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... Non con un bang, ma con un tweet
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Lo dico subito, è un campo di cui non m’intendo. Mi tengo alla larga da twitters e fessbuk, quindi posso dire scemenze. Ma voi, quanti followers avete? Il Papa ne ha 10 milioni: «un record», strillano i media con beota allegria. Record proprio non è: i followers di Lady Gaga sono 29 milioni, il presidente Obama ne ha 19 milioni. Anche se gli addetti ai lavori insinuano che il 70% dei followers di Lady Gaga siano fittizi, e parimenti il 70 di quelli di Obama. Leggo da un settimanale francese che, in Francia, con 67 euro si compra un pacchetto di 1000 (mille) followers «reali e garantiti a vita». Ma pare che con una trentina di euro se ne possano acquistare fino a 50 mila sul mercato nero. C’è un mercato nero, pare... Sono certo che i followers del Papa sono tutti autentici e non ottenuti con i mezzucci usati dagli uffici-stampa e propaganda di Lady Gaga Obama. Forse per questo i media parlano di record e accolgono la notizia con euforico sbalordimento.

I media ci invitano anche ad unirci alla gioia di Zuckerberg, l’inventore di Fessbuk: ha raggiunto 1 miliardo e 150 milioni di utenti, e pensare che i connessi ad internet nel mondo sono solo 2,4 miliardi! Leggo che in Francia (non mi metto a far la fatica di cercare i dati italioti) il 93% dei ragazzi fra i 15 e i 17 anni sono su Facebook. Mettendoci anche gli adulti, sono 26 milioni. In media ognuno ha 177 «amici». e i francesi, ogni mese, si mandano a vicenda un 1,3 miliardi di «like».

E voi, quanti Like ricevete? Like o non-like, ecco il punto che assilla il nuovo Amleto collettivo e virtuale (Quello vecchio era ontologico: «Essere o non essere», assillo ormai fuorimoda, superato, come vedremo, nel senso negativo). Perché sembra che nel nuovo paradiso terrestre digitale del «condividi» e «dì se ti piace», nell’incantata foresta dei «social network» che diffonde le vostre foto e il vostro Io (o il suo surrogato) «con effetto virale mostruoso», si annida l’Antico Serpente. Quello che avvelena da sempre l’umana felicità: l’Invidia. Unito a quello che rende insipida la mela proibita, la Solitudine.

Sembra impossibile. Ma quando uno vede che il suo post su Fessbuk non ha suscitato alcun commento, mentre uno che conoscete esibisce 2453 «amici», che gli inviano raffiche di «like» entusiasti, si rode. È l’altra faccia della felicità purissima (e beota) che vi coglie quando vedete un ignoto che su Twitter vi diventa follower, o che si ritwitta una delle vostre frasette acute ed originali – ma le occasioni di invidia e rodimento sono ewnormemente più frequenti che quelle di auto-soddisfazione.

Pare che la cosa che faccia più male, che rende terribili i morsi dell’invidia, è vedere le foto delle vacanze degli amici (che ovviamente vanno in posti più cool di voi, quando non addirittura top), e contare i «mi piace», i commenti e gli auguri di compleanno che riceve una vostra conoscenza, mentre di voi si ricorda solo la mamma.

Risulta da studi scientifici; tedeschi, ossia il massimo della scientificità: secondo un sondaggio pubblicato il gennaio 2013, un utente su tre (per l’esattezza: il 36,9%) si sente più infelice dopo essersi connesso a Facebook: accusa invidia, senso di solitudine, frustrazione. C’è anche uno studio di un ricercatore dell’università di Lovanio, Philippe Verduyn, che ha seguito per due settimane 89 studenti americani collegati a Facebook. Ecco il responso: «Più utilizzano Facebook, più il loro sentimento soggettivo di benessere si deteriora».

Frase da assaporare parola per parola. Sentimento. Soggettivo. Di benessere. Ebbene: tutto questo, Facebook lo deteriora. Ossia fa il contrario di quello che promette: l’esaltazione della propria soggettività, l’esibizione senza limiti del mio narcisismo edonistico, farsi migliaia di «amici», far vedere a tutti che «sei il numero uno», come dice una pubblicità, e sentire da ciò «benessere».

