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Perché la ricetta Hitler funzionò
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«Come mai Adolf Hitler è stato capace di sollevare la Germania dalla Grande Depressione mentre in Usa Roosevelt ha fallito?». Negli ultimi anni, mentre la nostra crisi globale cresceva, la domanda se l’è posta un numero sorprendentemente alto di economisti o giornalisti economici americani, spesso con tendenze di sinistra: da Alexander Cockburn a Mike Whitney, dal giornalista cino-americano Henry CK Liu (commentatore principe di Asia Times) a Ellen Brown, l’avvocatessa indagatrice del sistema di creazione di denaro dal nulla da parte delle banche, che con il suo libro Web of Debt ha toccato i vertici dei best-sellers.

I nostri lettori, specie quelli che hanno letto i due capitoli dedicati all’economia hitleriana nel mio «Schiavi delle Banche», sanno già rispondere alla domanda. È curioso ed istruttivo vedere cosa, del miracolo economico tedesco 1933-41, hanno scoperto gli americani.

Tutti informano i loro lettori che i nazionalsocialisti «emisero la propria moneta» senza interessi, escludendo dall’affare il cartello bancario internazionale; un «programma di credito nazionale» simile a quello con cui Abraham Lincoln finanziò la guerra civile stampando dollari di Stato, Greenbacks: così Ellen Brown.

Mike Whitney (di Counterpunch) fa un confronto fra la creazione monetaria di Hitler – o meglio, quella di Hjalmar Schacht, il suo banchiere centrale – e quella della Fed sotto Ben Bernanke. I «tassi a zero e la compra di titoli (quantitative easing con moneta creata dal nulla) di Bernanke hanno fatto bene alla finanza di rischio: le azioni sono apprezzare di oltre il 140% rispetto alla loro caduta del 2009; però la disoccupazione resta sopra il 7%, i salari reali ribassano, il Pil cresce meno del 2%, 47 milioni di americani vivono grazie ai sussidi sul cibo (food stamps)… le politiche di Bernanke hanno favorito solo la classe degli investitori».

Hitler invece, con la creazione monetaria, si propose come prima cosa di far sparire la disoccupazione, che aveva raggiunto la spaventosa cifra di 6 milioni durante Weimar e la sua politica di austerità-deflazione, nel tentativo politicamente corretto di pagare i debiti di guerra imposti dai nemici vincitori, che superavano di 3 volte l’intera ricchezza nazionale.

«Nel luglio 1935 il numero degli occupati tedeschi era già cresciuto della metà, da 11,7 milioni a 16,9; cinque milioni di nuovi lavori pagati furono creati», scrive ammirato Liu. Settant’anni dopo, «gli economisti neo-liberisti hanno ancora da imparare che il pieno impiego è tutto quel che conta, e i salari sono la chiave della prosperità nazionale», ciò che il regime hitleriano aveva capito subito. «Ogni politica economica che non tenda al pieno impiego è controproducente ed illusoria, così come ogni politica che permette la concorrenza internazionale fra salari è traditrice». Per questo Hitler comunicò agli industriali tedeschi che il ruolo dello Stato si sarebbe limitato a «incoraggiare gli investimenti privati soprattutto attraverso incentivi fiscali», senza investire direttamente nelle imprese , dice Liu: «la sua volontà era di dare ragguardevole finanziamento pubblico a investimenti pubblici come le autostrade, non all’industria. Gli investimenti (industriali) sono improbabili se i consumatori non hanno denaro da spendere o hanno paura, per l’insicurezza del posto, di spenderlo per comprare le merci che producono. Hitler capì che i lavoratori avevano bisogno di un decente introito per diventare consumatori, sicché il pieno impiego doveva essere la molla d’innesco del ciclo economico». (Nazism and the German economic miracle)

E ancora insiste: «Gli economisti nazi capivano che la creazione di credito sovrano (dal nulla) allo scopo di creare lavoro non pone alcun pericolo d’inflazione, ed è una politica molto più responsabile dell’attuale approccio, di aumentare le imposte e tagliare lo Stato sociale per risanare il deficit del bilancio pubblico. L’idiota politica di restrizione monetaria e riduzione della spesa sociale per ripianare il bilancio allo scopo di pagare i debiti esteri è ancor oggi imposta dal Fondo Monetario alle nazioni indebitate, tranne che agli Usa...».

