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Le arti della CIA
03 Ottobre 2011
Tutta la nostra gratitudine a Frances Stonor Saunders, lucidissima storica britannica, per aver rivelato la mano (pesante) della CIA nella promozione dell’arte informale contemporanea, in un libro del 1999, che non ha molta speranza di essere tradotto in Italia: Who paid the Piper? CIA and the Cultural Cold War (pressappoco: Chi pagava il Pifferaio? La CIA e la Guerra Fredda culturale). L’amico Raffaele Giovanelli ha già accennato alla questione in un notevole articolo (Influenza della CIA nello sviluppo dell’arte occidentale) ma vale la pena di riesaminarla per mostrare come, in tale promozione che ancor oggi dura, e opprime l’intera cultura coi suoi rifiuti e deiezioni, abbia avuto una parte eccezionalmente efficace la manipolazione dello snobismo di alcune precise classi sociali.
Bisognerà cominciare col dire che negli Stati Uniti l’intervento dello Stato sulla produzione artistica è di lunga data. La grande crisi del ‘29 aveva ridotto alla fame i pittori americani; nel quadro del New Deal, il presidente F. Delano Roosevelt organizzava un programma di commesse pubbliche a loro favore. Un po’ aiuto alimentare e un po’ opera di propaganda, il programma federale – il Federal Art Project, fondato nel 1933 – pagava « più di duemila pitture murali» per le hall degli edifici pubblici. Si tratta di opere figurative e di massa, non molto diverse, per senso e funzione, da quelle del realismo socialista che vigeva allora in URSS e dal neoclassicismo del Terzo Reich, se non – forse – per una vena di critica sociale intrisa di marxismo (1).
Un futuro celebratissimo astrattista, Pollock (j), nel 1936 andava a scuola dal pittore comunista messicano Siquieros per farsi iniziare all’affresco di propaganda. Un altro futuro informale, Rothko (j) dipingeva scene di città e di metropolitane. Altri futuri nomi dell’informale dipingevano come voleva il committente e pagatore pubblico, non solo nei murales federali, ma in quelli commissionati dagli Stati e governi locali.
Le cose cambiarono dopo la guerra e l’immane vittoria americana sui fascismi. Se bisogna credere alla Stonor Saunders, il primo promotore del trionfo del modernismo americano e dell’informale, fu un mecenate improbabile: il Dipartimento di Stato. Come ministero degli Esteri, aveva bisogno di contrastare in qualche modo la propaganda sovietica, e quella dei partiti comunisti in Europa occidentale, che presentavano gli Stati Uniti come «un deserto culturale», e il capitalismo come artisticamente e culturalmente sterile. Il Dipartimento scelse l’arte modernista, scrive la Saunders, «come strumento di propaganda» allo scopo di «mostrare al mondo che esisteva un’arte all’altezza della grandezza e della libertà americane».
I l punto è perchè la scelta sia caduta proprio su quella. Esisteva un’arte figurativa americana di grande livello. Edward Hopper operava già dagli anni Venti (2). Il gruppo che si autonominò «New York Realists» godeva del vasto apprezzamento del pubblico americano, che in fatto di informale e astratto tendeva a pensarla in termini pericolosamente vicini agli sconfitti berlinesi: «Arte degenerata», soprattutto elitaria e, quindi, non democratica.
Non si va lontano dal vero se si vede qui un’influenza di quel gruppo umano che, privo per secoli di una propria arte figurativa, era (lo dico con Giovanelli) per principio favorevole a « un’arte ‘nuova’, che ignorasse scomodi richiami alla cultura ed alle tradizioni». Tradizioni altrui, da Fidia in poi, a cui quel piccolo popolo era estraneo. Il tutto nel quadro del vasto piano consistente a negare ogni possibilità di spiritualità, presente o passata, nel nuovo Occidente mondializzato, ossia sradicato come l’Ebreo Errante.
È noto il giudizio pressapochistico di Peggy Gungenheim (j): « Se i nazisti la rifiutano, deve essere buona». Rothko e Gottlieb (j) già dal ‘42 asserivano che il modernismo era l’arte della democrazia. Con poco successo. Apprendiamo infatti che in USA, nel dopoguerra, fu vivace un’opposizione all’arte moderna, un vero Kulturkampf, con un fiero dibattito culturale sull’arte quasi solo limitato all’interno dell’Amministrazione.
