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Montepaschi. Finirà come la Banca Romana
06 Febbraio 2013
Sarà istruttivo ripercorrere questo vecchio scandalo tipico dell’intreccio tra banche e politica, se non altro per constatare quanto poco le cose siano cambiate da allora. Nel 1892 la Banca Romana era uno dei sei istituti autorizzati ad emettere biglietti a corso legale (lo Stato aveva appaltato questo compito a banche private, non avendo ancora le strutture unitarie necessarie). La sua dirigenza – il governatore Bernardo Tanlongo e il cassiere Barone Lazzaroni – impegnò con gusto la banca a finanziare la prima, immane speculazione edilizia che sfigurò Roma divenuta capitale. Quando l’eccesso di crediti a personaggi che non pagavano divenne mostruoso, fu dal Tanlongo superato nel più allegro dei modi: stampando banconote (facendo stampare in Gran Bretagna) oltre il limite legale di emissione. La Banca Romana era autorizzata a stampare non più di 60 milioni di lire, identificate le banconote da precisi numeri di serie; dall’inchiesta successiva, risultò che ne aveva messi in circolazione 55 milioni in più (quasi il doppio), incluse emissioni semplicemente false per 40 milioni, emessi con banconote con serie doppia. Nell’allegra gestione della banca fu accertato fra l’altro, en passant, un ammanco di cassa pari a 9 milioni di lire di allora, circa 250 milioni di euro. Buona parte della circolazione eccedente era servita a foraggiare bei nomi della finanza e della nobiltà romana, faccendieri, personaggi discutibili, giornalisti, ma soprattutto politici, con «prestiti» mai rimborsati (né pretesi) per le loro campagne elettorali. Ciò si scoperse però più tardi, e a pezzi e bocconi. Ci furono continui sforzi di insabbiamento, in parte riusciti. Il governo (Giolitti) risolse tecnicamente il problema istituendo la Banca d’Italia come unico istituto di emissione, e mettendo in liquidazione la Banca Romana, poi – con la complicità degli altri parlamentari – cercò di stendere il silenzio sui nomi che avevano intascato i denari eccedenti per milioni. Bernardo Tanlongo era finito in galera, ma non ci teneva ad essere il solo capro espiatorio (Mussari, ti suggerisce qualcosa?): e indicò nella «politica” la causa della mala gestione e delle enormi mazzette da lui pagate. Finì per dichiarare che nel dissesto della sua banca erano implicati tutti i presidenti del Consiglio fin dal 1876, Depretis, Cairoli, Rudinì, Crispi, Giolitti: quest’ultimo finirà per ammettere di aver ricevuto 60 mila lire. La Gola Profonda Come poteva mancare la «gola profonda»? Nell’inverno del 1893 il deputato dell’estrema sinistra Napoleone Colajanni (1847-1921), siciliano ed ex garibaldino, «riceve un biglietto da parte di un ‘amico’ che chiede di incontrarlo per importanti rivelazioni. Dubbioso, il parlamentare si reca all’appuntamento e l’‘amico’, un noto giornalista economico, gli confida di essere in possesso di una relazione stilata dai deputati Alvise e Biagini a conclusione dell’inchiesta sulle banche italiane, tra cui la Banca Romana. L’inchiesta, che aveva accertato gravi irregolarità, stava per essere insabbiata, perché risultavano coinvolti importanti uomini politici». (Alberto Conterio). Colajanni si alza in Parlamento e denuncia, dossier alla mano, i politici implicati; ma non sa (o finge di non sapere) che l’amico che gliel’ha consegnato l’aveva già epurato di alcuni nomi eccellenti... Il Parlamento istituisce una Commissione d’inchiesta (te pareva...). Alla fine di un anno di «lavori» detta Commissione presenta due dossier: uno tecnico, e uno che reca i nomi delle «sofferenze», come pudicamente vien chiamato l’elenco dei grandi personaggi che avevano ricevuto i «prestiti» senza ripagarli. Sapendo che il dossier inguaia più Crispi che la sua parte, Giolitti propone di leggerli entrambi e di darli alle stampe; due deputati