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Un contributo all’esegesi transpolitica della storia contemporanea (6)
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Parte sesta
Produttivismo e liberismo dai primi anni del regime fascista alla svolta degli anni trenta


Il primo fascismo al potere fu incline ad una politica tradizionalmente liberista in economia. Questo fu dovuto da un lato dai compromessi di Mussolini con i fiancheggiatori conservatori e dall’altro lato dal retaggio “liberista” insito nel primo sindacalismo rivoluzionario, antecedente alla sua trasformazione in sindacalismo nazionale. Nel discorso di Udine del 20 settembre 1922, ossia alla vigilia della Marcia su Roma, Mussolini, certamente anche per rassicurare i fiancheggiatori di destra ed i liberali e tuttavia anche per coerente conseguenza del “liberismo sindacale” della sinistra interventista, che era contro tutti i monopoli compresi quelli di Stato, enunciò un programma liberista, teso soprattutto al raggiungimento della stabilità monetaria, che non doveva troppo dispiacere agli industriali.

«Noi – disse in quell’occasione – siamo per la collaborazione di classe, specie in un periodo come lattuale di crisi economica acutissima. Vogliamo spogliare lo Stato da tutti i suoi attributi economici. Basta con lo Stato ferroviere, con lo Stato postino, con lo Stato assicuratore, Basta con lo Stato esercente a spese di tutti i contribuenti italiani ed aggravante le esauste finanze dello Stato».

Alberto De Stefani, un fiancheggiatore liberale del fascismo, ministro delle finanze, tradusse gli enunciati in atti di governo. Fu abolito il blocco dei fitti per favorire gli investimenti immobiliari, fu incentivata l’edilizia abitativa, privatizzata la gestione delle polizze assicurative sulla vita ed il servizio telefonico, ridotte le imposte sui profitti imprenditoriali. Venne poi perseguito il pareggio di bilancio – obiettivo tradizionale delle politiche di stampo liberale – e si cercò di ridurre il deficit della bilancia dei pagamenti.

Tuttavia accanto a questi provvedimenti liberisti se ne adottarono anche altri improntati al “produttivismo”. Si cercò di aumentare e migliorare l’’efficienza amministrativa dello Stato e di valorizzare le risorse della nazione mediante sostegni agli investimenti nei servizi e nelle opere pubbliche ed il salvataggio di importanti complessi industriali e finanziari, di rilevanza nazionale, come l’Ansaldo ed il Banco di Roma.

I risultati di queste politiche furono ambigue. Da un lato i salari subirono una riduzione mentre dall’altro la disoccupazione scese di qualche punto e la produzione manifatturiera ebbe un incremento fino al 50%. Si tratta, come si vede, di politiche molto simili a quelle oggi praticate dai governi filo-eurocratici.

Tuttavia esse non bastarono a superare la diffidenza degli industriali verso Mussolini. Il rifiuto di De Stefani ad applicare tariffe protezioniste ed il timore del prevalere degli orientamenti più socialmente radicali del sindacalismo fascista, fecero sì che la Confindustria non firmasse al nuovo Capo del Governo una cambiale in bianco.

Il cosiddetto “Patto di Palazzo Chigi”, con il quale nel 1923 si stabilì il reciproco riconoscimento preferenziale tra la Confindustria ed i sindacati fascisti, allentò un poco la diffidenza industriale senza però eliminarla del tutto e con essa l’atteggiamento di costante sabotaggio che per tutto il ventennio fascista i capitalisti mantennero verso ogni propensione sociale troppo accentuata dell’esperimento corporativista.

La diffidenza industriale e conservatrice trovò conferma nelle aperture che nel 1924 il Mussolini, elettoralmente vittorioso, fece verso le sinistre politiche e sindacali nel tentativo – poi fatto fallire dai fiancheggiatori di destra e dal fascismo più forcaiolo in fregola per i contraccolpi dell’assassinio politico di Giacomo Matteotti (secondo Renzo De Felice questo omicidio fu organizzato anche per mettere con le spalle al muro un Mussolini in fase di riavvicinamento al PSI) – di spostare l’asse governativo verso posizioni più sociali mediante, se non la cooptazione, quanto meno un implicito e silenzioso sostegno esterno delle forze socialiste al suo ministero.

Non erano una novità questi abboccamenti di Mussolini verso i suoi antichi compagni socialisti. Già nello stesso ottobre 1922, subito dopo la marcia su Roma, egli aveva tentato, senza riuscirvi, di far entrare i socialisti nel suo primo governo di coalizione, nel quale insieme ai fascisti sedevano i demosociali, i liberali, i nazionalisti ed i popolari (con Alcide De Gasperi).

Nel suo discorso parlamentare del 21 giugno 1921, non ancora asceso al potere, Mussolini si era rivolto così alla sinistra:

«Innanzitutto, distinguiamo ciò che è movimento operaio da ciò che è partito politico. Riconosciamo che la Confederazione Generale del Lavoro non ha adottato nei riguardi della guerra lo stesso atteggiamento ostile adottato dalla maggior parte del Partito Socialista Ufficiale. Riconosciamo anche che per mezzo della Confederazione Generale del Lavoro si sono espressi valori tecnici di primordine, riconosciamo poi che i suoi organizzatori, essendo in contatto giornaliero e diretto con la realtà economica assai complessa, sono sufficientemente ragionevoli. Non ci siamo mai contrapposti a propri alla C.G.L.. Sono presenti qui testimoni che possono confermarlo. Aggiungo che il nostro comportamento nei confronti della C.G.L. potrebbe essere in seguito diverso se essa – e i suoi dirigenti riflettano su questo – si distaccasse dal Partito politico socialista … Ascoltate bene ciò che sto per dirvi. Quando presenterete il progetto di legge sulle otto ore lavorative, noi voteremo a favore …»

Dunque c’era di che far preoccupare e diffidare conservatori ed industriali. Questa reciproca ambiguità di fondo tra fascismo e conservatori fu una caratteristica dell’intero ventennio che solo la propaganda poteva coprire senza eliminare, come ben sapevano i sindacalisti fascisti.

D’altro canto, però, l’atteggiamento dello stesso Mussolini fu ondivago e rassicurante per i fiancheggiatori di destra dal momento che per il varo del corpo legislativo del regime si affidò ad un nazionalista, monarchico e conservatore, come Alfredo Rocco, grande giurista.

La stessa Carta del Lavoro, promulgata nel 1927, che la propaganda presentò come la “Magna Charta Costituzionale” del regime, fu, per rassicurare gli industriali, edulcorata da Rocco che presentò a Mussolini, il quale l’approvò, un testo meno socialmente avanzato di quello invece in un primo momento preparato da Giuseppe Bottai, il più acculturato ed intelligente dei ministri fascisti, di provenienza mazziniano-socialista, poi convertitosi al Cattolicesimo (Bottai, però, riuscì, in parte, nell’altra impresa di modificare la riforma Gentile della scuola rendendola meno classista ossia aprendo gli studi superiori anche agli studenti delle classi popolari).