Molto prima di Zuckerberg, ci fu un Altro che consegnò il contrario della merce che prometteva («Sarete come dèi»). Ma non è il caso di scomodare così alti esempi. Basta capire che chi si posta su Facebook o twitter ha dubbi sul proprio essere (dubbi per lo più molto giustificati), e allora che fa? Invece di provare ad «essere» di più, a formarsi un io e un carattere, si sottopone a quello di altre nullità (pardon, di altri io): che valutazione date di me? Cosa vi paio?

Milioni di sventate animule fragili si espongono alla più fatale forma di dipendenza, la dipendenza dagli altri, peggio: da quelli come loro. Ignorano d’essersi gettati da sè, come dice il filosofo francese Carlo Strenger, «in una Borsa globale dell’Io, dove la nostra individualità equivale ad un’azione quotata a Wall Street, e il cui valore sale e scende durante la giornata, in base al numero di click, di commenti favorevoli, o in funzione del nostro posizionamento in questa o quella classifica professionale, sociale, amicale».

A parte il fatto che in un «gruppo amicale» in cui vigano graduatorie, di amicizia non c’è nemmeno l’ombra, queste cose il filosofo Strenger le ha scritte in un libro dal titolo esplicito, La peur de l'insignifiance nous rend fous (Belfond), ossia «La paura dell’insignificanza ci rende folli». In Francia esiste qualche briciola di forza intellettuale, sicchè lungi dal condividere le beote euforie della nostra stampa sul fenomeno, si comincia a segnalare che questo farsi dare un rating come persone non è innocuo, è roba per ésprits forts,assolutamente non per adolescenti che affollano i social networks, pulcini che pigolano e pigolano proprio per convincersi di esserci, essendo i primi a dubitarne. «Sono per definizione esseri fluttuanti, incerti, pieni di dubbi», ha spiegato Bénédicte Vidaillet, altro psicanalista, «tutta una parte di noi, spesso oscura, ci sfugge....la valutazione di sè attraverso il numero di Like permette di sfuggire all’indefinitezza esistenziale, la cifra dà una definizione di sè precisa».

O piuttosto, sostituisce la definizione di sè, che continua a mancare. «Pasto nudo», fu genialmente chiamata la dipendenza da eroina, cibo che non nutre, cibo vuoto che aumenta la fame. Nei social network viene offerto qualcosa di simile, «socialità vuota». L’imitazione chimica dell’amicizia senza amici, la contraffazione digitale della band of brothers. Un Simposio senza Socrate, senza Platone, ma anche senza vino.

«Una simile valutazione in cifre è incoraggiata dalla società liberale: la quale non ama i legami significativi, amicizie vere, posti stabili, mestieri riconosciuti dai propri pari. Ha bisogno di legami insignificanti, amici virtuali, valutazioni artificiali, posti precari, in modo che l’Homo Oeconomicus sia sempre più malleabile, utilizzabile, delocalizzabile». Questo l’ha detto un altro psicanalista, José Morel Cinq-Mars, che su tema ha scritto il saggio: Du côté de chez soi (Seuil). È la trasparente parafrasi del proustiano Du coté de chez Swann: se volgendosi «dalla parte di Swann» Marcel apre tutto un universo di esseri umani, dei loro rapporti, umori, amori, caratteri, tic e conversazioni vissuti con intensa curiosità, coloro che entrano in Facebook si volgono «dalla parte di sé», nel regno narcististico (e traditore ) del contemplarsi allo specchio virtuale, e chiedere incauti: vi piaccio?Quanto vi piaccio?