propongono invece che sia dato alle stampe solo il primo, la relazione tecnica, e di depositare invece «il plico delle sofferenze» presso l’archivio segreto di Stato. Giolitti vuol fare il moralizzatore, e mette ai voti la sua proposta; ma i deputati, come un suol uomo, scelgono l’altra: far finire il plico coi nomi nell’archivio segreto. Per dispetto, Giolitti si dimette. Crisi di governo. Il re dà incarico a Zanardelli, che non riesce a raccogliere attorno a sé una maggioranza; per cui la Casa richiamò Francesco Crispi: già due volte capace dell’impresa di formare governi da maggioranze fratturate, vecchio marpione siculo e sperimentato maneggione, e «garibaldino» (nel senso dell’arraffo post-borbonico a cui aveva partecipato come organizzatore dei Mille: accaparrando per sé, dal tesoro del Regno di Napoli, le prime 60 mila lire), membro della Loggia Propaganda Massonica di Roma, come poteva non riuscire? Come primo atto da presidente del Consiglio, Crispi decreta di seppellire nell’archivio segreto di Stato il «plico delle sofferenze». Però durante il processo a Tanlongo e compari s’era molto parlato di documenti scottanti spariti; si vociferava che li avesse sottratti Giolitti, e che riguardassero soprattutto Crispi e la sua cosca, pardon la sua parte politica. Detto fatto. «Giolitti lasciò che i giornali parlassero dei famosi documenti sottratti per tutta l’estate e, alla riapertura della Camera, presentò il plico con i famosi documenti sottratti. Venne fuori un caos mortale, e per evitare un voto di sfiducia sulla legge finanziaria in discussione, Crispi chiese al Re una sospensiva parlamentare in attesa che si calmassero le acque. Il Re, inizialmente portato ad assecondare la richiesta del Presidente del Consiglio, ben presto optò per decretare lo scioglimento dell’assemblea ed indire nuove elezioni generali. (Conterio). Alla fin fine, «risultarono aver attinto denaro, per sé e per altri, alle casse della banca, dal 1875 al 1892: cinque Presidente di Consiglio, precisamente Giolitti, Crispi, Rudinì, Cairoli e Depretis; 6 ministri, tra i quali Luzzatti e Nicotera; 53 deputati di tutti i settori della Camera; 35 funzionari delle alte gerarchie statali; 42 giornalisti della capitale e del resto della penisola; 71 dirigenti di banche grandi e piccole» (Fernando Ritter) (1). Si aggiunga, per completare la storia, che il banchiere-falsario Tanlongo e complici furono dalla magistratura dichiarati innocenti di truffa ai danni dello Stato e quindi assolti. Forza e coraggio Mussari, finirà bene anche per te... Lascia passà a’nuttata. Tasse sugli impoveriti Né si creda che la classe politica di allora sgavazzasse succhiando miliardi da un Paese ricco e in ripresa; s’era – allora come oggi – nel mezzo di una gravissima crisi economica, anzi un vero e proprio tragico arretramento delle condizioni di vita delle popolazioni, prodotto da quella stessa classe politica «risorgimentale» che aveva nell’annessione del Regno di Napoli trovato la salvezza dalla sua bancarotta inevitabile (2). Cavour aveva indebitato lo Stato savoiardo fino a livelli insostenibili, per lo più con la finanza inglese, proprio per compiere l’unificazione sotto il re savoiardo. Un debito pubblico torreggiante, che fu motivo non ultimo per cui Londra assisté il suo debitore nella conquista delle Due Sicilie: sia militarmente (i Mille sbarcarono sotto la protezione della flotta british), sia preparando l’aggressione con una campagna di stampa diffamatoria contro il governo borbonico, dipinto da Gladstone e Palmerston come uno Stato-mostro, stupido e feroce oppressore, regredito violatore dei diritti umani, da riportare nel seno della civiltà occidentale con la democrazia liberale piemontese (ricorda qualcosa? Magari l’Iraq di Saddam, o la Siria di Assad e la Libia di Gheddafi? Eh sì). La verità – come apprendo con stupore – era che «il