Un’altra virata verso destra fu da Mussolini effettuata, più tardi, con la questione del cosiddetto “sbloccamento sindacale”, in questo appoggiato dal Bottai il quale inseguiva il suo sogno del corporativismo integrale. Lo sbloccamento consistette nella suddivisione della Confederazione Sindacale Fascista, unitaria, di Edmondo Rossoni, già segretario della UIL ed inviso per il suo radicalismo sindacale agli industriali, in sette diverse confederazioni. Ne conseguirono un maggior irrigidimento corporativo, ossia statuale, del sindacalismo del regime ed una evidente riduzione della sua forza contrattuale, mentre la Confindustria, pur fascistizzata, rimaneva unitaria. Con lo sboccamento sindacale forse Mussolini volle dare un contentino agli industriali che non avevano digerito la fascistizzazione, e quindi un più stretto controllo del regime, della loro organizzazione.

La politica economica del primo fascismo, sotto la direzione di Alberto De Stefani, come si è detto, seguiva i classici orientamenti liberisti, benché il produttivismo già si andava sviluppando in concreto facendo prevedere esiti che sarebbero andati oltre il liberismo iniziale.

Nel 1925 fu raggiunto il risanamento del disavanzo dello Stato registrando addirittura, tra il 1924 ed il 1925, un attivo di 417 miliardi di lire. Questo risultato da un punto di vista ragionieristico e contabile può sembrare notevole, ed infatti così viene interpretato in un’ottica liberale, ma da un punto di vista politico e soprattutto sociale ha il suo rovescio nel fatto che uno Stato il quale non spende, anzi fa “profitto” (l’attivo di bilancio), non rende servizi, deprime gli investimenti, si disinteressa della potenziale o effettiva disoccupazione da deflazione ed, infine, impoverisce l’economia nazionale. Lo Stato, infatti, non è un’azienda e non deve fare profitti ne tanto meno è tenuto al pareggio di bilancio. Ma nei primi anni del regime fascista, causa la presenza dei fiancheggiatori di destra (nazionalisti, conservatori, liberali), l’ortodossia liberista, con il suo dogma del pareggio di bilancio e del contenimento della spesa pubblica, la faceva da padrone.

La pressione fiscale calò (alcune imposte, come quella di successione, furono abolite) e cessarono le sovvenzioni all’industria privata. Questo ultimo fatto, insieme alla caduta di valore della lira conseguente al peggioramento dell’economia internazionale (l’intera politica liberista seguita fino a quel momento si era retta su una fase di relativa crescita congiunturale fondata soprattutto sulle esportazioni), contribuì al defenestramento del De Stefani che fu sostituito da Giuseppe Volpi di Misurata, un noto finanziere che aveva la fiducia del padronato.

Tale fiducia, però, sarebbe venuta presto meno perché Volpi dovette sottostare a quello che era in quel momento, per motivi di prestigio politico, il pallino di Mussolini, e che, però, corrispondeva anche ad una effettiva necessità benché non nella misura imposta dal duce. L’aumento della produzione negli anni precedenti aveva fatto salire i prezzi e calare la lira nelle quotazioni sui mercati internazionali. La lira nel luglio del 1925 era quotata nei confronti della sterlina (la moneta di riferimento dell’epoca) 153,68 (servivano quasi 154 lire per acquistare una sterlina). Nel 1924 la quotazione era invece di 98,96. Questa svalutazione favoriva le esportazioni ma era foriera di inflazione. Mussolini nel discorso di Pesaro, del 18 luglio 1926, annunciò l’obiettivo della cosiddetta “quota 90” da raggiungere mediante una politica deflazionista, quindi in sintonia con i dettami dell’ortodossia liberista, che sarebbe stata attuata con severe limitazioni ai salari ed ai prezzi e con la restrizione del credito.

In realtà, più che ad obbiettivi di carattere economico, Mussolini puntava ad obiettivi politici. Il regime era ancora in fase di consolidamento ed i molti antifascisti speravano che il crollo della moneta provocasse la fine del fascismo. In una lettera, del 1926, a Volpi di Misurata, Mussolini fu esplicito: «La sorte del regime è legata alla sorte della lira». Questo, però, ci fa comprendere che in effetti Mussolini, il quale non poneva l’economia prima della politica, non era un devoto seguace dell’ortodossia liberista ma che nella politica deflazionista vedeva, in quel momento, una necessità politica per salvare il regime e che, pertanto, come in effetti accadde, era sempre pronto a cambiare politica economica non appena le contingenze lo avessero permesso.

L’obiettivo della quota 90 fu raggiunto in un anno. Tuttavia a quel punto, ancora preso dal consolidamento in atto del regime e sicuramente inebriato dal successo conseguito sui mercati internazionali, Mussolini rifiutò le pressioni che gli provenivano dagli ambienti industriali, penalizzati nelle esportazioni da una lira forte, i quali chiedevano, a quel punto, di assestare la nostra moneta, dell’epoca, su una quotazione più realistica e confacente alle necessità dell’economia nazionale.

Mentre nel Paese cresceva la disoccupazione ed al calo delle retribuzioni, nonostante la forte vigilanza delle organizzazioni locali fasciste, non corrispondeva una sempre proporzionale diminuzione dei prezzi, le tensioni tra Confindustria e fascismo tornarono a farsi sentire. Secondo Renzo De Felice, tuttavia, se non fosse sopraggiunta la grande depressione, la politica deflazionista di Mussolini avrebbe potuto, bene o male, far uscire l’Italia da una situazione instabile di crisi latente perniciosa per lo sviluppo economico. Ma proprio il sopraggiungere della grande depressione, come vedremo, fece in modo che il socialismo produttivista di Mussolini prendesse il sopravvento rispetto alle classiche ricette liberiste. Benché in modo, per certi versi, almeno in parte meno dirompente e almeno in parte diverso dal più avanzato keynesismo praticato, negli stessi anni, da Roosevelt (il quale, d’altronde, ammirava Mussolini e lo imitò in molti provvedimenti di politica economica).

La politica di rivalutazione della lira favoriva il ceto medio risparmiatore e scontentava sia gli industriali sia la classe operaia minacciata dalla disoccupazione. La Confindustria, come detto, era stata costretta a fascistizzarsi, almeno in apparenza e nella forma esteriore. Nel 1925 aveva firmato con la Confederazione delle Corporazioni Sindacali di Edmondo Rossoni il cosiddetto “Patto di Palazzo Vidoni” con cui riconosceva, in modo questa volta esclusivo, come controparti nelle vertenze di lavoro soltanto i sindacati fascisti. Tuttavia gli industriali non avevano mai rinunciato, né mai rinunceranno per tutta la durata del regime, a mantenere ampi margini di autonomia e soprattutto non smetteranno mai di guardare con diffidenza all’ala di sinistra del fascismo.

La preoccupazione degli industriali stava nella paura che, una volta consolidatosi, il regime avrebbe, dopo quelle politiche, limitato anche le libertà economiche, annullando o riducendo la libertà di iniziativa. Proprio Edmondo Rossoni, che agiva con grande libertà anche nei confronti di Mussolini, alimentava le paure degli industriali in una possibile svolta socialista del fascismo.

Tuttavia, il corporativismo, che di per sé può essere interpretato in modi molti diversi, più socialmente avanzati o più conservatori, restò sempre più un auspicio che una realtà. Sembrò diventare qualcosa di più di una semplice collaborazione di classe, in luogo della lotta di classe, proprio negli anni trenta quando ad esso si affiancò l’intervento dello Stato in economia ed all’interno delle fabbriche stesse.