Henry CK Liu si dilunga a descrivere come il Reich emettesse «titoli pubblici per la creazione di lavoro (Arbeitsbeschaffungswechseln - ABS), a scadenza trimestrale rinnovabili fino a cinque anni, come «pre-finanziamento» (Vorfinanzierung) delle vaste opere pubbliche; le agenzie capofila delle opere pagavano i fornitori e sub-appaltatori con questi ABS, i quali li portavano all’incasso presso banche per farsi dare contanti, e a quel punto essi diventavano «commercial papers» scontabili presso la banca centrale Reischsbank. La breve scadenza (trimestrale) ebbe lo scopo di ricostituire creare fiducia in questo tipo di credito, che fu infatti agevolmente rinnovato.

«Il Tesoro del Reich cominciò a redimere questi titoli, un quinto del totale all’anno, fra il 1834 e il 1938; come garanzia per tali titoli depositò presso gli istituti di credito un corrispondente ammontare di Steuergutscheine, in pratica di promesse di pagamento basate sui futuri introiti fiscali. Via via che il Tesoro redimeva gli ABS, tali tratte dovevano essergli restituite. Così, creando moneta speciale per l’impiego, Hitler aumentò il volume monetario nell’economia tedesca. (...) Il ritiro dei ABS pesò sul bilancio dello stato 1934-39, ma il declino delle spese pubbliche per i sussidi di disoccupazione e l’aumento del gettito fiscale dai salari per la ripresa economica, più che compensò il peso della redenzione. Il surplus fu usato per ridurre ulteriormente il debito e il carico fiscale».

Il Reich praticò il controllo dei salari unito però all’introduzione della indicizzazione in base ai prezzi (Leistungslohn) e al salario minimo garantito; inoltre «salvò i coltivatori tedeschi dai loro pesanti debiti attraverso programmi di alleviamento e sussidi ai prezzi agricoli». Ed esercitò un rigoroso controllo sui capitali e sulle importazioni. «Se la Germania di allora fosse stata membro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, WTO, queste opzioni gli sarebbero vietate», conclude Liu.

Il quale ricorda – fatto curioso e istruttivo – che «nel Panico Bancario del 1907, il banchiere JP Morgan (1837-1913) fece essenzialmente la stessa cosa che Hitler. Forzò le banche Usa a saldare i conti fra loro, invece che in contanti che non avevano, con “certificati di clearing” che egli emise, così aumentò illegalmente il volume monetario senza bussare allo Stato, e finì col possedere una fetta molto più grossa del settore finanziario, pagato con i suoi certificati, ironicamente riscotendo anche la gratitudine del governo. La differenza fu che il beneficio economico andò a Morgan personalmente anziché alla nazione come nella Germania nazista, e la moneta privata fu usata per salvare le banche anziché i disoccupati».

È quel che dice Ellen Brown: la chiave del successo economico hitleriano fu di «buttar fuori dall’affare il sistema bancario transnazionale». E la Brown cita un altro best-seller, Billions for the Bankers, Debts for the People (1984), dove l’autore Sheldon Emry commentava: «La Germania emise denaro libero da debito e da interesse dal 1935, e ciò spiega la sua stupefacente ascesa dalla depressione a potenza mondiale in 5 anni. La Germania finanziò tutta l’attività del governo e della guerra dal 1935 al 1945 senza oro e senza debito, e ci volle tutto il mondo capitalista e comunista per distruggere la potenza tedesca e riportare l’Europa sotto il tallone dei banchieri. E questa storia monetaria non appare nemmeno sui testi di economia d’oggi».

Mark Weber, dello Institute for Historical Review (qui la fonte è più parziale, trattandosi di «revisionista storico» ), fornisce qualche cifra per dare un’idea di come migliorò la qualità della vita.