«A mio avviso, non c’è un briciolo d’arte nel modernismo», scriveva il presidente Harry Truman al vice-segretario di Stato Benton nell’aprile del 1947. Perché la lettera del presidente, al Dipartimento di Stato, è già notorio: proprio il Dipartimento degli Esteri s’era visto rifiutare dal Congresso, nel 1947, un finanziamento per «un’esposizione che doveva presentare in Europa e America Latina» una collezione di avanguardisti americani. Il Congresso la pensava come Truman e l’opinione pubblica in generale. Tanto più che troppi di quei nuovi artisti avevano fama di essere comunisti o trotzkisti.
Consapevole di «non poter sostenere pubblicamente l’avanguardia americana», scrive la Saunders, il ministero affidò l’opera – come per tante altre operazioni sporche in cui lo Stato non desiderava apparire – alla CIA.
Giovanelli ha già scritto come, a questo ed altri scopi, la CIA avesse finanziato per esempio in Italia Tempo Presente di Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte (niente di meglio di un’etichetta di sinistra per contrabbandare il verbo di Washington). Qui ricorderò come la CIA, in USA, adoperò il Museo of Modern Art di New York.
Il museo, l’oggi celebratissimo MoMA, è di proprietà dei Rockefeller. Il magnate John D. Rockefeller l’aveva aperto nel 1929 per far contenta la moglie, Abby Aldrich, che aveva l’innocua mania del contemporaneo francese. Era una cosetta senza pretese, che occupava un appartamento di sei stanze nella 5° Avenue, e che Nelson Rockefellr (il figlio) chiamava «il museo di mamma».
John D. Rockefeller Jr. e Abby Aldrich
William Paley
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Il fatto è che il museo di mamma era gestito da una cerchia sopraffina, che aveva collaborato coi servizi durante la guerra: il miliardario ed intimo dei Rockefeller, John Jock Hay Withney era stato membro dell’OSS (la futura CIA), ed ora era amministratore del MoMA. Così come William Paley, altro amministratore, magnate dei media: amico personale di Allen Dulles già capo dell’OSS per l’Europa (in contatto, durante la guerra, con Ugo La Malfa), Paley soleva «dare copertura ad agenti della CIA» nel suo network TV. Lo stesso Nelson Rockefeller «aveva diretto durante la guerra l’agenzia di intelligence in America Latina».
Fatto sta che da allora il MoMA diventa il megafono della propaganda per il modernismo come arte americana.
Il direttore del MoMa scelto da Nelson Rockefeller in quei mesi, René D’Harnoncourt, (un francese), tiene una conferenza nel ‘48 in cui afferma con il modernismo astratto «nella sua infinita varietà e la sua ricerca incessante», in cui l’artista «può creare uno stile che rifletta la sua personalità», è «il simbolo supremo della democrazia» individualista americana. Nelson Rockefeller, poco dopo, andrà affermando che l’arte moderna è il simbolo della libertà, come dimostra il fatto che sia stata rifiutata dai nazisti e dai sovietici. Alfred Barr, critico e già direttore del MoMA, fu richiamato in servizio a dichiarare che l’espressionismo astratto americano era un’arma essenziale contro il nuovo nemico – il comunismo – in quanto è «la pittura della libera impresa» (sic).
Alfred Barr
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Barr tirò fuori questa trovata in una lettera che scrisse ad Henry Luce, il magnate della stampa – catena Time-Life – per essere pubblicata. Strano a dirsi, fino ad allora la politica editoriale di Henry Luce (la moglie sarà ambasciatrice USA a Roma) era fortemente ostile all’astrattismo, e fortemente favorevole ai realisti americani. Da allora conobbe una conversione a 90 gradi: nell’estate ‘49 la rivista Life pubblica il paginone centrale dedicato a Jackson Pollock e alla sua gloriosa produzione fatta di scolature di vernice sulle tele. Il che si spiega, forse, con il fatto che Rockefeller aveva cooptato anche Henry Luce nell’amministrazione del MoMA. Con Life, che aveva tirature astronomiche, fu fatto il primo grandioso tentativo di portare l’informale nelle case della classe media americana, con un succeso modesto per il momento. Ci vorranno altri decenni di martellamento e propaganda perché l’opinione pubblica accettasse, o almeno non protestasse, davanti ad opere d’arte fatte di tubi al neon e di foto serigrafate. Ma il vero colpo da maestro della CIA fu – con la scelta del «museo di mammà» per la sua operazione culturale – di conquistare le classi alte, alte almeno nei redditi e profitti. Per gli americani ricchi, e specialmente nuovi ricchi, Rockefeller non era solo il supermiliardario più ricco di tutti, ma l’incarnazione dell’Establishment, insomma il capo del salotto buono più esclusivo, e, per gli altri ricconi, un modello da imitare.