Insomma proprio quel che gli industriali temevano negli anni venti iniziò a verificarsi nel decennio successivo ma, a causa dei contraccolpi della grande depressione, essi dovettero far buon viso a cattivo gioco. La strategia confindustriale, anzi, era quella di sfruttare a proprio vantaggio i salvataggi industriali messi in opera dal regime, al fine di superare il momento critico e  poi riprendersi il controllo e la proprietà totale delle industrie rilevate dallo Stato e risanate. In effetti questa era l’intenzione originaria delle componenti di destra del regime ma, poi, le cose non andarono così e le industrie nazionalizzate non tornarono affatto ai privati.

Con la legge sindacale del 3 aprile 1926 iniziò la costruzione dello Stato corporativo. Fu sancita l’obbligatorietà e l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati fascisti con la controparte industriale e furono vietati sia lo sciopero che la serrata devolvendo le controversie collettive ed individuali di lavoro ad una speciale “magistratura del lavoro”. Le corporazioni previste da tale legge non trovarono effettiva concretizzazione se non, alla vigilia della guerra, con il successivo provvedimento del 1939, che istituì al posto della Camera dei Deputati la “Camera dei Fasci e delle Corporazioni”. Inizialmente le corporazioni erano solo organi della pubblica amministrazione di coordinamento e di disciplina in materia di lavoro e di produzione economica, sottoposti ad un apposito Ministero delle Corporazioni, presieduto da Giuseppe Bottai.

La “Carta del Lavoro”, nel testo conservatore di Alfredo Rocco, nacque da un compromesso tra il sindacalismo fascista più radicale e i fiancheggiatori di destra. Tuttavia, benché ritoccata in senso meno avanzato, quella carta, anche senza costituire chissà quale rottura rivoluzionaria, rappresentò una novità nell’ordinamento giuridico nazionale. Essa se da un lato riconosceva il principio della libera iniziativa privata, “come lo strumento più efficace per l’economia nazionale”, e quello della proprietà privata, dall’altro lato introduceva una concezione secondo la quale tali principi dovevano trovare realizzazione, e quindi essere ad esso soggetti, in un quadro di prevalente interesse nazionale e sociale. Quando la successiva Costituzione repubblicana del 1948 sancì principi giuridici come la “funzione sociale della proprietà e dell’iniziativa privata” e quindi la sua soggezione alla programmazione economica nazionale non fece altro, benché per altre vie politico-culturali, che riprendere concetti già espressi nella Carta del Lavoro del regime fascista, magari dando ad essi un senso più avanzato: lo stesso senso socialmente più incisivo che era del testo originariamente preparato da Bottai e poi in parte accantonato da Mussolini per accontentare gli industriali ed i nazionalisti di destra.

La Carta del Lavoro definiva il lavoro come “dovere sociale” ed in quanto tale avente diritto di tutela da parte dello Stato. Anche questi concetti saranno ripresi dalla Costituzione del 1948. Sulla base dei principi affermati dalla Carta del Lavoro furono istituiti, ed affidati ai sindacati fascisti, gli uffici pubblici di collocamento, per assicurare che il mercato del lavoro non fosse lasciato all’arbitrio della contrattazione individuale tra lavoratore ed imprenditore. Furono poi introdotte le ferie retribuite e potenziato, per migliorare la condizione operaia, il sistema di assistenza mutualistica.

Certamente la propaganda del regime esaltò oltre quella che era la sua effettiva portata la Carta del Lavoro ma è indubbio che essa conquistò la simpatia e l’approvazione di molti vecchi esponenti del sindacalismo antifascista, persino della CGL, e di una relativamente cospicua parte del ceto operaio. Si può ben capire, quindi, perché mai un socialista riformista come Bruno Buozzi, dopo il 25 luglio 1943, fu prodigo di riconoscimenti verso l’opera compiuta dal sindacalismo fascista che egli avrebbe voluto semplicemente democratizzare ma non abolire, semmai sviluppare.

Anche, come vedremo, il mondo cattolico fu entusiasta verso il corporativismo fascista nel quale scorgeva, sebbene con critiche, l’adempimento degli indirizzi della dottrina sociale cattolica e del movimento sociale cattolico post-unitario.

In sede internazionale l’esperimento fascista suscitò apprezzamenti soprattutto a sinistra e conquisto molti intellettuali che in esso vedevano una auspicata “terza via” tra capitalismo e comunismo. Lo stesso Bottai, nel dopoguerra riesaminando criticamente speranze ed illusioni di una generazione, lo testimoniò scrivendo:

«Nel corporativismo molti fermenti dopposizione, che erano già vivi allinterno del Fascismo, e molte aperte opposizioni esterne serano placate nella speranza di più liberi sviluppi. Uomini del socialismo, e italiano e europeo, ne salutarono gli inizi e ne accompagnarono i primi svolgimenti con una critica positiva e costruttiva. Nelle assise internazionali eravamo considerati portatori duna parola nuova. Fu a nostra intenzione, che sadoperò per la prima volta lespressione “terza via” (…). Una vera e propria letteratura mondiale nacque intorno allordine corporativo italiano. Era diffusa convinzione di giungere con esso ad una decisiva svolta nel senso duna nuova democrazia. Si pronunciò nel Fascismo, che aveva cessato di essere un “movimento” per fissarsi nella rigidità duna pesante e inerte disciplina di partito, un “movimento corporativo”, che penetrò a fondo nella coscienza pubblica in ispecie tra i giovani, i quali non tardarono a riconoscervi il “loro” fascismo. Brevissima primavera. Perché proprio questo fiorire di polemiche, di studi, di scuole universitarie, di ricerche scientifiche, provocò un insanabile atmosfera di sospetto. Ci furono i “corporativi” e i “fascisti”. Alla vigilia di competizioni che dovevano cimentare la nostra dottrina in campo internazionale, una profonda scissione era nei nostri spiriti. Tra destra e sinistra, come semplicemente sè detto e dice? Più si medita sul corso della storia che abbiamo vissuta, e sul probabile corso di quella in atto, e più si avverte la fallacia di certi schemi mentali, che non hanno se non un valore approssimativo, dindagine» (1).

Nonostante le sue enunciazioni sulla collaborazione di classe, per via del constante e strisciante sabotaggio da parte padronale, la Carta del Lavoro non riuscì, come si resero conto i sindacalisti fascisti alcuni dei quali ricorsero, nonostante il divieto, persino allo sciopero, ad assicurare, all’interno delle fabbriche, la pace tra capitale e lavoro nella giustizia sociale. I contraccolpi della crisi del 1929 riaprirono una conflittualità sindacale che solo la propaganda teneva nascosta mentre il governo di Mussolini, che negli anni ’30 inseguiva il sogno dello Stato “totalitario” (2), cercava di mediare il conflitto, ora in favore degli industriali ora, più spesso dopo il 1930, in favore degli operai.

