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L’Iran atomico fa male al business. Delle armi.
31 Marzo 2015
La più vaga prospettiva che l’Iran diventi potenza nucleare fa sbavare di rabbia i prìncipi sauditi e rende frenetico Netanyahu e i suprematisti israeliani. Tutt’e due le potenze stanno adoperando ogni mezzo, colpo basso e pressione di lobby per impedire l’accordo che l’amministrazione Obama sta mettendo faticosamente a punto con Teheran (1). Ma c’è una terza lobby che si preoccupa. Il complesso militare industriale. Anzi, mi correggo, una quarta: i banchieri d’affari. «Lei ritiene che un accordo nucleare con l’Iran deprimerebbe le vendite di armamenti?»: questa la franca anche se singolare domanda che tal Myles Walton, analista della Deutsche Bank, ha rivolto alla direttrice esecutiva della Lockheed Martin, Marillyn Hewson, durante l’ultima «earning call», la teleconferenza con cui le aziende quotate informano gli investitori-azionisti dello stato dei loro affari e profitti. L’uomo di Deutsche Bank teme per i profitti della Lockheed.
«Certo, la cosa non aiuta», ha risposto la Hewson, ma subito ha aggiunto: come vede, «però c’è molta esplosività, molta instabilità, moltissime cose stanno avvenendo» in Medio Oriente e nell’Asia Pacifico: entrambe sono considerate «aree di crescita» dalla Lockheed. Insomma tranquillo banchiere, nel nostro settore non prevediamo recessione. Il tuo investimento è ben piazzato. Istruttivo scambio, per molti motivi. La legittimazione dell’Iran come potenza nucleare, potenzialmente capace di dotarsi della Bomba – la deterrenza definitiva, che rende non più minacciabile il Paese – si teme che diventi un elemento di stabilità regionale; placherebbe la delirante corsa agli armamenti in corso nella Regione, che ha toccato punte folli: l’Arabia Saudita e le altre petromonarchie del Golfo, in isterico stato di insicurezzza paranoica, hanno aumentato le importazioni militari del (tenetevi forte) 71% in 5 anni; nel Medio Oriente in generale, la compra di sistemi d’arma è cresciuta del 54%; l’Africa ha accresciuto il suo import del 45% nei cinque anni. L’immane corsa agli armamenti E sì che l’Arabia Saudita è stato solo il secondo importatore mondiale di armi nel quinquennio: prima l’India, terza la Cina, poi vengono gli Emirati, il Pakistan; seguono l’Australia e gli Stati Unitit: che, massimo produttore-esportatore del mondo (si accaparra il 30% dell’export) è anche acquirente di armamenti da Canada, Germania e Regno Unito. Insomma i conflitti in atto, quelli pendenti e quelli minacciati – tutti in crescita trionfale grazie alla destabilizzazione USA del mondo – assicurano profitti costanti e crescenti nelle casse di Lockheed-Martin, Boeing, Raytheon, Northrop Grumman, General Dynamics, United Technologies. Gli affari vanno a gonfie vele, si rassicurino gli azionisti, i banchieri che ci hanno piazzato capitali. Non sono risultati che le altre industrie possono vantare, in questi tempi di depressione mondiale. E l’Impero del Caos assicura sempre nuove «aree di crescita» per il business. Con il Medio Oriente e la regione Asia-Pacifico (vasto epicentro di una propria corsa agli armamenti a perdifiato), la signora Hewson avrebbe dovuto elencare la più che promettente crisi ucraina: nelle manovre tenuta a marzo dalla NATO in Polonia, gli USA hanno dispiegato una batteria di Patriot, per dare ai polacchi la «capacità di dissuasione all’aggressione sul fianco orientale»: al Governo polacco, gli americani hanno promesso: se ce li comprate, vi mandiamo più truppe (per ora hanno mandato 600 soldati USA). È il cinismo del piazzista che sfrutta la paranoia anti-russa che possiede Varsavia per «promuovere il prodotto»: la Polonia vuole spendere 40 miliardi di euro in nuovi armamenti, di cui 8 per un sistema antimissile, e il Patriot (prodotto dalla Raytheon) è in lizza il franco-italiano Eurosam. Varsavia vuole anche assolutamente 3 nuovi sottomarini d’attacco, e li armerà con missili da crociera a doppia capacità (testata convenzionale o atomica): e qui Raytheon è in concorrenza col gruppo francese Dncs.
