cattolico-nazionale è un altro discorso) e, d’altro lato, il Vaticano II, se letto – attenzione! – in continuità con la Tradizione (altra cosa sono le derive post-conciliari), non ha affatto recuperato la modernità ma solo riaffermato che i valori che essa porta avanti sono cristiani e che privati della loro radice si rovesciano in disvalori (ed infatti l’umanitarismo moderno è quello dell’esportazione della libertà con le bombe).

Questa stortura di fondo porta il Riccardi verso conclusioni altrettanto distorte, sia teologicamente che storicamente. Come, appunto, il parlare, da un punto di vista storico, come spesso fa il Riccardi, dello sterminio ebraico assolutizzandolo a fatto unico, a fatto non storico ma teologico, ad olocausto. Così facendo non si fa storia ma teologia e quando si fa teologia per un cristiano l’unico vero Olocausto è solo quello della Croce (le sofferenze umane, anche quelle degli ebrei nei lager, sono solo partecipazione alla sofferenza di Cristo). Se non ricordiamo male (altrimenti sia come non detto) in una intervista, poi letta in diretta da Radio Maria, uscita nel periodo del Sinodo, proprio Riccardi affermava che il 16 ottobre 1943 non vi sarebbe stato un netto intervento della Santa Sede a favore degli ebrei romani. Qui Riccardi, sempre che sia effettivamente questa la sua tesi, sconta, evidentemente, i troppo irenistici legami di cooperazione della sua comunità santegidiese con quella ebraica romana e dimostra di non aver letto, forse, le opere storiche su Pio XII di padre Pierre Blet e dei suoi collaboratori che hanno ritrovato le prove documentali dell’intervento del cardinale Maglione, segretario di Stato di Pio XII, sull’ambasciatore tedesco in Vaticano: intervento che è stata la causa dell’interruzione della retata nazista al quartiere ebraico romano.

Ma, in realtà, sebbene su un piano alto e professorale, le critiche che Andrea Riccardi ha rivolto, a suo tempo, alle conclusioni del Sinodo sul Medio Oriente sono solo la cartina di tornasole che mette in evidenza tutto lo sbandamento culturale del Cattolicesimo attuale che si fa schiacciare su un Occidente non più cristiano senza rendersi conto di diventare così lo strumento di un dominio globale che gronda sangue, sfruttamento ed ingiustizia. Molti cattolici, in questo impolpati da errati messaggi mediatici come quelli trasmessi in certe trasmissioni di Bruno Vespa, sono vittime di una cattiva, ed interessata, apologetica del Cristianesimo che dipinge i cristiani sempre buoni perché seguaci (spesso però solo a parole) del mite Gesù e gli islamici sempre cattivi perché intollerante in sé sarebbe il Corano. Gli ebrei, come radice della fede cristiana, e come popolo della sofferenza, che non avrebbe scheletri nell’armadio, quasi si trattasse di una umanità senza macchia di peccato originale, sarebbero ancora più buoni dei cristiani, i quali verso di loro alla fine qualche colpa devono scontarla.

Di fronte a queste strumentali apologetiche diventa comprensibile perché storici come Cardini, e veri apologeti intelligenti come Messori, da cattolici, reagiscono ricordando a questi sempre buoni cristiani i peccati storici che, attenzione: non la Chiesa ma, le società cristiane hanno perpetuato nei secoli, usando e infangando il Santo Nome di Cristo (si pensi, ad esempio, solo alla dura lotta che ha sempre opposto i missionari, spinti dall’amore di Cristo, ai colonizzatori che usavano la Croce per i loro affari). Gli ignoranti di storia non sanno che tutto quel che è imputabile all’intolleranza islamica potrebbe esserlo, pari pari, ai cristiani ed agli ebrei. Certe affermazioni della Sharia islamica che prescrivono la sottomissione e l’umiliazione degli ebrei e dei cristiani fanno, storicamente, il paio con le affermazioni talmudiche sulla inferiorità dei goym e con quelle che un tempo circolavano nella Cristianità (perfidi giudei – per quanto perfidi, come detto, significa solo senza fede – o cani saraceni): vogliamo allora basare tutto solo su tali retaggi oppure cercare, esegeticamente, nel Deposito di Fede, cose nuove, in esso implicite, senza rinnegare le cose antiche (questo è il senso dell’ermeneutica della continuità).