«Tra il 1932, l’ultimo anno dell’era pre-hitleriana, e il 1938, l’ultimo anno pieno prima della guerra, il consumo alimentare crebbe di un sesto, quello di abiti e tessili di oltre un quarto, e il mobilio e beni per la casa del 50 %. Finché durò la pace, il consumo di vino aumentò del 50%. Tra il 1932 e il 1938, il volume del turismo più che raddoppiò, e la proprietà di automobili triplicò durante gli anni ’30. La produzione di autoveicoli, che comprendeva auto fabbricate da Ford e dalla General Motors (Opel) raddoppiò nei cinque anni dal 1932 al ’37, mentre l’export tedesco di veicoli aumentò di 8 volte. Il traffico aereo passeggeri in Germania triplicò dal ’33 al 37».

«Durante i primi quattro anni del regime, i profitti netti della grandi imprese quadruplicarono (...) Fino al 1938, scrive» lo storico Niall Ferguson, il «prodotto interno lordo tedesco crebbe, in media, di un notevole 11% l’anno», senza una significativa crescita dell’inflazione».

E il potenziale industriale mostrò tutta la sua eccezionale potenzialità durante la guerra. Lo storico ebreo Richard Grunenberger nel suo saggio «The Twelve-Year Reich» ricorda che «nei tre anni dal 1939 al 1942 l’industria tedesca si espanse quanto aveva fatto nei precedenti 50 anni». (Hitler vs. Bernanke)

I profitti industriali erano tuttavia controllati per legge dallo Stato. «Dal 1934, i dividendi per gli azionisti in Germania furono limitati al 6% annuo. I profitti non distribuiti erano investiti in buoni del Tesoro del Reich, che davano un interesse annuo del 6%, e dopo il 1935, del 4,5%. Questa politica ebbe l’effetto – voluto – di incoraggiare il reinvestimento e l’auto-finanziamento industriale, riducendo di conseguenza l’indebitamento presso le banche e, più in generale, diminuendo il potere del capitale finanziario commerciale. Le tasse sulle imprese furono aumentate dal 20 al 25% nel ’36, e al 40% all’inizio della guerra, nel 1939-40».

(Triste considerazione: oggi le imprese italiane, dalla democrazia pluripartitica, sono aggravate da tassazioni al 60%, e senza la scusa della guerra... Ndr)

«Tra il 1934 e 1938, il reddito tassabile lordo dei dirigenti privati tedeschi crebbe del 148%, nello stesso periodo il gettito fiscale complessivo crebbe del 232%. Il numero di contribuenti nel più alto scaglione fiscale (quelli che guadagnavano più di 100 mila marchi annui) crebbe in questo periodo del 445%. Per contro, il numero di contribuenti nel più basso scaglione (quelli che guadagnavano meno di 1500 marchi l’anno) crebbero solo del 5%. La tassazione nazional-socialista era fortemente progressiva... Tra il 1934 e il 1938, il prelievo medio per coloro che percepivano oltre i 100 mila marchi annui salì dal 37,4 al 38,2%».

(Unadurezza” fiscale nazista, che noi felici cittadini della partitocrazia possiamo solo invidiare. Ndr)

«Nel 1938 i tedeschi nello scaglione fiscale più basso erano il 49% della popolazione e avevano il 14% del reddito nazionale, ma pagavano solo il 4,7% di tasse. Quelli nella categoria reddituale più alta erano solo l’1% della popolazione, detenevano il 21 % del reddito nazionale, e sostenevano il 45% del peso fiscale complessivo».

(È il caso di fare confronti con le iniquità, anche tributarie, in corso nell’Italia «democratica» e nel capitalismo terminale? Penso di no. Ndr)

Anche «l’Austria provò un drammatico miglioramento dopo l’unificazione con Terzo Reich nel marzo 1938. Immediatamente dopo l’Anschluss, i dirigenti si diedero ad alleviare il disagio sociale e rivitalizzare la languente economia. Investimenti, produzione industriale, edilizia abitativa, spese di consumo, turismo e standard di vita crebbero velocemente. Solo tra giugno e dicembre 1938, il reddito settimanale dell’operaio austriaco crebbe del 9%. La disoccupazione scese dal 21,7 del 1937, al 3,2 % nel 1939. Il prodotto interno lordo austriaco aumentò del 12,8 % nel 1938, e di uno stupefacente 13,3 % nel 1939».

