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Mala architettura, mala politica
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Continuo a chiedermi se l’incomprensione, o sottovalutazione, dell’architettura di Roma non faccia tutt’uno con il fatale sviamento politico di quello che chiamiamo l’Occidente.

Prego di non pensare che il tema sia inattuale. L’archiettura è la forma d’arte più radicalmente «politica», perchè è per essenza «pubblica». Non esiste un’architettura, diciamo «lirica», espressione di sentimenti privati, come esistono poesie liriche. Anche la villa privata del ricco, a Pompei o in Brianza, è – lo voglia o no l’architetto o il proprietario – «rappresentativa».

L’architettura è «epica» per sua essenza, monumentale: è il modo in cui il potere si auto-presenta in un dato momento storico, ed è insieme «un modello dell’universo che include la società umana». Sicchè gli edifici, siano quelli sovietici o nazisti, siano anche i grattacieli delle corporations di New York, o le chiese di Fuksas, rivelano molto della natura del potere di oggi. Rivelano più di quanto vorrebbero.

Ma che cosa rivelano?

Non si può capire veramente se non li si confronta con l’architettura romana, l’architettura del potere pubblico per eccellenza, lo Stato e l’impero modello (e modellante) dell’Occidente.

Io affermo qui che l’architettura fu l’arte in cui Roma ha superato ogni altra civiltà; e per la stessa ragione per cui Roma fu per eccellenza politica, e universalmente politica. Invece, vige il luogo comune che vuole Roma artisticamente secondaria rispetto alla Grecia in tutte le arti, e coinvolge nello stesso giudizio l’architettura romana; è, si dice, una derivazione della «perfezione» greca, che i romani avrebbero copiato, senza attingere ai vertici del Partenone, dei templi di Paestum...

E’ imperdonabile che questo luogo comune abiti i romani d’oggi, forse per assuefazione incapaci di vedere la originalità delle rovine romane, e la sottostante originalità del potere romano.

Non sono io a dirlo. E’ stato Sergio Bettini, uno dei più illuminanti storici dell’arte (1), a indicare la differenza basilare: nell’architettura greca è primario «l’elemento», mentre nella romana domina «il legamento». Ed è Bettini a evocare il significato politico della differenza. L’architettura ellenica è basata sull’elemento perchè «resta aggrappata al particolarismo tipico della Grecia», mentre il legamento romano «esprime l’universalismo unitario che è tipico della mens romana». Insomma, il Partenone è espressione del «separatismo» irriducibile della Grecia (le cui polis non riuscirono, o non vollero mai darsi uno Stato unitario), e le basiliche di Roma della volontà universale e unificante dell’impero, che riunì «genti diverse».

Che cos’è «l’elemento» che l’architettura ellenica privilegia? Impariamo a vederlo: i templi classici mantengono invariabilmente lo schema trilitico (due colonne che sostengono un’architrave), elementare ed arcaico (è lo stesso di Stonehenge). Ogni colonna o trabeazione «dichiara» la sua funzione: le architravi «pesano», le colonne reggono il peso; e questa funzione è sottolineata volontariamente, per un bisogno di razionalità geometrica-fisica. Nel dorico, lo sforzo è persino simulato dall’entasis delle colonne, che sembrano gonfiarsi come muscoli sotto il peso. I templi greci sono fatti di blocchi di pietra, grandi masse che restano in piedi grazie al loro singolo peso, prive di materiale coesivo.



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Il partenone



L‘architettura romana, al contrario, usa regolarmente materiale cementizio (piccole pietre affogate in una malta): materiale «legante» per eccellenza, a formare edifici che fin dall’inizio sono progettati non in relazione ai particolari, ma al «legame coesivo unitario».

Si intuisce il senso politico-metaforico di queste descrizioni? Spero di sì.