Si vuol mostrare sé stessi, suscitare interesse con la propria originalità, anticonformismo, alternatività ed antagonismo. Gli effetti sono tragici e comici. Non c’è ragazza che sul suo profilo Facebook non si definisca «solare»: specialmente le 14enni di cui i compagni di scuola hanno messo su Youtube lo stupro di gruppo, o le quarantenni vittime di femminicidio (sarà stato per quello? Troppo solari?). Appena una ragazzina su butta dal balcone per la vergogna dei giudizi che hanno raccolto le sue foto da lei stessa diffuse, i cronisti di nera vanno a cercare su Facebook e, invariabilmente, trovano i dati essenziali per la biografia della defunta: « Cantante preferita: Rihanna, hobby: shopping e pilates. Una ragazza solare». Viene quasi il dubbio che, nel linguaggio vigente nei social network, «solare» sostituisca una quantità di termini più precisi, da «disperatamente ansiosa di farsi accettare» a «puttaneggiante», oppure «superficiale», e comunque «standard», «prevedibile», «banale».

Decine di milioni di utenti, infatti, quando vogliono mostrare agli altri quanto possono sorprendere per la loro originalità e fantasia, postano foto di gatti. Invariabilmente, sempre e solo gatti. Anche perché le foto di gatti inteneriscono le ragazze «solari» cioè tutte, e (come insegna Instagram) « più Mi Piace e più commenti ha una certa foto, più probabilmente finirà in una speciale classifica dei più popolari».

Ma a che dilungarsi? L’utopia di Grillo-Casaleggio di «democrazia sulla rete» ha già dimostrato che essa è frequentata da convenzionali nullità, le quali selezionano prevedibili banalità. La sola cosa sorprendente è che queste pretendano di interessare gli altri con l’ennesima foto di gatto, i più risaputi commenti ed insulti standard, e insignificanti luoghi comuni. A milioni e milioni di persone non viene nemmeno in mente che, per interessare, bisogna sforzarsi di essere interessanti: il che si ottiene non parlando del proprio insignificante sé, ma di cose interessanti di cui ci si appassiona davvero, di cui si è competenti.

Il sopra citato Strenger prova a consigliare: «Sarebbe meglio accettare che le nostre capacità di inventare noi stessi sono molto relative. Esiste una sorta di logica interna che fa sì che voi siate quello che siete. È solo prendendo coscienza dei propri limiti, dei vostri determinismi, che potrete eventualmente superarli, lontano da ogni ossessione di Like...». E invita a riabilitare quelle zone segrete, non esposte alla vista di tutti, dove si esprime il noi non quantificabile, non corrispondente alla norma. Buon consiglio, a patto di averle quelle zone segrete, non convenzionali, insomma una «personalità». Allora si può consigliare loro di accedere a siti come «justdelete.me/it» per farsi cancellare dai social network, come misura disintossicante senza soffrire di eccessive crisi d’astinenza.

Ma per i più, temo, il passo è troppo difficile. «Un tempo», dice Pascal Bruckner, «l’individuo era preso dentro un insieme di tradizioni, di quadri molto gerarchizzati che lo definivano: il suo posto in una famiglia, in un mestiere, in un villaggio,in una regione. In democrazia, siamo tutti eguali ma – simultaneamente - siamo anche tutti invisibili. Il nostro valore non può venire che dallo sguardo degli altri, che ci convalida».

Questo accenno alle società tradizionali come le sole capaci di dare agli esseri una significativa identità, dignità ed un rango preciso, mi pare tristemente istruttivo. Muoiono gli ultimi esseri umani che hanno conosciuto tali società; le genrazioni vigenti non ne hanno alcuna esperienza diretta, e nemmeno capiscono di cosa Bruckner parli, e di come quella fosse la vera alternativa al «pasto nudo» che cercano – e non trovano – sui networks. Sono generazioni che non immaginano alcuna alternativa all’ignoranza che infliggono ai loro cervelli le migliaia di ore spese a twittare, textare, facebookkare, rimbalzare da Youtube video di gatti adorabili o di immondi transex popM o ancora a smanettare in videogiochi di guerra, consumandosi in tecno-banalità, isolandosi negli auricolari e perdendo la capacità di volgere gli occhi alle persone reali, guardando negli occhi un Tu. Gente ahimé che si annoia perchè ignorante, e ha bisogno di emozioni «forti» perché il mondo in cui sono immersi pare insignificante e vuoto – inevitabilmente – a chi non conosce nemmeno i rudimenti della storia, nulla della natura è digiuno di scienza, e ha perso ogni interesse nel leggere come nello scrivere. Gente che passa accanto a tesori accumulati , a Thomas Mann, a Bulgakov, a Solgenitsin; a lucciole e albe e tramonti, a cattedrali e a Caravaggi sbuffando «ma insomma, qui non c’è un c...di niente, che noia!». Gente che non pensa più criticamente, ma «reagisce», che non analizza ma «sente», che è programmata a credere a slogan invece che ad esplorare e porre domande, gente dove le idee-ricevute e le tifoserie hanno sostituito la conoscenza e la comprensione. In una parola: gente che, twittando, si congeda dalla civiltà occidentale.