Anni trenta: la nascita dello Stato imprenditore e delleconomia mista

Nel corso del 1929 il reddito pro capite in Italia aveva conosciuto una certa relativa crescita e la produzione, sia agricola che industriale, era aumentata con corrispettiva diminuzione della disoccupazione. I contraccolpi del crack di Wall Street, del 29 ottobre 1929, il “giovedì nero” della borsa di New York, non tardarono a mettere in crisi anche l’economia italiana. I titoli azionari, fra il ’29 ed il ’32, subirono una impressionante flessione di un terzo. La domanda di beni, in particolare quelli agricoli molto importanti per un Paese come l’Italia ancora in gran parte agricolo, calò del 25%. Di conseguenza la disoccupazione dilagò. Dai 300.786 del 1929 i disoccupati raggiunsero nel 1933 la cifra di 1.189.723. Il numero delle ore lavorative diminuì con correlativa diminuzione dei salari che, a sua volta, andava ad alimentare il ristagno della domanda e quindi ad aggravare la recessione.

Tuttavia questi effetti, pur dirompenti, furono più contenuti rispetto a quanto accadeva negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Francia e in Germania. Il reddito nazionale italiano, tra il 1929 ed il 1934, subì una flessione inferiore rispetto a quello dei citati Paesi. Questo, probabilmente, perché quelli erano più industrializzati mentre l’Italia poteva contare ancora sulla riserva agricola, nonostante che anche in tale settore la crisi si facesse sentire. Secondo De Felice «… è difficile sostenere che (in Italia) le condizioni di vita dei lavoratori dellindustria (…) occupati siano notevolmente peggiorate negli anni della grande crisi».

Nel periodo tra il 1926 ed il 1934 la media dei consumi diminuisce del 3% per attestarsi, nel 1936, su livelli simili a quelli precedenti la crisi. Lo stesso dicasi dei salari che diminuiscono, anche per via dell’iniziale risposta deflazionista che si pensò di dare alla crisi, per poi tornare nel 1939 ai livelli del 1929. La propaganda del regime attribuì il merito di questa meno pesante incidenza della crisi al sistema corporativo, che tuttavia era ancora molto lontano dal trovare un suo senso compiuto, mai, del resto, a causa della guerra, poi effettivamente trovato.

Dal canto suo Mussolini presenta, non senza alcune ragioni di fondo, il New Deal come una copia del corporativismo.

«Ecco un uomo che parla chiaro – scriveva Mussolini nell’agosto 1934 recensendo l’opera di Henry Wallace, un collaboratore di Franklin Delano Roosevelt, “Che cosa vuole l’America?” –. Leconomia programmata è nel programma del New Deal, del nuovo sistema, cioè inaugurato da Roosevelt. Ma perché questo programma riesca, non bisogna limitarsi ad organizzare le “cose”, bisogna far entrare in azione le forze spirituali. La nuova economia americana sembra tenerne massimo conto. Anche in America ci vuole una “tensione ideale” per superare “il tragico assurdo della miseria e del bisogno in mezzo a gigantesche rimanenze mondiali invendute di beni essenziali alla esistenza” (3). Luomo … non è solamente un animale economico, è qualche cosa daltro: è una creatura molto più complessa. Wallace vuol far agire le forze morali in un campo dal quale pareva dovessero rimanere perennemente escluse, come elementi estranei o dannosi. Un economista, un uomo di governo, un americano degli Stati Uniti, che parlando di economia fa intervenire il “cuore umano” non ha a prima vista un aspetto paradossale? I vecchi profeti dellautomatismo economico che realizzerebbe fatalmente il migliore degli equilibri devono rabbrividire di orrore come davanti a una profanazione. Ma il Wallace sembra non curarsene, perché aggiunge, a confusione degli scettici, chegli crede nella possibilità di modificare il cuore degli uomini. Vè nella prosa del Wallace un senso di ottimismo virile (…). Ottimismo che si rivela in questa ultima citazione: “La nuova epoca devessere contrassegnata religiosamente, economicamente, scientificamente dalla profonda persuasione che la umanità possiede oggi tanta potenza … spirituale e tanto dominio sulla natura da togliere per sempre ogni valore alla teoria della lotta per la vita e sostituirla con la legge più alata della cooperazione” (4). Il Wallace dice cooperazione. Ma egli intende corporazione. Il suo libro è “corporativo”. Le sue soluzioni sono corporative. Questo libro è un atto di fede, ma è anche una requisitoria tremenda contro leconomia liberale che ha fatto il suo tempo e concluso il suo ciclo. Alla domanda: che cosa vuole lAmerica?, si può rispondere: tutto, fuorché un ritorno alleconomia liberale, cioè anarchica. Se poi qualcuno domandasse: dove va lAmerica? Ebbene, dopo la lettura del libro di Henry Wallace, si può tranquillamente affermare che lAmerica va verso leconomia corporativa, cioè verso leconomia di questo secolo. Merito e gloria imperitura della rivoluzione fascista quella di aver aperto la grande strada sulla quale – a poco a poco – marceranno tutti i popoli» (5).

In effetti, Roosevelt, nel 1934, inviò in Italia Rexford Tugwell e Raymond Moley, due fra i più preparati uomini della sua squadra di intelligenze, il Brain Trust. Scopo del viaggio era quello di studiare la politica fascista di intervento pubblico nell’economia. Uno storico, che non ha certo simpatie per il fascismo, come Lucio Villari ammette che Tugwell e Moley furono incaricati di cercare, in Italia, un metodo di intervento pubblico e di diretto impegno dello Stato che, senza distruggere il carattere privato del capitalismo, ne colpisse la degenerazione e trasformasse il mercato capitalistico anarchico, asociale e incontrollato, in un sistema sottoposto alle leggi e ai principi di giustizia sociale e insieme di efficienza produttiva.

Lucio Villari ci ricorda quale era il giudizio di Tugwell su Mussolini, riportato nel suo diario alla data del 22 ottobre 1934 giorno nel quale il tecnico americano avrebbe incontrato il duce: «Mi dicono che dovrò incontrarmi con il Duce questo pomeriggio … La sua forza e intelligenza sono evidenti come anche lefficienza dellamministrazione italiana, è il più pulito, il più lineare, il più efficiente campione di macchina sociale che abbia mai visto. E ne sono invidioso» (6).

Questo giudizio non è irrilevante dal momento che Rexford Tugwell era l’uomo più a sinistra dell’amministrazione di Roosevelt.

Non si trattava comunque solo di propaganda di regime né soltanto dei sinceri entusiasmi mussoliniani verso il New Deal. In effetti il maggior controllo che la dittatura consentiva anche sull’economia nazionale permise un diretto intervento dello Stato in campo economico che in molti casi si dimostrò efficace nel salvare l’Italia dagli effetti della grande depressione. L’Italia dell’epoca per affrontare la crisi non aveva bisogno di elezioni e poteva tranquillamente praticare, con decisionismo, le sue politiche dirigiste abbandonando i classici principi, fallimentari, del “laissez faire” ottocentesco. Sin dalle prime avvisaglie di recessione il regime varò una serie di provvedimenti volti ad un maggior controllo ed intervento diretto dello Stato sull’economia.

Del resto, non bisogna dimenticare che lo stesso Roosevelt – il cui discorso di insediamento nel 1933, rompendo con il tradizionale sermone di tipo notarile che caratterizzava gli insediamenti presidenziali, fu una vera e propria requisitoria contro la speculazione finanziaria, contro le mene dei banchieri e dei poteri forti, ed in favore della presenza efficace dello Stato a tutela delle industrie nazionali, del lavoro e dei suoi diritti sociali – chiese ed ottenne dal parlamento, come preannunciato in quel discorso di insediamento, una legge che gli conferiva in materia sociale ed economica “pieni poteri” paragonabili a quelli di un dittatore.