Per usare altre metafore: il Partenone è meno un’architettura che una scultura, una forma da guardare dall’esterno (il suo interno è un’insignificante celletta, che racchiude il simulacro di Pallade); il Pantheon è essenzialmente un «interno», uno spazio dominato per servire agli uomini.

Detto in altro modo ancora: l’architettura greca è una grammatica, quella romana è una sintassi.

Si aggiunga che malta, cemento e mattoni non erano mai stati, prima di Roma, materiali «artistici»: i romani li adottano da costruzioni utilitarie, cisterne ed acquedotti, spesso orientali: sono materiali in qualche modo «democratici» oppure «barbari». Ma Roma «include la barbarie» (che l’Ellade esclude), ed usa liberamente tali materiali tecnici per ottenere una espressività nuova; lo sforzo e i pesi, cosi visibili nel tempio greco, sono nelle costruzioni romane scaricati su muraglie cementizie  esterne, sostanzialmente sottratte alla vista.

Non ingannino le colonne, i capitelli, gli ordini greci delle costruzioni romane: essi sono ornamentali, non reggono nulla. Difatti sono spesso «appliques», semi-colonne addossate a pilatri portanti.

I greci coprirono i templi con una tettoia piatta; per i loro architetti, non significava altro che una copertura qualsiasi. Nell’arte romana, è la copertura ad essere massimamente significativa: alzano volte e cupole, ed è con queste che raccolgono e unificano gli spazi verso un centro, ma senza rinunciare alla loro «articolazione». La tettoia greca può coprire uno spazio qualunque (per lo più, invariabilmente rettangolare).

Cupole e volte impongono a Roma complessi problemi, risolti con una fantastica varietà  di nuclei portanti, ed essenzialmente con l’adozione della pianta centrale, per ottenere spazi interni «in tensione» mobile ed energica.



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La cupola del Pantheon con le sue esedre



Entrambi hanno l’uomo come misura; ma i greci soddisfano l’uomo razionale, i romani esprimono (dice Bettini) «l’uomo come tensione, come forza che cerca un fulcro, energia fisica e potenza morale, volitiva. I romani sentono lo spazio come una dimensione continuamente articolata dalla volontà e dall’azione di esseri viventi», e proprio perciò esseri mortali, non divinità, nè tantomeno morti mummificati (come nell’architettura egizia).

E’ una forma di costruzione, come la politica romana, supremamente vitale.

L’architetto romano vuole «raccogliere e unificare gli spazi» per ottenere «quell’effetto caratteristico di totalità dello spazio, a cui subordina tutte le forme particolari». Esattamente come l’impero romano. Ma fu «totalitario» questo impero, come suggeriscono i film pseudo-storici di Hollywood, e come siamo abituati a pensare senza pensarci?

E’ proprio l’architettura – pubblica, del potere – a dirci che l’impero di Roma fu il contrario del totalitarismo. Che, per dirla con Salingaros (2), «insegna l’ordine con esempi costruiti», agevolando i «legami tra esseri umani, tra le persone e l’ambiente costruito», rafforzando sempre «l’interconnesione e la coerenza che definiscono la società umana e la nostra civiltà».

Questo dicono le mura di Roma, a chi sa ascoltarle.

A questo punto, consiglio una visita ad alcuni edifici romani: per «sentire» quella che fu l’atmosfera del potere romano. L’atmosfera di un’epoca è quella meno afferrabile («Chi non ha vissuto durante l’Ancien Régime non saprà mai capirne il profumo», disse Talleyrand), quella più passeggera: i libri di storia non possono rendercela. Ma possono renderla le arti. A Roma, l’architettura.

La nostra visita deve cominciare dal Pantheon, voluto da Adriano, che già rappresenta un raggiungimento perfettamente romano. Non vi fermate davanti al colonnato d’entrata,  copia romana di un tempio ellenico, nemmeno tanto ben raccordata con la cinta muraria tonda che s’intravvede dietro. Non è quello che interessa l’architetto; è l’interno, quello che gli preme.