Sono gli hollow men di cui T. S. Elliot aveva presentito l’avvento terminale. «This is the way the world end – Not with a bang but with a whimper»; «Questo è il modo in cui il mondo finisce, non con un boato, ma con un piagnucolìo». Basta una piccola correzione: «non con un bang, ma con un twitter».

Post Scriptum

Frattanto, Zuckerberg sta progettando l’espansione totale – totalitaria – di Facebook. Ha radunato i giganti telecom (Nokia, Samsung, Eriksson, eccetera) in una nuova società, Internet.org , il cuis copo è di abbassare i costi della connesssione ad Internet all’1% di quelli attuali, onde rendere accessibile i social networks ai 4 miliardi di esseri umani che, sulla Terra, sono ancora liberi, ossia non connessi.

Zuckerberg non sopporta che gli Yanomani nel Mato Grosso, i pastori della Mongolia o i montanari del Karakorum restino senza «amici». Li vuole con sè, gratis, o quasi. Il motivo del suo altruismo è si capisce. Abbiamo già detto che sono 1 miliardo e 150 milioni gli uomini collegati a Facebook; praticamente la metà di coloro che nel mondo hanno la connessione Internet, che sono 2,4 miliardi, di cui milioni usanosocialnetworks nazionali come Renren (Cina) e Vkontakte (Russia). Il pericolo imminente per Facebook e suoi satelliti si chiama «saturazione del mercato». Le adesioni a Facebook rallentano e poi scendono, inevitabilmente; facendo calare il valore delle azioni Facebook a Wall Street. Quel valore è salito all’assurdo, di trionfo in trionfo, per il solo fatto che gli utenti Facebook sono cresciuti fino ad oggi trionfalmente. I maghi di Wall Street non sono molto sofisticati; vogliono vedere «crescita», sempre crescita, e allora comprano. Qualunque cosa, purché abbia «crescita e prospettive di crescita».

Per questo Zuckerberg sta alleandosi con le compagnie suddette: per raggiungere i 4 miliardi di esseri umani che non hanno, nè avranno mai, un tablet o uno smartphone perché non se lo possono permettere. Questi però hanno un telefonino non smart nella bisaccia: sono 7 miliardi i cellulari «dumb» in funzione sul pianeta. Raggiungerli, ecco il progetto. Fare in modo che il montanaro nepalese col suo yak, il pigmeo nel tucul, e il samoiedo siberiano possano smanettare, postare la foto del gatto e cliccare Like o non Like. Nelle loro plaghe distanti o desolate, sotto l’Annapurna o nella foresta primigenia, bisogna che costoro smettano di vivere dentro la tradizione e la gerarchia che dà a ciascuno di loro un posto e una identità solida nella famiglia, nel villaggio, e un senso del looro essere nell’universo; hanno anch’essi diritto al «pasto nudo» standard, alla loro razione di pornografia, narcisismo, banalità e «valori americani» della competizione.

E, come vedete, questo si avvicina al progetto «TuttoGratis» (pagherete poi) che pare essere la strategia ultima del dominio americano, per il quale la Fed stampa e stampa trilioni di dollari. (Facebook creates Internet.org alliance to reduce price of mobile data plans to 1% of current price)




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