(Tassi di crescita più che cinesi, Ndr)

«Un anno dopo la salita di Hitler al potere, il tasso di natalità germanico crebbe del 22 % e rimase alto anche nel 1944, l’ultimo anno intero di guerra». Secondo lo storico John Lukacs, questo balzo nelle nascite era espressione “dell’ottimismo e della fiducia” dei tedeschi durante gli anni hitleriani. Per ogni due bambini nati in Germania nel 1932, quattro anni dopo ne nacquero 3. Nel 1938-39, le più alte percentuali di matrimoni furono registrate in Germania, superando anche i popoli più prolifici dell’Europa Orientale. Nota lo storico americano Gordon Craig: «La Germania nazionalsocialista, sola tra le nazioni bianche, è riuscita ad ottenere un incremento della fertilità».

E tutto questo, sottolineano i commentatori americani, «mentre il resto del mondo restava tuttora bloccato nella paralisi economica» nel gelo della Grande Depressione. «Hitler fece della Germania un’isola di prosperità», riconosce Sebastian Haffner, noto giornalista tedesco estremamente critico del Terzo Reich. Il confronto d’obbligo per americani è con il New Deal di F. D. Roosevelt, che prese il potere poche settimane dopo Hitler (nel marzo 1933, l’altro a gennaio).

Uno degli storici e biografi di Roosevelt, professor William Leuchtenburg, deve riconoscere che «Il New Deal ha lasciato molti problemi irrisolti e ne ha creato, fatto increscioso, di nuovi. Non è mai riuscito a dimostrare di poter produrre prosperità in tempo di pace. Ancora alla fine del 1941, i disoccupati erano 6 milioni, e questo esercito di senza lavoro non scomparve fino al 1943», quando fu arruolato nella grande produttrice di pieno impiego, la guerra.

Lo storico ebreo Joachim Fest deve riconoscere: «Se Hitler fosse stato vittima di un attentato alla fine del 1938 pochi esiterebbero ad acclamarlo come il più grande statista tedesco, il coronamento della storia germanica».

Molta attenzione riscuote Hjalmar Horace Greeley Schacht, anche perché suo padre visse per diversi anni negli Usa e diede a suo figlio il secondo nome in onore di Horace Greely, giornalista americano di estrema sinistra e militante anti-schiavista. Con quattro lauree (medicina, filologia, scienze politiche e infine economia, nel 1899) Schacht trovò lavoro alla Dresdmer Bank, e fu consulente del governo di occupazione tedesco del Belgio durante la prima guerra mondiale; nel 1923 fu tra coloro che riuscirono a mettere un freno all’iper-inflazione come Commissario Reich alle Valute, e premiato come presidente della Reichsbank. Fu anche il capo della delegazione tedesca che nel 1929 trattò la riduzione dei debiti di guerra (Piano Young).

Hjalmar Schacht
  Hjalmar Schacht
Schacht viene dipinto come un fascista a tutto tondo. Volle conoscere Hitler, di cui aveva letto con ammirazione Mein Kampf – fu introdotto da Goering nel 1931, e da allora si adoperò a raccogliere fondi per il Partito, convincendo gli industriali con cui aveva rapporti, dai Krupp ai Thyssen, dai Voegler re dell’acciaio ai Kirdorf, Bechstein e Bruckmann a sborsare i quattrini (nel ’33, per far vincere al NDSP le elezioni, raccolse ancora 3 milioni di marchi). Fu lui a convincere questi grandi industriali a firmare la lettera che, nel novembre 1932, invitava il presidente Hindenburg a dare ad Hitler il posto da Cancelliere. Sempre Schacht visitò gli Stati Uniti dove tenne 40 conferenze come propagandista del regime hitleriano, scrivendo vari articoli per giornali americani. Incontrò anche Franklin D. Roosevelt, che però lo ritenne «estremamente arrogante».

I commentatori americani d’oggi ritengono tuttavia che Schacht indusse Hitler a lanciare il grande programma di opere pubbliche perché «influenzato dalle idee di John Maynard Keynes e dal New Deal di Roosevelt».

Può darsi. Ma piuttosto fu Keynes che, nella prefazione tedesca alla sua «Teoria Generale dell’Impiego» pubblicata sotto Hitler, riconobbe che la sua ricetta «si applica meglio sotto le condizioni di un stato totalitario, che sotto le condizioni di libera concorrenza e laissez-faire».