La Vera Luce della Chiesa è la santità donata da Cristo ai suoi, a quella miriade di santi, uomini e donne, che nei secoli hanno reso palpabile e viva la Sua Presenza dimostrando che il Cristianesimo è possibile e non utopico. Sicché sarebbe ora di finirla di esaminare i rapporti tra le fedi abramitiche alla luce delle debolezze e ristrettezze umane e storiche, mentre si dovrebbe guardare verso l’Alto, verso il Mistero di Dio che tutti vuole portare a Cristo ma per vie che non possono esserci del tutto note non essendo le nostre le Sue vie. Una cosa è certa: tra queste vie non è contemplata quella del messianismo intramondano coltivato dai diversi fondamentalismi, compreso quello ebraico che oggi ha i suoi rappresentanti perfino nel governo nazional-religioso israeliano.

Una nota finale di speranza

Di questi tempi noi cristiani dobbiamo preservare la fede aggrappandoci a Cristo e a Maria. Proprio per questo se siamo insultati ed aggrediti dobbiamo seguire esattamente l’invito evangelico di pregare per i nostri persecutori. Oggi loro sono forti. Un tempo lo siamo stati noi. Loro stanno facendo oggi gli stessi sbagli che abbiamo fatto noi quando abbiamo creduto che giammai sarebbe venuta un’ora di prova come questa. Chi si sente forte pensa che le cose debbano girare sempre così. Quando un giorno le speranze mal riposte dei nostri fratelli maggiori verranno meno si volgeranno, finalmente, a Colui che è stato trafitto e diranno Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. A quel punto starà a noi accoglierli senza pensare a stupide rivincite. Questa è la misericordia cristiana, che è ora che anche loro inizino a conoscere.

Lì’espressione fratelli maggiori, oggi di uso comune, va però intesa, se si vuol essere onesti, nello stesso senso nel quale lo intende la Bibbia. Tale espressione viene dal racconto della vicenda di Esaù che vendette al fratello minore Giacobbe la propria primogenitura. Tale racconto intende affermare che Dio, nel suo piano di salvezza, non è limitato dall’ordine di natura e come ha reso Sara, moglie di Abramo, feconda nonostante l’età avanzata così inverte, se necessario, il diritto di primogenitura. Tutto il racconto è una prefigurazione del passaggio del Deposito della Rivelazione dal Vecchio Israele al Nuovo Israele, ossia la Chiesa. Qualcosa di simile è significato anche nel racconto evangelico del figliol prodigo, che non a caso narra della gelosia del figlio maggiore, il fratello maggiore, rimasto a casa. Il Padre, però, che fa festa per il secondogenito, il fratello minore che simboleggia i popoli pagani e che è tornato (si tratta dei gentili che in Cristo tornano nell’Alleanza adamitica), prega anche il primogenito, ossia gli ebrei, di rientrare in casa. Ecco: stiamo aspettando che i fratelli maggiori si decidano a rientrare nella Casa di Dio, nella Chiesa che è la continuazione dell’Israele teologale del Vecchio Testamento. E’ ora, forse, di iniziare a rileggere anche le parabole in prospettiva escatologica, e non solo morale, come purtroppo viene fatto troppo spesso. Così quella del figliol prodigo, come anche quella dei due figli mandati a lavorare nella vigna. Di essi, ci chiede il Signore, chi fa la volontà del Padre?

Citiamo ancora San Paolo, a proposito dei fratelli maggiori:

«Io domando dunque: Dio avrebbe forse ripudiato il suo popolo? Impossibile! Anchio infatti sono israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino. Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin da principio (…). Ora io domando: Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale! Pertanto, ecco cosa dico a voi, Gentili: come apostolo dei Gentili, io faccio onore al mio ministero, nella speranza di suscitare la gelosia di quelli del mio sangue e di salvarne alcuni. Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti?» (Romani 11, 1-2 e 11-15).

Qui San Paolo parla del piccolo resto di Israele, quello che alla fine dei tempi accoglierà Cristo riconoscendone la Divino-Umanità Messianica ed entrerà a pieno titolo nella Chiesa universale, ossia Cattolica. Tutta la numerosa sequela di ebrei che nel corso dei secoli si sono, sinceramente, convertiti a Cristo sono solo l’anticipo della riammissione escatologica del resto di Israele, del suo reinnesto nell’Olivo Santo dell’Alleanza, della Rivelazione.

E’ possibile nel mondo ebraico di oggi individuare i semi di questo resto di Israele?

Domanda rispondere alla quale non è cosa di poco conto. Bisognerebbe essere profeti o essere graziati di una sapienza particolare che – lo diciamo subito a scanso di equivoci – non pretendiamo di avere. Molto più umilmente, e con tutto il beneficio della nostra fallibilità umana, ci sembra che se un germe del futuro resto escatologico di Israele può intravvedersi nel giudaismo post-biblico esso non potrà che spuntare sul tronco del tradizionalismo rabbinico e non su quello del sionismo politico-religioso.