Tesoro del Reame di Napoli era assai ricco perché le somme preventivate per i lavori pubblici venivano, prima di iniziare i lavori, accumulate e depositate in banca» (Ritter). Inaudito: come un pater familias di ieri, che per l’acquisto di una casa e di un terreno spendeva soldi previamente risparmiati, il regno di Napoli non s’indebitava coi banchieri internazionali! I rari titoli del debito pubblico napoletano erano ambitissimi dai «mercati», ben consci della solidità economica dello Stato; sicché il Regno pagava bassissimi interessi passivi. Un fatto intollerabile per la piazza di Londra, negoziatrice internazionale di debiti e prestiti. Mai il detto di Ezra Pound s’è meglio applicato: «Un popolo che non s’indebita fa rabbia agli usurai». Quel tesoro scomparve, dilapidato nei pochi mesi in cui Garibaldi fu «dittatore» del Sud, con il suo seguito di nani, ballerine, scialacquatori, adoranti giornaliste inglesi e affaristi come appunto Piero Bastogi (cassiere della Giovane Italia), il gran maestro Lemmi, Agostino Bertani che era cassiere dei Mille e si ritagliò per sé e gli amici un milione di allora (3,5 milioni di euro), Crispi 60mila, Bastogi incalcolabili cifre che lo resero grande capitalista... La malversazione fu così scandalosa, che fu opportuno o fortunato il naufragio del vapore che portava da Palermo a Genova la cassa della contabilità della spedizione dei Mille, e in cui morì Ippolito Nievo, che sapeva troppo: «La prima strage di Stato», secondo il bisnipote Stanislao Nievo. Nel Sud, il saccheggio dei piemontesi affamati e insaziabili di soldi disarticolò il tessuto sociale, compresse fino all’insopportabile il tenore di vita delle campagne (inceppate già dalle misure di Polizia repressiva della «lotta al brigantaggio»), introdusse tassazioni prima sconosciute che rincararono il pane, e persino sulle bestie da soma; il servizio militare obbligatorio, che il Sud non conosceva, fu una vera calamità sottraendo braccia valide all’agricoltura; le terre sequestrate alla Chiesa che davano regolare lavoro alle masse di braccianti, furono truffaldinamente ripartite in quote «troppo piccole per l’alimentazione delle famiglie, quindi assai presto canone al Comune e tassa fondiaria si rivelarono micidiali: le quote furono in breve tempo sequestrate per mancato pagamento, o vendute per pochi soldi a proprietari già ricchi» (Ritter) creando i latifondi. Imposizione fiscale in continuo aumento. Era tassato ogni giro che le macine da mulino facevano per produrre la farina. Crescita inarrestabile del debito pubblico: ciò era di vantaggio per capitalisti e banche che invece di investire in agricoltura ed industria preferivano farsi rentiers, impiegando i soldi nell’acquisto di Buoni del Tesoro, investimento sicuro senza rischi e facilmente negoziabile; fu questo che finì per drenare quel che restava dei capitali del Mezzogiorno e alla sua agricoltura. Lo scandalo della Banca Romana, con i suoi vorticosi accaparramenti e tangenti, intrecci banca-politica e arricchimenti clientelari per di milioni (miliardi oggi), avveniva dunque in un Paese ridotto in miseria. Sono gli anni in cui i soprusi elevati a sistema spingono all’insurrezione Palermo (1886), che fu sedata con la minaccia di bombardare dal mare la città dalla regia flotta. Gli anni della repressione feroce dei «fasci siciliani» di contadini e lavoratori depauperati (con massacri operati dai carabinieri). Ma al Nord non si stava meglio: sono gli anni in cui la disoccupazione e i bassi salari fanno scendere in piazza gli operai di Milano in quella che fu detta «protesta dello stomaco», e vengono sedati dal generale Bava Beccaris con i cannoni a mitraglia sulla folla (1898, almeno 450 morti). Nel 1893-94 fu tutto un seguirsi di moti popolari contro le tasse e i rincari e la miseria, da Palermo a Napoli, da Massa Carrara a Milano, tutti «pacificati» dai