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Pantheon, l’interno – Lo spazio resta perfettamente dominato, ma è una dimensione «continuamente articolata dal desiderio, dalla volontà, dall’azione degli uomini».



Entrare per la prima volta nel Pantheon è una grande esperienza personale, una visione immediata  simile all’illuminazione, ed è un peccato che, per assuefazione o cecità ignorante, tanti romani d’oggi se la neghino.

Entrate dentro e lasciate che l’interno vi parli al cuore. Che cosa vi dice? Siete sotto una cupola grandiosamente potente, ma non minacciosa; una luce serena si spande da luncernario rotondo, e illumina tutto; sebbene una sfera perfetta e colossale possa essere iscritta nello spazio interno, esso non vi opprime. Voi siete all’interno di un grande  spazio «serenamente dominato», senza sforzo. Benchè monumentale, questo spazio è accogliente, «fatto per voi», come l’impero romano. Per di più, il vasto spazio qui racchiuso è in qualche modo «sostanza», quasi addensata: questa «concretezza» dello spazio è una qualità romana, e romana soltanto.

Il Pantheon è un grosso muro cilindrico che regge una cupola semisferica. E il cilindro murario è spesso sette (diconsi 7) metri. Ma come mai non vi opprime? Il fatto è che in quello spessore immane sono scavate nicchie ed esedre che si alternano; le nicchie sono ampie absidi semicircolari; le esedre sono ravvivate da colonne corinzie (che non reggono niente).

Ed ora provate ad immaginare (a visualizzare) l’interno del Pantheon senza quelle nicchie ed esedre: vi sentireste immediatamente chiusi in una specie di proiettile d’acciaio, in una immensa cripta himmleriana. Lo spazio, da «sostanziale» e sensibile, diventerebbe troppo denso, un blocco metallico. «Totalitario», appunto.



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Invece no. Le nicchie e le esedre scavate non solo annullano la sensazione intimidatoria di «massiccio», ma dilatano questo spazio, gli danno tensione; l’interno non è una semplice ogiva, ma un articolarsi elegante di spazi secondari eppure accessibili, e visibili. La potenza si coniuga con una misteriosa, mossa tendenza alla leggerezza.

Ora, per vedere come sa evolvere questa architettura (laddove quella greca ripete immutabile lo schema rettangolare), andiamo a tempio detto di Minerva Medica, che era in realtà una sala-ninfeo. Il rudere che ne rimane (la cupola fu lasciata crollare per incuria nel 1828), che rivela a vista i mattoni e le opere cementizie originariamente coperte da marmi preziosi, può non risultare leggibile subito al profano, anche se esso mostra la complessità ingegneristica dei problemi che dovettero essere risolti.



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Minerva Medica



Ma guardiamo la pianta dell’edificio, e confrontiamola con quella del Pantheon:



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Pianta del Pantheon


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Pianta di Minerva Medica



Vedete che cosa hanno fatto gli architetti a Minerva Medica? Le esedre e le nicchie, che nel Pantheon sono all’interno del nucleo murario, scavate nello spessore, sono state arditamente portate all’esterno, «sfondando per così dire la continuità interna della parete». Le absidi sono veri e propri ambienti, ma non sfuggono al centro; anzi ariosamente vi si riconducono. Immagine di  Roma e dei suoi popoli, non più soggetti ma ora civites romani.

Dall’accenturasi della disposizione del Pantheon, nascono soluzioni in cui le nicchie diventano veri ambienti. «I costruttori hanno avuto l’ardire di portare le esedre dall’interno del nucleo murario all’esterno, sfondando per così dire la continuità dell’interna parete».