Schacht, oltre a suggerire il programma di opere pubbliche (i commentatori Usa non sembrano conoscere la sua più brillante invenzione finanziaria, gli «Effetti MeFo») «introdusse un Nuovo Piano che controllava rigorosamente tutto ciò che veniva importato in Germania. Per questo negoziò una serie di accordi commerciali bilaterali fra cui con l’Unione Sovietica nel 1935.

«Come altri nazisti Schacht era ostilissimo agli ebrei tedeschi. In uno dei suoi discorsi annunciò: “Gli ebrei devono capire che la loro influenza in Germania è finita per sempre” (1). Fu lui a concludere nel 1934 l’accordo con la World Zionist Organization secondo cui gli ebrei tedeschi potevano emigrare in Palestina dietro pagamento di 15 mila marchi. Si calcola che nei 4 anni seguenti oltre 170 mila ebrei si stabilirono in Palestina sotto questo accordo».

Il regime lo nominò «Ariano d’Onore». Ma già nel ’35 Schacht si urtò con Julius Streicher per il suo razzismo e il suo foglio Der Sturmer, con questo argomento: gli ebrei avevano combattuto con valore nell’armata germanica durante la Grande Guerra e meritavano un trattamento leale. Divenne anche sempre più critico della pesante politica di riarmo, e disse ad Hitler che tale politica avrebbe ecceduto le capacità economiche del Paese. Nel novembre 1937 diede le dimissioni da ministro dell’Economia, anche se rimase presidente della Reichsbank; dove continuò a far conoscere le sue critiche al riarmo. Hitler lo rimosse nel gennaio 1939. Nel 1944, sospettato (senza fondamento) di aver preso parte alla Congiura di Luglio fu imprigionato per qualche mese a Dachau: un regalo, che lo salvò dalla condanna al processo di Norimberga. Assolto dagli Alleati, Schacht fu condannato dal nuovo governo federale tedesco ad otto anni: ma fu rimesso in libertà nel settembre 1948. Fondò una banca sua e fu consulente di vari governi esteri, fra cui quello di Nasser in Egitto. È morto a Monaco il 4 giugno 1970.

* * *

I Paesi asiatici di successo (da Taiwan alla Corea alla Cina) hanno adottato almeno in parte soluzioni schachtiane o hitleriane. Se n’è accorto anche un economista inglese Joe Studwell, che in un saggio «How Asia Works» (Come funziona l’Asia), dopo accurate indagini, conclude: questi Paesi hanno violato i tre dogmi del «Washington Conensus», ossia «stabilizzare, privatizzare, liberalizzare», per adottare un’altra triade, o piuttosto tre fasi successive: «riforma agraria; industria che esporta ed è sostenuta dallo Stato; repressione finanziaria». Il settimanale Economist ha esaltato lo studio di Studwell. Si spera che il mondo anglosassone elabori un nuovo «consensus», che alla fine sarà adottato, come ultima moda, dall’università Bocconi e da Alesina & Giavazzi.




1) Tuttavia, come ha notato il professor Gordon Craig, storico dell’università di Stanford, «le ditte ebraiche continuarono ad operare profittevolmente specie nei settori tessili, confezioni e dettaglio, fino al 1938. (...) Nel mondo della finanza non fu posta alcuna restrizione alle attività di ditte ebraiche nella Borsa di Berlino, e fino al 1937 le case bancarie dei Mendelssohn, Bleichroder, Arnhold, Sreyfuss, Straus, Warburg e Behrens erano ancora attive». La catena di grandi magazzini Bertie, ebraica, ricevette un aiuto governativo – approvato da Hitler – di 14,5 milioni di marchi nel giugno 1933: un «salvataggio» intrapreso per non mandare in rovina i fornitori della catena e soprattutto i suoi 14 mila dipendenti. A cinque anni dalla presa del potere di Hitler il ruolo degli affari ebraici era ancora rilevante nell’economia, specie a Berlino. Ciò cambiò dal 1938; alla fine del 1939 gli ebrei erano stati per lo più rimossi dalla vita economica tedesca.


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