generali piemontesi con le fucilate e la mitraglia. Erano gli anni in cui «Napoli fu l’unica città d’Europa che vedeva aumentare la sua popolazione e diminuire i consumi». Da 448 mila abitanti del 1872, saliti a 540 mila nel 1898, si dividevano meno pane e pasta (passata da 755 mila quintali a 745), pesce secco da 60 a 11 mila, meno zucchero (da 36 a 29 mila quintali); aumentò solo il consumo di granone, da 18 a 50 mila quintali, portando con sé la pellagra. Il porto di Napoli, uno dei primi d’Europa, era stato ridotto per importanza a meno di quello di Savona. E non c’erano né previdenza sociale né sanità per i poveri; i governanti erano in tutt’altre faccende affaccendati. Su questa miseria permanentemente insorta e perennemente soffocata nel sangue, la cosiddetta politica s’arricchiva a forza di «spedienti, fazioni e camarille, largheggiando in compiacenze, appoggi, ingerenze nelle funzioni delle banche e in quelle della giustizia. Magistrati corrotti erano tollerati, all’occorrenza premiati». Ministri «intascavano per distrazione stipendi cumulativi, all’esercito eran forniti muli rognosi, deputati e burocrati eran presi con le mani nel sacco di ruberie d’ogni sorta». Prima della Banca Romana, c’era stato «il carnevale finanziario della pazzesca speculazione edilizia e dell’affarismo senza limiti, che doveva finire solo al terminar del secolo; carnevale di finanziamenti illeciti, corsi fittizi, falsi bilanci, vuoti di cassa portati avanti in crescendo per vent’anni, insolvibilità bancarie coperte col corso forzoso delle banconote – corso forzoso che introdotto nel 1866 durò ben 17 anni – e crolli finanziari a catena» (Ritter). Seguì «la gigantesca cuccagna delle ferrovie», con la stesura di 4 mila chilometri di binari pagati dallo Stato 400 mila lire a chilometro, mentre costavano 282.703 lire-chilometro: un profitto di mezzo miliardo di allora (3 miliardi di euro), finito nelle tasche di Bastogi e soci, i ‘patrioti’ i divinizzati ‘garibaldini’. Poi fu lo scandalo ‘del monopolio tabacchi, affidato ad ambienti finanziari privati: un’orgia di tangenti cui parteciparono personaggi di primo piano della politica e della banca’, ma non escluso il Re Vittorio Emanuele II: che s’intascò 6 milioni di lire d’allora (18 miliardi di lire del 1984). Il che non impedì a questo costoso gaudente e disonesto malversatore incoronato di lasciare, alla sua morte, debiti per 40 milioni, praticamente 120 miliardi di lire del 1984». Come scriveva Vilfredo Pareto dal suo volontario esilio in Svizzera, «l’Italia è governata da malfattori, razza di cani che spoglian banche, municipi (Napoli, ecc.) provincie. In Italia vanno avanti i complici dei furbi crispini e i parenti dei deputati della maggioranza». I «patrioti» al potere si arricchivano facendo fallire lo Stato. Ma ciò non avvenne. Perché? A salvare questo «Stato della malavita» dalla vera a propria bancarotta, dall’insolvenza internazionale sul colossale debito pubblico, furono le sue vittime: i 15 milioni di emigranti nei primi 50 anni dell’unità d’Italia, spinti all’esodo dalla drastica riduzione del lavoro in patria (perché mancavano investimenti, o se li intascavano lorsignori), mandando a casa i soldi guadagnati a forza di sudore, umiliazioni, privazioni e fatiche inumane. Le rimesse degli emigranti alle famiglie tennero a galla lo Stato corrotto e marcio fino all’autodistruzione, che li gettava allo sbaraglio, senza istruzione e financo senza igiene, abbandonandoli allo sfruttamento delle altre nazioni. «Dal 1900 al 1913 i vaglia internazionali pagati in Italia a saldo delle rimesse ammontarono a 2 miliardi e 763 milioni di lire-oro», e ciò senza contare le rimesse arrivate tramite banche e o in contanti, che sfuggono alla statistica. E si pensi che «in quegli anni la produzione mondiale di oro si aggirava sui 2 miliardi di lire (...). In certi periodi sui mercati