I miliardari del MoMA
Dal momento che Rockefeller compra per il MoMA (per cifre inimmaginabili) Rothko e Pollack e non Hopper, egli dà il segnale di ciò che è distinto a quella classe dove lo snobismo domina spasmodico. Dal momento che i Rockefeller mettono le enormi tele dell’espressionismo astratto nelle hall delle loro banche, qualunque miliardario fattosi da sé capisce che affettare una preferenza per l’arte modernista, e contribuire alla sua promozione, diventava un mezzo per assicurarsi la riuscita mondana e l’elevazione sociale nel club chiusissimo e super-snob del Liberal Establishment della West Coast, i patrizi del denaro di terza o quarta generazione di New York o di Boston, i cui figli e nipoti, infatti, si dotano di un numerale come i principi e i monarchi: John Rockefeller III, eccetera. Tanto più che chi tra i nouveau riches donava una decina di opere al Museo d’Arte Moderna di New York, spendendo cifre colossali che aveva l’accortezza di rendere note ai media, aveva la possibilità di cenare con Rockefeller, ed era gente che i Rockefeller, a priori, non avrebbero mai accettato di frequentare.
Per questo motivo, l’arte contemporanea americana parte subito con prezzi esorbitanti. Non si dà il caso di artisti incompresi, di Van Gogh o di Gauguin che vendono le loro tele nelle osterie per campare, e la cui quotazione diventa astronomica dopo la loro morte. Qui, il cosiddetto mercato è costituito dall’inizio dal club del miliardari USA, un centinaio di famiglie che si conoscono, si spiano e si copiano, che vestono le mogli dagli stessi grandi sarti, le mandano dagli stessi chirurghi plastici di grido, che vogliono comprare le stesse cose nello stesso momento, a qualunque prezzo: da qui l’immediato successo di artisti che producono non importa cosa, e di qui fra l’altro la spenta uniformità e il conformismo delle collezioni private che i miliardari accumulano nelle loro magioni, o nei loro musei.
In questa situazione, è ovvio che finanzieri europei o giapponesi vogliosi di stabilire buone relazioni d’affari con i miliardari americani, hanno tutto l’interesse ad affettare lo stesso gusto per gli stessi cosiddetti artisti idolatrati dai ricchi americani, e si buttino anch’essi a comprarne le produzioni qualunque a quotazioni folli.
Questa mondializzazione del qualunque-strapagato continua e si espande: nel maggio 2005, Le Monde notava come gli oligarchi russi s’erano dati a comprare per cifre colossali opere non-importa-cosa ad una fiera dell’arte contemporanea a Basilea, perchè ciò permetteva loro di «incontrare (alla fiera) uomini d’affari che sarebbero rimasti loro inaccessibili» altrimenti, nonché di partecipare al «jet-set internazionale».