Questo l’annuncio che nel discorso di insediamento del 4 marzo 1933 Roosevelt diede del cambiamento istituzionale necessario nella situazione di emergenza del momento:

«Sono convinto – egli disse – che se cè qualcosa da temere è la paura stessa, il terrore sconosciuto, immotivato e ingiustificato che paralizza. Dobbiamo sforzarci di trasformare una ritirata in una avanzata. [...] Chiederò al Congresso lunico strumento per affrontare la crisi. Il potere di agire ad ampio raggio, per dichiarare guerra allemergenza. Un potere grande come quello che mi verrebbe dato se venissimo invasi da un esercito straniero».

Un linguaggio militaresco che preconizza chiaramente un potere decisionale sganciato dalle procedure parlamentari, benché su delega dello stesso parlamento. Se non era la richiesta di un potere dittatoriale, perlomeno nella forma che salvava la base parlamentare e popolare del suo mandato, poco ci mancava. La motivazione alla base di questo conferimento di plenitudo potestatis fu quella della emergenza economica paragonata, come si è visto, ad un’invasione straniera. In sostanza Roosevelt, paragonando la grande depressione ad una invasione nemica, chiedeva fosse istituito un unico centro di decisione politica.

Dire che quella di Roosevelt, l’unico presidente americano rieletto per ben quattro volte, fu una vera e propria “dittatura democratica” non è lontano dalla realtà storica. Una dittatura del tutto simile, per certi aspetti, ai cesarismi fascisti ed, anzi, fatte le debite proporzioni dovute alla distanza millenaria ed alla diversità di condizioni storiche, simile a quanto fece Giulio Cesare – e che prima di lui non riuscì a Catilina – per imbrigliare il patriziato senatoriale, gli “speculatori” del tempo, e favorire i ceti popolari. La similitudine viene rafforzata dal fatto che, non a caso, Roosevelt incontrò l’unica opposizione, alla sua politica, nella Corte Costituzionale, baluardo del conservatorismo americano, che spesso pose veti ai suoi provvedimenti, limitandone l’azione risanatrice.

Tra i provvedimenti presi dal regime fascista un posto di rilievo ebbero una vasta serie di lavori pubblici, già iniziati in precedenza per motivi di prestigio politico, ed in particolare le bonifiche integrali di ampi territori malsani e palustri per renderli coltivabili e per poi attribuire in proprietà le terre bonificate ai contadini. Le bonifiche fasciste, in tal modo, ipotecavano la struttura ancora latifondiaria dell’agricoltura italiana. Si può dire che con le bonifiche fasciste furono poste la basi psicologiche e giuridiche della successiva riforma agraria effettuata nel dopoguerra dai governi democristiani di Alcide De Gasperi.

«Lobiettivo principale (del vasto programma di lavori pubblici) – scrivono Claudio De Boni ed Enrico Nistri – è … alleviare la disoccupazione, impegnando parte della manodopera eccedente nella realizzazione di opere di interesse collettivo, anche se a questo intento, analogo a quello perseguito oltre Atlantico col New Deal, si aggiunge la preoccupazione di esaltare di fronte allopinione pubblica lefficienza del regime. In questo periodo la maggior parte delle città italiane si arricchisce, e a volte si imbruttisce, di nuovi grandi edifici pubblici costruiti in un caratteristico stile “littorio” contraddistinto dalla monumentalità e dallampio uso del marmo. Stazioni ferroviarie, scuole, ospedali, sedi di ministeri e di altri uffici pubblici vengono costruiti in un fervore di realizzazioni paragonabile solo a quello del periodo postunitario. (…) a questo fervore si accompagna una vasta politica di ristrutturazioni urbane. A dettarle è … la … preoccupazione igienista di eliminare edifici e quartieri “malsani” tramite massici sventramenti; ma ad essa si aggiunge lambizione, tipica di architetti ed urbanisti dellepoca, di esaltare le testimonianze della romanità … a spese delle vestigia dei medioevali “secoli bui”. Certo, lideologia del “piccone risanatore” non nasce col fascismo, né è destinata a morire con esso: sventramenti se ne continueranno a progettare … sino a tutti gli anni cinquanta. Ma è proprio durante la seconda metà del ventennio fascista che tale orientamento – per altro radicato nella cultura architettonica, anche straniera ed anche davanguardia, dellepoca – incide più in profondità sul tessuto urbano e sul patrimonio culturale della penisola» (7).

Nel settore agricolo viene avviata, come detto, la “bonifica integrale” con l’obiettivo di assorbire, anche qui, la manodopera disoccupata e di rendere disponibili, per il momento senza una vasta riforma del latifondo, nuove terre da assegnare ai contadini (i cosiddetti “coloni” con le loro famiglie). Lo Stato chiese alla proprietà terriera di concorrere alle spese della bonifica delle terre incolte, ma, a causa del calo dei prezzi agricoli e della resistenza lobbistica dei latifondisti, tale contributo non raggiunge la misura prevista nei programmi di bonifica. Questo impedì di allargare a tutto il territorio nazionale la bonifica. Non si rinunciò, però, ad effettuarla almeno nelle zone più precarie e malsane. In queste zone, ossia nel Basso Volturno (dove, tra l’altro, le opere di bonifica ricalcarono progetti e realizzazioni già efficacemente messe in cantiere, quasi un secolo prima, dai Borboni), nel Tavoliere delle Puglie e nell’Agro Pontino, il successo dell’operazione non tarda ad arrivare. Migliaia di chilometri quadrati di terra vengono bonificati ed i poderi assegnati in proprietà a coltivatori diretti. Sorgono inoltre dal nulla intere città come Littoria (l’attuale Latina), Sabaudia e Pomezia.

Analoga operazione è condotta nel Sulcis, in Sardegna, dove viene incentivata l’estrazione mineraria di carbone e fondata la città di Carbonia (8).

Tuttavia, al fine di contenere e riassorbire la disoccupazione provocata dalla crisi di Wall Street, innescata dalla speculazione finanziaria, il regime, alla politica di lavori pubblici e di bonifiche, affiancò anche altri provvedimenti. Se per quanto riguarda le politiche di bonifica e di lavori pubblici nonché, come diremo tra breve per quella di intervento dello Stato in economia, il regime praticò una politica “keynesiana”, sotto altri aspetti invece esso ripiegò sui classici provvedimenti deflazionistici dell’ortodossia liberista volti a contenere costi, salari e prezzi per rendere competitivi i prodotti nazionali sui mercati esteri. In altri termini il regime agli inizi degli anni trenta, non ancora del tutto libero dalle ipoteche dell’ortodossia liberista della sua componente di destra, sembra assumere un atteggiamento ondivago tra l’autarchia protezionista ed il deficit spending, da un lato, e libero-scambismo volto alle esportazioni dall’altro.