mondiali la domanda di valuta italiana per far fronte alle richieste degli emigrati per le rimesse alle famiglie, era tanto cospicua che la lira faceva premio sull’oro». In qualche modo, siamo tornati a quell’epoca, agli stessi scandalosi intollerabili «costi della politica» e alla depredazione fiscale e morale dei cittadini. È come se questa fosse la «normalità» del vivere (in)civile italiano, e ci fossimo ricaduti. L’unica differenza sono le rimesse degli emigranti, che oggi mancano. Ma tutti gli altri ingredienti sono presenti: tassazione che cresce fino a schiacciare i produttori (3), senza far diminuire il debito pubblico (4), che invece cresce più dell’esazione; sprechi, tangenti, parentopoli e tangentopoli a ripetizione, corruzione sistemica degli apparati di potere. Ma soprattutto – oggi come allora – nemmeno un minimo tentativo sincero di riforma, nessuna parte politica intellettualmente o moralmente capace di proporre (non si dice di imporre) ai sudditi un progetto di fondamentali cambiamenti del sistema, che tutti vedevano così necessario, per sanare i suoi marciumi, che tutti constatavano ad occhio nudo. Allora come oggi, la classe politica si perpetuava nelle sue mangerie e ladrerie, senza volerne né forse poterne uscire. Non la fermò né la rovina della società né quella dell’economia reale. Fu capace, per continuare a mangiare, di far sparare sulla folla, di reggersi al potere continui moti e rivolte di affamati, disoccupati o malpagati in massa. Ciò pone la domanda che ci deve più interessare: come e quando quel potere fu rovesciato? Quanto poté sostenersi nella spoliazione e nell’arraffo quel sistema insostenibile di «capitalisti rentiers» tagliatori di cedole del debito pubblico, di «industriali» coi soldi pubblici, di parassiti, di intrecci banche-politica, massoni e banchieri ammanicati e «politici» costituiti in comitati d’affari? Erano una minoranza invisa ed odiata. Di cui le migliori menti sia di destra, sia di sinistra, divise da tutto, concordavano nel giudizio. Se Pareto chiamava il sistema «governo di ladri e farabutti, governo disonesto», Gramsci li bollò «banda di avventurieri senza coscienza e senza pudore, che dopo aver fatto l’Italia, l’hanno divorata». Eppure, durarono azionando la loro idrovora insaziabile sulle tasche nostre. Quanto? La risposta non è di buon augurio per noi contemporanei di Bersani, Monti e Montepaschi. Durò dal 1867 – la ruberia cominciò subito dopo l’impresa dei Mille – fino al 1922. Un buon mezzo secolo. Di mezzo ci dovette essere una guerra atroce, la Prima Mondiale, che nel sangue insegnò a gruppi determinati l’uso politico, ossia organizzato e coordinato, della violenza; bisognò che la protesta trovasse un organizzatore, che una idea alternativa di futuro si precisasse, fosse enunciata e trovasse un capo disposto a realizzarla. Piaccia o no, il sanatore del marcio fu il fascismo. Se interessa, ne riparlerò.
1) Fernando Ritter, «Fascismo Antifascismo», Milano, 1992, edizione fuori commercio. Fernando Ritter era un economista; svizzero di origine (era nato presso Neuchatel nel 1897) si fece italiano per adesione al Fascismo e divenne cittadino nostro nel 1935. Conobbe il duce e fu amico di Ezra Pound, di cui ispirò alcune idee economiche, e uno dei pochi che capì i motivi dell’economia fascista. Le sue operette sono state pubblicate in gran parte dal caro Vanni Scheiwiller, lo squisito editore, critico d’arte, libraio e delicato scopritore e valorizzatore di ogni intelligenza di destra, anche sulfurea. Fu attraverso Scheiwiller, che frequentava volentieri la redazione del rusconiano «Il Settimanale» di cui ero redattore culturale, che conobbi Ritter e lo intervistai più volte: primariamente dopo la pubblicazione del suo «Lo Pseudocapitale» (Edizioni Scheiwiller), profetica e precisissima denuncia della speculazione finanziaria molto prima che giganteggiasse, nel 1972. Molto ho appreso da lui, di economia ma non solo. È morto nel 1987 a Milano. Nell’exergo del libro citato, suo dono, scopro una dedica che m’era allora sfuggita: «A mio figlio e ai suoi camerati della RSI». Un lutto, un tributo di sangue alla fede? Non me ne parlò. 