Se Dio rigetta gli orgogliosi ed apre il Suo Cuore agli umili, ci sembra che siano molto più vicini a Lui gli ebrei, ad esempio, del Neturei Karta che ancora attendono il Messia a restaurare il regno, e per questo negano legittimità allo Stato israeliano protestando contro la protervia prometeica dei sionisti, laici o religiosi, i quali invece vogliono far da sé violentando il prossimo nelle persone dei palestinesi, che non, appunto, i sionisti alla Jabotinsky, alla Ben Gurion, alla Kook, alla Nyethanau, alla Shimon Peres.

Ahad Ha’ Am, un saggio rabbino degli anni ‘20 del XX secolo, accogliendo con orrore le notizie sui massacri a danno degli arabi perpetrati dai primi coloni sionisti che andavano già insediandosi in Palestina, attratti dalla promesse inglese del focolare nazionale ebraico, urlava, da vero fedele del Dio di Abramo: «E questo il sogno del ritorno a Sion: macchiare la Sua terra di sangue innocente? Se questo è il Messia, non voglio assistere al suo arrivo!» (15).

E’, probabilmente, a rabbi come Ahad Ha’ Am che si richiama un altro saggio rabbi, esponente dei Neturei Karta, il mite Mayer-Schiller. Sentiamolo perché egli dà una interpretazione del Talmud del tutto diversa sia dal sionismo religioso sia dalle posizioni anticristiane del giudaismo post-biblico di un tempo:

«Vi è molto più che una differenza: ebrei e non ebrei sono fondamentalmente differenti. (Tuttavia) Se il cristianesimo, come sostengono molti ebrei, è avodah zorah (idolatria), ciò significa che milioni di cattolici e protestanti non avranno parte dello haolam haba (il mondo a venire)? E tutto quello che abbiamo da dire a quei milioni di persone pie e sincere? Che Dio giudicherà il Gentile come un idolatra? O forse il Gentile non che un tinok shenishba, un bambino prigioniero’, un innocente? Quando siamo confrontati a dottrine o leggi della Torah che non comprendiamo, il nostro compito è di obbedirvi con fede e umiltà. La volontà di Dio, come si manifesta nella Rivelazione e negli eventi della nostra vita, ci lascia perplessi. Ma questo non deve per nulla abbassare la nostra emunah, la nostra obbedienza. Voglio dire che ogni approccio restrittivo, limitato alla sola comunità (giudaica), devessere necessariamente erroneo. Voglio soprattutto criticare latteggiamento, frequentissimo fra gli ebrei, di misurare tutte le questioni sociali in base agli effetti che potrebbero avere sugli ebrei. Questa visione restrittiva viene dallidea che il Gentile è secondario agli occhi del Signore. Ho avuto numerose conversazioni negli ultimi anni con dei cattolici tradizionalisti… potreste credere da principio che sono fra i peggiori antisemiti, ma quando vi sedete con loro e aprite un dialogo, vi accorgete che non rispondono affatto allo stereotipo. Si può parlare con loro. Se noi, ad esempio, perseveriamo a credere che i gentili sono secondari agli occhi di Dio aderiamo ipso facto ad una filosofia che corrobora le accuse portate contro di noi dagli antisemiti! Cè chi risponde che dobbiamo sfuggire le società in cui siamo ospiti, e diventare tutti sionisti. Ma appena arrivati in Israele, il problema ci si pone coi palestinesi… E impossibile sfuggire alla questione: chi sono i gentili e cosa fanno nel mondo? Lebreo ha diritto a reclamare dei diritti uguali, se non è pronto a condividere gli stessi sacrifici di tutti?» (16).

Rabbi Mayer, che legge la Scrittura ancora senza Cristo, riafferma che gli ebrei sono differenti dai gentili. Eppure dice che questi ultimi non sono affatto secondari agli occhi di Dio. Rabbi Mayer afferma l’eguaglianza davanti a Dio tra ebrei e gentili.

Prima di lui lo aveva già detto un altro rabbi, un fariseo, di nome Saulo di Tarso. Saulo lo disse dopo aver incontrato la Luce di Cristo sulla strada di Damasco. Quella Luce lo accecò momentaneamente, quasi a simboleggiare la cecità spirituale che, nell’economia della Nuova Alleanza, deve venire meno. Saulo pertanto si pose alla sequela di quel giovane Rabbi che gli era apparso nello Splendore della Resurrezione, cui lui fino a quel momento non aveva creduto, e che qualche anno prima, percorrendo con i suoi discepoli le strade polverose della Palestina, aveva infiammato d’amore i cuori degli ebrei ma al tempo stesso li aveva scandalizzati perché trattava alla pari anche i pagani: la donna cananea, il centurione romano, i greci che volevano parlargli. E nelle sue parabole lodava la carità dell’impuro samaritano, deplorando l’orgoglio dei sapienti d’Israele. Che si permetteva perfino di chiamare sepolcri imbiancati: la massima offesa per un ebreo dal momento che il massimo dell’impurità erano, nella cultura del tempo, i resti cadaverici nelle tombe.