Furono ridotti i salari sia pubblici che privati con l’intento, appunto, di contenere l’inflazione per aumentare le esportazioni – un provvedimento che, come quelli messi oggi in atto dall’UE, aveva alla sua radice l’errata percezione della situazione che, allora come ora, era di deflazione e non di inflazione – mentre al contempo si lanciava, con enfasi propagandista, l’autarchia, anche per far fronte alle “sanzioni” disposte dalla Società della Nazioni a seguito dell’impresa italiana in Etiopia.

I salari, decurtati, tornarono ai livelli del 1929 solo nel 1939 ed i sindacati fascisti, impediti, dall’irreggimentazione corporativa, a scioperare, si trovarono in forti difficoltà nel convincere le maestranze della necessità delle direttive deflazioniste del Governo. Il regime cercò di compensare la caduta del potere d’acquisto dei lavoratori, che certo non andava nel senso dell’incremento della domanda e dunque della ripresa economica, con provvedimenti volti alla contrazione dei prezzi al minuto ed all’ingrosso. Fu attivato un serrato controllo sui prezzi, sia attraverso le organizzazioni rionali del partito fascista sia attraverso gli organi della polizia ufficiale. Ciononostante i prezzi all’ingrosso, pur contenuti, non diminuiranno in maniera proporzionale di quelli al minuto, innescando fenomeni di speculazione e di borsa nera. Tuttavia, il capillare controllo messo in atto dal regime, in molti casi, avrebbe costituito un efficace calmiere contro le più infami speculazioni.

Un altro provvedimento del regime per ridurre la disoccupazione – si trattò di una, parziale, vittoria dei sindacati fascisti che ben presto venne imitata anche all’estero – fu l’introduzione nel 1934 della settimana lavorativa di 40 ore. In tal modo si riducevano le ore lavorative pro-capite e si rendeva disponibile una certa quota di ore lavorative per l’assunzione, e dunque il riassorbimento, dei lavoratori disoccupati. Tale provvedimento consentì il riassorbimento di 222.000 disoccupati. I sindacati fascisti chiedevano che la riduzione fosse a parità di salario. Ma a fronte della riduzione dell’orario di lavoro, la Confindustria riuscì ad imporre una correlativa diminuzione dei salari che però il regime si preoccupò di compensare con l’istituzione degli assegni familiari per i lavoratori sposati o padri di famiglia (9).

Il regime, poi, intensificò la sua politica di assistenza sociale. In un Paese nel quale, fino ad allora, solo i figli della ricca borghesia potevano permettersi le vacanze al mare, furono istituite le colonie estive, i cui ospiti passarono da 150mila nel 1930 a 474mila nel 1934. Non solo: è del 1925 la fondazione dell’“Opera Nazionale Dopolavoro” che dagli iniziali 280mila iscritti passò, dopo un decennio, a 2 milioni 780mila, per assestarsi nel 1939 sui 5 milioni. La tessera del dopolavoro dava diritto a forti sconti su ogni tipo di svago: dal cinema ai teatri, dai viaggi alle balere, dagli abbonamenti ai giornali alle partite di calcio. Inoltre, tutti i cittadini, iscritti e non al partito fascista ed alle sue organizzazioni, avevano diritto, se economicamente bisognosi, alla refezione scolastica, a libri e quaderni gratuiti, all’accesso alle colonie marine, ai campi estivi e invernali, all’assistenza nei centri antitubercolari.

L’aspetto, però, più originale della politica fascista, che è anche quello di stampo più squisitamente keynesiano, tanto è vero che Roosevelt, nella svolta conseguita alla Grande Depressione, si affrettò ad imitarlo, fu l’intervento diretto dello Stato in economia a sostegno dei settori in crisi. Lo Stato iniziò ad acquistare notevoli partecipazioni azionarie delle imprese nazionali in crisi al fine di risanarle.

Se è vero che, inizialmente, l’intenzione dichiarata era quelle di restituire ai capitalisti le imprese una volta risanate con il denaro pubblico (il che si sarebbe risolto in una “socializzazione delle perdite a fronte di una privatizzazione dei profitti”), sicché, alla luce di questa originaria paventata prospettiva, la Confindustria, anche perché costretta dalle circostanze ossia dalla crisi, non oppose grandi resistenze ed anzi favorì le acquisizioni governative, è altrettanto vero che, mano a mano che il regime andava liberandosi – sia per emersione della sua vera natura “ideologica” sia per via dei fatti che ineluttabilmente a ciò conducevano in tutto il mondo – dalle ipoteche di scuola liberale e liberista, fu sempre più chiaro che l’iniziale intenzione sarebbe rimasta solo tale perché, una volta acquisite la proprietà delle industrie decotte, lo Stato, giustamente, non le avrebbe affatto risanate solo per restituirle ai privati ma le avrebbe conservate, efficienti, alla proprietà pubblica ed all’economia nazionale, che così assumeva un volto di vera e propria economia semi-nazionalizzata.

Una situazione che perdurò anche nel dopoguerra, anzi andò sviluppandosi parallelamente all’accrescimento della presenza pubblica in economia, fino alla (contro)rivoluzione neoliberista iniziata negli anni ’80 e partita dall’America di Reagan e dall’Inghilterra della Thatcher.

Il regime attuò la sua politica di intervento in economia attraverso la creazione di appositi enti pubblici, in alcuni casi nella forma di società a capitale totalmente pubblico, tra i quali i principali furono l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano), cui fu conferito il compito di assicurare alle imprese private e pubbliche il credito che le banche non erano più in grado di concedere, l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), nato appunto come istituto provvisorio ma diventato permanente nel 1937 con il compito di risanare le industrie decotte per riportarle ad efficienza (il successo fu così palese che alla fine fu coniato persino un termine, “irizzazione”, per indicare il controllo e l’intervento pubblico in economia), l’AGIP (Agenzia Italiana Petroli), che aveva il compito di cercare ed accrescere le fonti energetiche necessarie all’indipendenza economica nazionale. Nel dopoguerra tale Agenzia fu strenuamente difesa dal diktat americano di scioglierla, a vantaggio delle multinazionali petrolifere anglo-americane, da Enrico Mattei, partigiano bianco, della corrente di sinistra della DC, ex fascista ed ex imprenditore, che riuscì a convincere Alcide De Gasperi ad opporsi alla volontà dei vincitori. Sulla base dell’Agip si sviluppò l’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) che, per tutti gli anni cinquanta, effettuò una politica di joint venture alla pari con i Paesi arabi e vicino-orientali, produttori di petrolio. Una politica non coloniale che spiazzò il monopolio delle multinazionali anglo-americane e che Enrico Mattei pagò con la vita a seguito di un attentato, nel 1962, al suo aereo di servizio.

Un altro efficace provvedimento che il regime adottò fu la Legge Bancaria del 1936 con la quale non solo veniva pubblicizzato, ossia messo sotto stretto controllo pubblico, il sistema bancario italiano, imponendo ferree regole contro la speculazione finanziaria ed in pratica statalizzando la Banca Centrale (la Banca d’Italia), ma venne separato il capitale bancario privato da quello industriale per evitare che i fallimenti bancari travolgessero anche le industrie (o viceversa).

Era la risposta del regime, analoga al Steagall-Glass Act di Roosevelt, alla situazione che si era creata nei decenni precedenti, secondo un modulo prevalso in tutti i Paesi industriali per il quale le grandi banche d’affari private erano diventate azioniste di maggioranza delle industrie più grandi. Stante questo miscuglio tra capitale bancario speculativo e capitale industriale ben si può immaginare cosa accadde, nell’economia reale e produttiva, a seguito del Crack di Wall Street.