Questa immensa impostura è ovviamente facilitata dall’incultura e ignoranza di queste classi miliardarie. Come ha notato Jean-Louis Harouel, oggi le classi superiori «sono in generale incolte, immerse nella più soddisfatta ignoranza di tutto ciò che esula dal sapere tecnico che consente di guadagnare denaro». Per di più, «anche i miliardari devono lavorare per restare ricchi»; non hanno tempo da dedicare alla frequentazione delle grandi opere d’arte, di leggere di storia dell’arte, storia o letteratura (o di leggere tout-court), che sono necessarie per formarsi una competenza e un gusto, come i mecenati d’altri tempi, che erano aristocratici, re e Papi. Non sanno nulla di stili, tradizioni, scuole e tendenze. Non hanno realmente tempo nemmeno di visitare le gallerie e le aste; incaricano per lo più consulenti ed esperti per i loro acquisti. E l’assenza di contenuto artistico, conclamato nelle opere degli autoproclamati artisti contemporanei, conviene perfettamente ai miliardari, in quanto non richiede alcuna conoscenza d’arte e di storia, nessuna educazione dell’occhio e del gusto; basta aver speso milioni a centinaia per un pezzo di ferraglia o una scultura di tubi al neon, per credere e far credere di essere dei mecenati e intenditori. Se costa tanto, sarà perché vale. La cosa è stata notata con dolore da un grande antiquario parigino, Miron Dragou: «I giovani leoni della finanza», ha detto in un’intervista a Valeurs Actuelles, «rifiutano gli oggetti antichi», e «affermano la loro riuscita sociale acquistando cose contemporanee, secondo un solo criterio: che siano molto care, e che si sappia che hanno i mezzi per comprarle».
Le scelte dei miliardari incolti hanno poi un seguito nella società di massa – si pensi solo alle migliaia di manifesti che riproducono le Zuppe Campbell e le Marilyn di Andy Warhol, vendute nei grandi magazzini e che sono affisse nelle camerette studentesche, mentre le serigrafie originali sono state comprate per milioni dal MoMa o da Bill Gates. Così le scelte dei miliardari sine nobilitate generano nel vasto mondo d’oggi il niente artistico, una terra bruciata della creatività, che tutti constatiamo. La produzione degli artisti dichiarati tali dal mercato non è solo un surrogato d’arte ideale per gli incolti; cosa peggiore, nonostante le sue false pretenzioni di trasgressione, il contemporaneo è l’ufficialità assoluta, quella che condanna le altre manifestazioni e scuole alla miseria, al silenzio, e alla censura. È la situazione che Alain Paucard (Manuel de Résistance à l’art contemporan) denuncia così:
« Nel realismo socialista, ciò che era criticabile non era il realismo, bensì il socialismo, la sottomissione al Partito. Oggi, il Partito è la Mercanzia... L’arte ‘contemporanea’ è appunto la forma che prende il realismo socialista, l’arte al servizio del partito, nell’epoca mondialista».
1) Per l’opinione pubblica americana, il decennio di Roosevelt passa per qualcosa di molto vicino al socialismo. In realtà, quello che Roosevelt attuò nelle forme più edulcorate – intervento dello Stato nell’economia, dirigismo, creazione di forme di assistenza sociale e di sostegno del lavoro, paternalismo autoritario, propaganda intesa a creare un forte senso di solidarietà nazionale – lo mutuò dal fascismo. Ciò è visibile persino nella simbologia delle grandi opere del regime rooseveltiano: per esempio le aquile e i fasci che adornano la Diga Hoover, costruita nello Stato del Nevada fra il 1931 e il 1936 per impiegare decine di migliaia di disoccupati della Grande Depressione. 2) Per mostrare come sia stata significativa la scelta dell’informale, come arte americana, nei quartieri alti della politica e del denaro, basterà dire che Edward Hopper dovette campare, per anni, facendo il cartellonista per le case di produzione cinematografica, spesso bussando alle porte dei grandi magazzini ad offrire manifesti pubblicitari, e spesso rifiutato. Nonostante ciò, Hopper rimase insensibile alle mode e inflessibilmente fedele alla propria vocazione. Fu in Europa per un anno, nel 1906, e poi ancora nel 1910, risiedendo per lo più a Parigi, dove furoreggiava Picasso. Hopper confessava di non averne sentito neppure parlare, e ricordava solo la sua stupita ammirazione davanti alla Ronda di notte di Rembrandt, segno del rapporto personale e diretto che un grande artista coltiva con la grande pittura. Tornato negli States, fra difficoltà e depressioni da disoccupazione, a lungo incompreso (solo nel ‘23 vendette il suo primo quadro a un museo a Brooklyn, che lo pagò 100 dollari), Hopper realizzò in maniera indipendente una vasta opera pittorica che si dispiega dal 1910 al 1960, passando dunque sopra non solo all’espressionismo astratto, ma alle mode successive, dal minimalismo al concettualismo, alla pop-art.
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