Ma nemmeno questo risultato espressivo bastò. L’architettura romana tendeva  per sua tensione interna verso soluzioni sempre più ardite, addirittura «anticonformiste», che però evitarono sempre il rischio del «rivoluzionario» e dell’arbitrario: contrariamente all’arte contemporanea, non cede mai alla tentazione del «famolo strano», che è profondamente anti-umana. Sa di essere un linguaggio, che è patrimonio «comune», che deve essere capito da tutti gli uomini – almeno da quelli che condividono la stessa cultura storica.

Per vedere a cosa questo impulso condusse, dobbiano andare in via Nomentana, a Santa Costanza. Siamo in età costantiniana; è questo il mausoleo che Costantino volle per sè e le sue figlie (fra cui Costanza, tutt’altro che santa secondo Ammiano Marcellino).



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Santa Costanza – «L’ambiente centrale non domina tutta la costruzione, ma si coordina alle altre parti, diventa parte dell’insieme».



Guardiamo l’interno, tenendo sempre presente il modello del Pantheon. Quelle che là sono pareti massicce, che definiscono lo spazio come corpo sostanziale, qui «si sono disciolte» in luce. Lo spazio centrale non è più racchiuso da una parete continua, ma da un altro spazio anulare, sfumato nella semi-oscurità.

Nel Pantheon la potente cupola  si appoggia visibilmente sul muro perimetrale; a Santa Costanza, la cupola è emancipata dal cilindro murario, e sospesa illusoriamente su un anello centrale, e apparentemente sostenuto da colonne che, lo dico ancorta una volta, non sostengono niente; il peso è arretrato sulla cinta muraria cementizia, la quale però – ecco il punto – è mantenuta deliberatamente in penombra. Le colonne accoppiate in granito, il cui slancio è ulteriormente accentuato dal pulvino (invenzione puramente romana), irraggiano dal centro; le loro trabeazioni, in strepitosa irradiazione prospettica, tendono verso l’esterno, verso la penombra indefinita dell’ambulacro, verso uno spazio idealmente illimitato.



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Il pulvino sopra i capitelli a Santa Costanza


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Partenone – Colonne senza pulvino



Sarebbe troppo lungo indicare la grandiosa originalità delle basiliche di Costantino, di Massenzio, delle terme di Caracalla, col traforarsi dei nicchioni (un effetto già presente in Minerva Medica) che portano la visuale verso l’aperta atmosfera; basterà dire che l’articolarsi di grandi volte copre spazi enormi (400 metri per Cacaralla, a servire un pubblico di 1.600 persone) che non diventano mai amorfi – per confronto si pensi agli aeroporti dei nostri pagatissimi architetti contemporanei, sconfortanti «non-luoghi», segno di una incapacità artistica radicale.



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Basilica di Massenzio


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Terme di Caracalla – Spazi enormi, che non diventano mai amorfi. In spazi vastissimi, l’uomo non si sente mai perduto nè disorientato.



Bettini: «Nell’arte romana le volte e le cupole hanno la funzione fondamentale di raccogliere e unificare gli spazi, di ottenere l’effetto caratteristico di totalità dello spazio, a cui vengono subordinate tutte le forme particolari».

Lo spazio sempre più complesso, mosso ed aperto, ma sempre sovranamente, potentemente dominato.



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Terme di Caracalla



Per constatare le intenzioni ultime dell’archiettura romana dovremo lasciare Roma, e andare a Treviri, a Milano, a Ravenna; siamo ormai nel tardo impero, paleocristiano; l’impero deve esser difeso ai confini, ha addirittura perso la sua unità, i compiti difensivi impongono quattro capitali, è sorta la seconda Roma, Costantinopoli. Ma in quella che chiamiamo «decadenza», esso dà i suoi frutti architettonici più maturi, straordinari, insuperabili.