«La conseguenza più rilevante e più duratura – scrivono il De Boni ed il Nistri a proposito della politica del fascismo “maturo” negli anni ’30 – di questo processo è … linizio di uno stretto intreccio fra capitale pubblico e privato; il sorgere di uneconomia mista la cui esistenza e le cui funzioni sono teorizzate in questo periodo da Sergio Panunzio, un sindacalista rivoluzionario divenuto uno dei più lucidi ideologi del corporativismo fascista (nonché rettore dell’Università di Perugia, nda). Sin dal 1936, lo Stato italiano detiene così una quota dellindustria nazionale superiore in percentuale a quella posseduta da qualsiasi altro Stato europeo, ad eccezione dellUrss. Questo non significa che nella penisola ci si avvii verso un vero e proprio superamento del capitalismo; vuol dire, semmai, che dora in avanti, anche dopo la caduta del regime, leconomia italiana sarà gestita in condominio fra i grandi gruppi industriali e finanziari privati, il potere statale (e sindacale, nda) ed una nuova … (classe) di burocrati e dirigenti pubblici, nominati dai politici ma il più delle volte capaci di svincolarsi da uno stretto controllo di questi ultimi grazie al loro spirito di corpo e … alle loro superiori competenze professionali» (10).

Un, forse troppo, entusiastico ma intelligente apologeta del fascismo, Filippo Giannini, ha scritto una interessante pagina che è il caso di riportare ampiamente, perché, con l’apporto di citazioni tratte dai contributi di noti studiosi di storia dell’economia, rende bene l’idea di quale fosse la politica del regime di Mussolini negli anni trenta.

«Giorgio De Angelis [L’Economia Italiana tra le due Guerre] – afferma dunque il Giannini – scrive: “Londa durto provo­cata dal risanamento monetario non colse affatto di sorpresa la compagine governativa e provvedimenti di varia natura at­tenuarono, ove possibile, i conseguenti effetti negativi soprat­tutto nel mondo della produzione (...). Lopera di risanamento monetario, accompagnata da un primo riordino del sistema bancario, permise comunque al nostro Paese di affrontare in condizione di sanità generale la grande depressione mondiale (...)”. Sempre nello stesso volume, il professor Gaetano Trupiano … afferma: “Nel 1929, al momento della crisi mondiale, lItalia presentava una situazione della finanza pubblica in gran parte risanata; erano stati sistemati i debiti di guerra, si era proceduto al consolidamento del debito fluttuante con una riduzione degli oneri per interessi e le assicurazioni sociali avevano registrato un sensibile sviluppo”. In altre parole … mentre nel mondo decine di persone si uccidevano per la disperazione, in Italia, anche se la crisi internazionale stava producendo diversi danni, le inizia­tive del Governo erano riuscite ad evitare che la catastrofe assumes­se quelle drammatiche proporzioni che altrove si erano verificate. I ministri finanziari del Governo Mussolini e, ultimo in ordine di tempo fra questi, Antonio Mosconi, riuscirono a far sì, che negli anni fra il 25 e il 30, i conti nazionali registrassero attivi da primato. Vennero intraprese iniziative che ancor oggi non mancano di stupire per la quantità e la qualità dei meccanismi messi in opera e per il successo da essi ottenuto. Lo Stato affrontò la crisi congiunturale spaziando “dalla poli­tica monetaria alla politica creditizia, dalla politica finanzia­ria alla politica valutaria, dalla politica agricola alla politica industriale, dalla politica dei prezzi alla politica dei redditi, dalla politica fiscale alla politica del commercio estero, dalla politica previdenziale alla politica assistenziale” Sabino Cassese [L’Economia Italiana tra le due Guerre]. Con questa varietà di interventi nella politica economica composta da un fattivo intervento nelle attività produttive e finanziarie, lo Stato italiano divenne titolare di una parte delle attività indu­striali. Seguendo questa impostazione, la cura fu quella più appropriata per il superamento della crisi, anche se comportò dei sacrifici: per sostenere le industrie a fine 1930 si rese necessaria una riduzione dei salari dell8% circa per gli ope­rai; per gli impiegati la riduzione variò, a seconda dellentità delle retribuzioni, dall8 al 10%. Il sacrificio venne, però, quasi subito compensato dalla con­trazione dei prezzi delle merci, per cui il valore reale dacquisto ammortizzò in breve tempo lentità del taglio. (…). In alcuni casi, soprattutto da parte dei senza lavoro (lindice della disoccupazione subì nei primi mesi del 30 un brusco incremento), si verificarono contestazioni con manifestazio­ni, scioperi, a volte con serrate. Le principali agitazioni avvennero tra laprile 1930 e buona parte del 32; ma queste non si trasformaro­no mai in tumulto e tutte rientrarono in buon ordine, anche se le organizzazioni antifasciste dallestero spingevano verso azioni violente. Nel periodo di maggior ristagno lattività del Governo si svol­se con due diversi interventi: uno, immediato, che possiamo indicare come passivo, indirizzato ad assistere le famiglie più colpite dalla grande crisi; il secondo, che possiamo definire attivo, ten­dente ad incrementare gli investimenti statali nelle grandi opere. Fra gli interventi passivi possiamo ricordare, oltre al taglio degli stipendi e dei salari: la riduzione delle ore lavorative per evita­re, il più possibile, il licenziamento; lintroduzione della settima­na lavorativa a 40 ore (operazione che comportò il riassorbimento di 222 mila lavoratori); la diminuzione dei fitti; una forte riduzione delle spese nei bilanci militari; opere di assistenza diretta, come distribuzione di buoni viveri e centri di distribuzione di pasti. Mussolini seguiva con grande cura lesecuzione di queste disposizioni; ne fa fede un telegramma inviato al prefetto di Tori­no in data 1° dicembre 1930: “Buono viveri è insufficiente. Mez­zo chilo di pane ai disoccupati senza famiglia sta bene, ma i disoccupati con famiglia devono avere oltre il pane il riso, condimento e carbone. Bisogna dare qualcosa di più del sem­plice pezzo di pane”. (…). Lintervento che possiamo indicare come attivo fu molto variegato e riguardò, come abbiamo più volte ricordato, quello dello Stato nelle più diverse attività della vita sociale. Fra gli in­terventi attivi, possiamo ricordare quelle iniziative che ancor og­gi sono al centro del mondo del lavoro e dellarte: ci riferiamo al­le Fiere e attività similari. Non ultima, certamente, quella di Napoli, la Mostra Triennale delle Terre Italiane dOltremare: concepita per far sì che ogni tre anni Napoli fosse al centro degli scambi economici e culturali fra lAfrica e lEuropa, una iniziativa ancora oggi valida … volendo. Per rimanere ancora a Napoli, possiamo citare la realizzazione degli ospedali collinari (il XXIII Marzo, poi intitolato a Cardarelli; il Principe di Piemonte, ribattezzato Monaldi; la Stazione Marittima; la Stazione di Margellina; il nuovo rione Carità con i palazzi delle Poste, delle Finanze, della Provincia e dei Mutilati; il Collegio Costanzo Ciano per 3 mila ragazzi - ancora oggi occupato dalla NATO -; la nuova sede del Banco di Napoli; il palazzo dellINA, e numerosi rioni di case popolari. Mussolini e i suoi collaboratori erano consapevoli dellimportanza che queste istituzioni, le Fiere appunto, potevano esercitare nel settore commerciale: negli scambi, nelle contrattazioni e nel rile­vante stimolo che tutto ciò poteva esercitare per la produzione e acquisto di beni, anche di origine lontana o di lontana destinazio­ne. In questottica, e in occasione del Decennale (1932), il Du­ce trasformò la Fiera di Milano in Fiera Internazionale. La Fiera Internazionale di Milano divenne (e ancora oggi lo è) la più importante dEuropa. A quella di Milano, si affiancarono la Fiera di Verona, di Napoli (poco sopra ricordata) e, importantissima tuttora per i com­merci verso lOriente vicino e lontano, quella di Bari, battezzata Fiera del Levante. Solo la guerra vanificherà il completamento di quella Mo­stra che nei programmi doveva divenire la più importante del mondo: lE/42 di Roma. Importantissimi anche i Festival del cinema di Venezia, di Roma, di Taormina» (11).