Rabbi Mayer e gli ebrei che ragionano come lui sono sulla via di Damasco, sulla via che porta a Cristo? Forse. Non possiamo dirlo con certezza e solo Dio, che legge nei cuori, lo sa. Tuttavia non è un caso se, presentendo gli uni e gli altri in qualche modo proprio questo, i sionisti religiosi, soprattutto quelli delle colonie ebraiche in Terra Santa, sono soliti aggredire, picchiare e scacciare dalle sinagoghe i miti rabbini del Neturei Karta.

Esattamente come, duemila anni fa, capitò anche a Gesù di Nazareth nella sinagoga del suo villaggio.

Luigi Copertino

Fine

Ebraismo e cristianesimo (parte I)
Ebraismo e cristianesimo (parte II)
Ebraismo e cristianesimo (parte III)
Ebraismo e cristianesimo (parte IV)
Ebraismo e cristianesimo (parte V)




1) Confronta citato in Antonio Socci Indagine su Gesù, Rizzoli, Milano, 2008, pagine 129-130.
2) Confronta citato in Antonio Socci, opera citata, pagina 130.
3) Confronta J. Neusner, Ebrei e cristiani. Il mito di una tradizione comune, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, pagina 81.
4) Confronta J. Neusner, opera citata, pagina 86.
5) La prospettiva di questa apocalittica è del tutto mondana e ristretta in chiave nazionalistica. Essa, che comprende anche diversi apocrifi del Vecchio Testamento risalenti al II secolo avanti Cristo e rielaborati nel II secolo dopo Cristo, è sorta in concomitanza con eventi tragici della storia ebraica, come la resistenza ai tentativi di ellenizzazione sotto il dominio di Alessandro Magno o la distruzione del Tempio nel 70. La sua funzione fu quella di mantenere alta la speranza nell’adempimento della promesse messianiche come dall’ebraismo interpretate: Israele sarà liberato e vendicato e dominerà sulle genti perché Dio piomberà all’improvviso nella lotta tra ebrei e gentili stabilendo il primato dei primi per la pace dei secondi. Confronta in proposito Antonino Romeo, voce Apocalittica letteratura dell’Enciclopedia Cattolica, volume I, col. 1616-1617.
6) Confronta Bidussa, 1993, pagina 72, citato in D. Losurdo, Che cosa è il fondamentalismo, in Avallon, numero 54, 2005.
7) Confronta le citazioni di Nordau in Bidussa, ibidem, pagine 127-136; ora in D. Losurdo in ibidem.
8) Confronta Bidussa, ibidem, pagina 135; ora in D. Losurdo, ibidem.
9) Confronta Bidussa, ibidem, pagina 122 e pagina 74; ora in D. Losurdo, ibidem.
10) Confronta Kepel, 1991, pagina 167; ora in D. Losurdo, ibidem.
11) Confronta Israel Shahak, Storia ebraica e giudaismo. Il peso di tre millenni, CLS, Verrua Savoia (TO), 1997.
12) Confronta a cura di Giovanni Cubeddu, Dai tempi di Gesù ad oggi non abbiamo mai mantenuto relazioni migliori - intervista con Shimon Peres, presidente di Israele”, in 30 Giorni nella Chiesa e nel mondo, numero 10, anno 2010.
13) Confronta Synodus Episcoporum Bollettino - Assemblea speciale per il Medio Oriente del sinodo dei vescovi 10-24 ottobre 2010 in www.vatican.va: «Non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie. Al contrario, il ricorso alla religione deve portare ogni persona a vedere il volto di Dio nellaltro e a trattarlo secondo gli attributi di Dio e i suoi comandamenti, vale a dire secondo la bontà di Dio, la sua giustizia, la sua misericordia e il suo amore per noi».
14) Confronta in Il Messaggero, 25 ottobre 2010.
15) Confronta citato in Maurizio Blondet, I Fanatici dell’Apocalisse - Ultimo assalto a Gerusalemme, Il Cerchio, Rimini, 2002, pagina 158.
16) Confronta citato in Maurizio Blondet, opera citata, pagine 158-160.


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