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Basilica di San Lorenzo, Milano – «Il gusto romano,sempre più, priva ogni singola forma del suo significato tettonico per ridurla a mera funzione dell’effetto totale dello spazio»


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Pianta della basilica di San Lorenzo



La milanese basilica di San Lorenzo parte da modelli del tipo di Santa Costanza – una rotonda circondata da ambulacro – ma interpretato in  modo da accentuare straordinariamente la «immaterialità» dello spazio che racchiude. Il peso della cupola possente non si scarica sui pilastri visibili del vano centrale; è tramesso sugli ambulacri per cadere, infine, su quattro torri angolari esterne, ossia non viste da chi sta dentro; sicchè la cupola sembra staccarsi e librarsi in una leggerezza «mai prima raggiunta». L’effetto è accentuato dal tamburo (sempre più frequentemente adottato nella trada romanità) che solleva ancor più la cupola dallo spettatore, rendendola aerea.

I matronei, dei quali dal vano centrale si possono avere solo vedute oblique, «sfuggenti su spazi indeterminati e complicati», contribuiscono a dare all’osservatore la sensazione di trovarsi in uno spazio sì definito, ma «espanso, e senza precisi limiti materiali».

Credete che Fuksas o Renzo Piano, arruolati dai burocrati d’oggi, saprebbero fare qualcosa del genere?

San Lorenzo, con lo spazio centrale dilatato e dominante rispetto agli ambulacri, con la forte architrave che divide il piano terra dai matronei, conserva ancora la posata, ferma «gravitas» romana che abbiamo visto nel Pantheon.

Invece in San Vitale in Ravenna, capolavoro assoluto della massima arte tardo-romana, non c’è alcuna architrave che interrompa orizzontalmente lo slancio dei pilastri verso l’alto: «Lo spettatore», scrive Bettini, «si trova senza preparazione alcuna al centro di uno spazio agitato, variabile», uno spazio inquieto, che si irraggia verso «indefinite lontananze, insondabili».

I mosaici per di più trasformano tutto quello che era muro, o pilastro, in «una immateriale stesura cromatica».  Il «centro» spaziale romano risulta come annullato in uno slancio verso l’alto e verso il lontano; tutto è privo di peso, illusionistico, fatto di luci e colori. Lo spazio si è smaterializzato, anzi spiritualizzato.

Giunto al suo termine storico, l’impero romano non muore, non decade, ma cede il suo spazio architettonico alla fede cristiana. Non a caso nè per usurpazione la Chiesa fece di quelle basiliche (in origine edifici civili) le sue chiese. Esse erano già pronte a dar voce all’intimità, alla preghiera, alla presenza del Corpus Christi, allo slancio verso l’alto.



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San Vitale a Ravenna



Dal Pantheon fino a San Vitale, abbiamo dunque visto come si evolve lo spazio architettonico romano: l’energia dell’uomo romano «conquista» lo spazio senza mai perderne il controllo. Nell’architettura, Roma esprime la fiducia nella perfezione fondamentale del mondo (3) – e la sua energia fiduciosa e cordiale dilata i vani interni, li tende in absidi, in cupole; poi li fa «esplodere», li apre – ma senza mai renderli indefiniti, disorientanti  e caotici. L’impero governa il mondo, senza mai schiacciarlo; trasforma l’orbe in urbe, il mondo naturale in Città, la città eterna.

Nei secoli, per contenere nella Città (con le sue utilità per l’uomo di carne) anche l’eterno, è come se gli edifici si gonfiassero come bolle, sotto l’impulso di una forza interna espansiva e luminosa; e alla fine conquistassero sempre più luce, sempre più pathos e «interiorità»; da materia concreta, lo spazio si fa immateriale, illimitato; «irrazionale»,  come avrebbe detto un greco.

Tutti gli stili seguenti (tranne il gotico, che è metafora di foreste germaniche), il romanico ed anche il barocco saranno continuazioni, interpretazioni di questa romanità evolvente; il barocco portandone alle estreme conseguenze, con le sue cupole ovali, l’illusionismo fantastico, fino al capriccio.

Che cosa sono al confronto gli edifici pubblici, prima delle dittature novecentesche, ed oggi della dittatura molle, burocratica? Effetto architettonico di cattiva politica.