Luigi Copertino

Parte 1
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Parte 3
Parte 4
Parte 5




1) Cfr. Giuseppe Bottai, “Vent’anni e un giorno”, Garzanti, Milano, 1949.
2) In realtà il fascismo non fu mai totalitario quanto piuttosto un regime autoritario di massa, quindi modernizzatore e pertanto diverso dagli autoritarismi conservatori, come il franchismo, che pur, in apparenza, cercavano di imitarlo.
3) In questo richiamo di Mussolini alla “tensione ideale” fa capolino quanto abbiamo detto circa la “sacralità artificiale” dello Stato moderno, propria della fase “sacrale” della secolarizzazione. Ora questo clima da “religione politica” animava in effetti anche l’America di Roosevelt – per alcuni storici il New Deal ha rappresentato il massimo di “fascismo” che una società liberale come quella statunitense poteva assorbire – il quale, a somiglianza di Mussolini, era un grande comunicatore di massa che seppe far propri gli strumenti all’epoca più moderni ad iniziare dalla radio (famose le sue conversazioni radiofoniche serali in presa diretta con gli americani, analoghe ai discorsi di Mussolini, dal balcone alla folla oceanica, trasmessi radiofonicamente in tutte le piazze italiane) e dal cinema (che anche Mussolini riteneva “l’arma più potente”). Mentre i grandi giornali, in mano alla finanza e quindi ai repubblicani conservatori, gli erano proibiti, Roosevelt capì che la radio ed il cinema, debitamente controllati dallo Stato, erano più efficaci per raggiungere le masse. Ebbene, queste considerazioni ci portano ancora a riflettere circa la dubbia probabilità che, nell’età post-moderna e post-statuale, completamente secolarizzata ed impregnata di nichilismo, possa ricrearsi quel clima di mobilitazione di massa di cui i “populismi”, di destra e di sinistra, hanno bisogno. Ecco perché oggi, come già osservato, il populismi si presenta in una forma barbaramente tribale, connotato etnicamente e microterritorialmente, come nel caso del leghismo.
4) Notevole questa speranza nel cambiamento del cuore dell’uomo. Il problema sta tutto, però, nel fatto che questo cambiamento non può essere ottenuto dalla Politica, o solo da essa, ma dalla Grazia. Le religioni politiche non riescono a cambiare la natura umana e pertanto sono sempre destinate a fallire dando la stura alla rivincita dei loro avversari liberali e liberisti. Come effettivamente è accaduto nel corso del XX secolo. Ora solo se gli statisti aprono, intimamente, il proprio cuore ad un influsso che proviene dall’Alto e quindi tengono sempre in debito conto del carattere ultimamente morale, ma di una moralità etero-fondata sulla Trascendenza, del Politico, possono sperare se non di cambiare completamente il cuore umano perlomeno di introdurre nelle relazioni sociali un po’ più di Giustizia, anche sociale, e, senza lasciarsi irretire da utopie o millenarismi benché camuffati da ideologie politiche, di migliorare almeno un poco il mondo.
5) Cfr. Benito Mussolini “Che cosa vuole l’America?”, ora in Opera Omnia, volume XXVI, La Fenice, Firenze, 1958.
6) Citato da Filippo Giannini “Finalmente qualcuno aprirà gli occhi”, pervenuto, all’autore del presente articolo, via mail.
7) Cfr. Claudio De Boni – Enrico Nistri “L’Europa e gli altri”, III, G. D’Anna, Messina – Firenze, 1992, pp. 398-399.
8) Sia concessa qui all’autore di questo contributo una nota personale dal momento che suo nonno materno, veneto di origini, fu uno dei coloni minerari che il regime sistemò nel Sulcis fornendo a lui e alla sua famiglia casa e lavoro. Nel dopoguerra suo nonno, che era cattolico e tale rimase sempre tanto che voleva con fermezza che le figlie frequentassero la Santa Messa ed alla morte volle i funerali religiosi, aderì al partito comunista, non perché avesse mai letto “Il Capitale” ma inseguendo una aspirazione, molto umana e cristiana, alla giustizia sociale. L’autore, che non ha mai conosciuto il nonno morto di silicosi quando lui non era ancora nato, ne ha, sulla base dei racconti di famiglia, una immagine simile a quella del Peppone del “Don Camillo” di Guareschi. Insomma un comunista per niente ideologico ma intimamente molto cristiano. Nell’adesione di questo avo, nel dopoguerra, al comunismo giocò, senza dubbio, un forte ruolo proprio l’esperienza ed il clima della colonizzazione mineraria fascista che, come detto, non si limitò a far emigrare da altre zone d’Italia la manodopera necessaria ma assicurò agli operai ed alle loro famiglie casa e servizi sociali, dal medico allo spaccio aziendale per i generi di prima necessità a buon prezzo, dal cinema al circolo dopolavoristico. Tutte realtà che sopravissero negli anni cinquanta, date in “appalto” al locale PCI. Dunque, il nonno dell’autore, che non era certo stato in Unione Sovietica e non poteva neanche immaginare la situazione catastrofica del presunto “paradiso dei lavoratori” (negli anni cinquanta Stalin era al culmine del suo potere), immaginava la realtà sovietica sulla base di quanto la politica fascista, le cui realizzazione erano state ereditate dal PCI sardo, aveva saputo mettere in piedi. L’autore di questo contributo ha potuto constatare di persona una testimonianza di quest’opera, nella chiesa principale di Carbonia, anch’essa edificata dal regime fascista, dove campeggia, o almeno campeggiava fino al 1984, una lapide che ricordava la colonizzazione e come con essa, testuale, “il Lavoro aveva incontrato la Patria”.
9) Fa riflettere il fatto che la proposta portata avanti, qualche anno fa, da Bertinotti, in qualità di segretario di Rifondazione Comunista, circa la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – compendiata nello slogan “lavorare meno, lavorare tutti” – sia in effetti una proposta di retaggio fascista.
10) Cfr. C. De Boni – E. Nistri, op. cit., pp. 400-401.
11) Cfr. F. Giannini, op. cit.



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