2) Cavour aveva tanto ingigantito i debiti del Piemonte come costo per conquistare l’Italia, che quando Napoleone III parve sottrarsi, nel 1859, all’alleanza coi Savoia che doveva portarlo in guerra con l’Austria, era terrorizzato: senza guerra, si apriva lo spettro della bancarotta sul debito pubblico. La verità la disse, durante il dibattito al parlamento piemontese in cui si discusse (l’ennesimo) prestito di guerra, il marchese di Beauregard, rappresentante della Savoia e dunque ostile alla guerra (e allo scambio per cui i Savoia abbandonavano la Savoia a Napoleone III): «Il conte di Cavour desidera la guerra, e farà del suo meglio per provocarla. Nella pericolosa situazione in cui la sua politica ci ha posto, la guerra si presenta come la sola possibilità di liberarci onorevolmente dall’allarmante debito che ci schiaccia... oppresso da pesanti tributi, il nostro popolo esecra la politica che egli impone al Paese». La conquista degli Stati italiani e il saccheggio dei loro tesori furono dapprima pura e semplice necessità, poi divennero un piacere remunerativo per i ««patrioti». 3) Non mancavano anche allora i Befera che estraevano una patrimoniale spoliatrice pari all’IMU. Un solo esempio: «L’imposta sugli immobili non veniva fissata sulla rendita effettiva, bensì sulla valutazione di un funzionario governativo. ‘Ecco ciò che mi rende questa casa’, esclamava il proprietario dell’immobile, ed esibiva il contratto di locazione. ‘Ah!’, rispondeva il funzionario, ‘è colpa vostra se non l’affittate a maggior prezzo. Se voi potete affittarla per tanto, potete pagare la tassa su questa somma: rivaletevi suo vostri affittuari» (dalla lettera del cardinale Dupanloup, in difesa dei tartassati ex-sudditi romani della Santa sede, a Minghetti nel 1874). 4) Sembra oggi: «...Il denaro necessario (al Regno d’Italia) fu ottenuto con l’aumento delle imposte e coi prestiti stranieri, che, per gli interessi da pagare, causavano nuove uscite e quindi nuovo aumento delle tasse, e ricorrenti nuovi deficit, senza fare il minimo taglio di spesa (...). I disavanzi annui (deficit, ndr) erano enormi (...) e va osservato che essi si producevano mentre le entrate erano in continuo aumento per le nuove tasse. Prestiti, ipoteche sui beni nazionali, vendita di beni demaniali e istituzione di monopoli privati fornirono le risorse per coprire questi deficit, ma l’ultima grande risorsa fu la rapina ai danni della Chiesa, che in un solo anno, 1867, fruttò 600 milioni di lire. Ogni forma di tassazione esistente sotto i passati governi fu conservata; nuove tasse furono aggiunte, fino al punto che il ‘libero’ cittadino dell’Italia unita ebbe la soddisfazione di sapere che lo Stato percepiva un qualche introito dal suo cibo, dai suoi vestiti, dalle sue finestre, dal suo stipendio e pensione, da tutto insomma a parte dall’aria che respirava» (Patrick K. O’Clery, «La Rivoluzione Italiana – Come fu fatta l’unità della nazione», Ares, 2000, pagina, 571. O’Clery, cattolico, deputato inglese ed ex volontario pontificio, calcola esattamente il totale del debito pubblico italiano consolidato nel 1870: la cifra allora inimmaginabile di 3 miliardi e 772 milioni di lire, ma ciò senza contare «le altre passività e garanzie non incluse nel debito consolidato, che facevano salire il debito pubblico a 6 miliardi e 275 milioni. e portavano alle entrate annuali un ulteriore aggravio di 500 milioni annui». Per calcolare i valori attuali in lire 2002, prima dell’euro, bisogna moltiplicare queste cifre per circa 7.000.
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