Le chiese di Fuksas? Sintomo di cattiva fede, di malafede di cattivi vescovi  o burocrati committenti, mostri freddi senz’anima, che vogliono rappresentare architettonicamente le loro anime morte.

Imparate, lettori, a guardare Roma; a sentirne l’architettura nei muscoli e nel sangue, come «vostra». Può essere l’inizio della terapia di cui abbiamo bisogno, come cittadini, come cristiani.




1) Sergio Bettini, «Lo spazio architettonico da Roma a Bisanzio», Bari, 1978.
2) Nicos Salingaros, «Antiarchitettura e decostruzione», Firenze, 2005. Per contro, l’architettura contemporanea vuole imprimerci la visione «di un mondo distrutto, di un universo ridotto in briciole, in frantumi». E fa ciò deliberatamente, per nuocere agli uomini e per odio alla tensione al divino. Lo ha detto chiaramente Libeskind, uno degli architetti decostruttivisti che vanno per la maggiore (nel senso che ricevono commesse dalle burocrazie pubbliche): «Proprio qui, nel campo del sacro, il Bauhaus dichiarò guerra e portò devastazione... Gli dei furono rovesciati, gli ordini infranti, le mura abbattute, il centro rimosso»: quel «centro» che fu il nucleo irrinunciabile dell’architettura di Roma. E Derrida, filosofo decostruzionista, esalta le nuove architetture alla Fuksas come «una critica a tutto ciò che ha subordinato l’architettura a qualcos’alto, il valore di utilità, bellezza, vivibilità». Insomma l’architettura d’oggi rifiuta di essere utile, bella, e persino vivibile. Per odio dell’uomo. Si riconoscerà in questo rifiuto l’urlo di Lucifero: «Non serviam», non servirò. Si potrebbe credere che nessuno sia disposto a pagare miliardi per un’architettura deliberatamente inservibile. Invece no: la pagano le burocrazie pubbliche e clericali, i mostri freddi del totalitarismo molle, che «non hanno bisogno della partecipazione degli esseri umani».
3) La fiducia nella perfezione fondamentale del mondo è la fiducia che il mondo sia fatto e ordinato per l’uomo. Non un caos dominato dalla violenza, dall’insensatezza e dall’ingiustizia, e nemmeno il mondo freddo governato dalla matematica della scienza fisica-astronomica, ma un universo creato da un amore cordiale per l’umanità e per le relazioni che gli uomini intrattengono fra loro. Roma fu una civiltà per eccellenza «cordiale» (faceva acquedotti e terme) e per questo la sua architettura potè infine «contenere» il cristianesimo, che non dovette crearsi un’architettura propria. Ovviamente, questa fiducia rimanda a Dio, perchè il mondo «di qua» è effettivamente dominato dalla violenza e dall’ingiustizia, se lo si considera in sè. Per secoli, l’architettura ha espresso la fiducia che il mondo di qua non esaurisce l’esperienza umana, non chiude l’uomo: che l’ingiustizia e la violenza non sono l’ultima istanza, che ci si può appellare ad un ideale più alto, che è il Bene. Cito Salingaros:  «Nelle prime religioni lo spirito creativo si manifestava ovunque, e non soltanto in tipi particolari di artefatti sacri. Gli oggetti utilitari venivano realizzati secondo la stessa filosofia degli edifici: erano cioè la rappresentazione della complessità e della bellezza dell’universo come meglio poteva essere compreso dall’essere umano a quell’epoca. Ogni credente accetta che Dio sia realmente ovunque, così per millenni abbiamo tentato di costruire tutto ciò che ci circondava secondo una logica superiore. Ciò generava una tensione con le opposte forze dell’economia, dell’utilitarismo, della moda, che evitava ai nostri edifici di essere privi di vita». Ecco una bella descrizione della fede nella perfezione fondamentale del mondo.


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