Soldati USA di fronte ad una batteria di missili Patriot, base di Morag, Polonia
Il significativo scambio citato all’inizio insegna anche un’altra verità poco notata: l’interesse diretto che hanno le banche d’affari nella guerra, o nelle corse agli armamenti che portano alle guerre. Non è una novità. Nomi Prins, ex manager della Goldman Sachs, ha studiato il periodo che comincia «con il panico del 1907» (un crack di Wall Street), e che spinse i banchieri a premere sulla Casa Bianca per entrare nella Grande Guerra: «All’inizio, (il presidente) Woodrow Wilson adottò una politica di neutralità. Ma la Morgan Bank, che era la banca più potente a quel tempo, e che alla fine si accaparrò il 75% del finanziamento degli Alleati durante la prima uerra mondiale, spinse Wilson ad uscire al più presto dalla neutralità, per il desiderio di essere coinvolta con una delle due parti belligeranti». Fra l’altro, JP Morgan acquistò il controllo di 25 grandi giornali statunitensi, per guadagnare l’opinione pubblica all’intervento. Ciò non impedì che le banche americane, fino al 1917, aprissero fidi anche alla Germania: ma solo 27 milioni di dollari, mentre al Regno Unito avevano prestato 2,3 miliardi: l’entrata in guerra ebbe anche il senso di assicurarsi che il più grosso de debitori, vincendo, pagasse il debito. Il senso dei banchieri per le guerre Negli anni ’30, la Brown Brothers Harriman – allora la più grande banca d’affari del mondo – vide nel nazismo un ottimo investimento, e continuò a finanziarlo fino al 1942, in piena guerra, quando incorse finalmente nei rigori della legge «Trading with the Enemy». L’agente principale della collaborazione fu John Prescott Bush, il socio Skull & Bones che sarebbe divenuto senatore, nonchè padre di George H.W Bush, presidente USA, e nonno dell’altro Bush presidente, il junior che ha scatenato «the new american century» del caos e destabilizzazione globale, e la «lunga» guerra al Terrore, tanto voluta dai neocon con doppio passaporto, inseriti nella sua amministrazione. Prescott Bush era stato messo dagli Harriman (elementi fissi nella Skull & Bones) a dirigere la Union Banking Corporation, ed a metterla a disposizione di Fritz Thyssen, l’industriale germanico che fu il grande sostenitore finanziario di Hitler; il nonno credette tanto alla bontà dell’investimento, da diventare azionista della banca che dirigeva e delle altre imprese che traevano profitti dalle relazioni col Terzo Reich. In fondo dunque non è scandaloso il fatto che Bush figlio, il presidente (e prima, direttore della CIA) si scopra, l’11 Settembre, in intime e lucrose relazioni d’affari, e persino d’amicizia, con la famiglia Bin Laden; è una tradizione di famiglia la collaborazione sovrannazionale col nemico della nazione; altrettanto tradizionale è la delicata discrezione (per non dire rispettoso insabbiamento) che in America circonda tali affari della Dinastia. La quale – lo ricordiamo per chiudere – ha enormi investimenti in atto nel settore militare in tutto l’Occidente, attraverso il gruppo Carlyle, ricco di soci influenti, specie ex capi di stato e di Governo. L’interesse della banca-superpotenza, la centrale – la Federal Reserve – nel rovesciamento di Gheddafi è stato sospettato da più parti: il dittatore aveva nazionalizzato la sua Banca Centrale e minacciato di emettere moneta aurea, una spina nel fianco del sistema di moneta-debito attuale, dove sono lle banche, indebitando, acreare liquidità. Sarà complottismo: ma è un fatto che a fine marzo 2011, i «ribelli» libici appena liberati dal dittatore dai bombardamenti NATO, si sono affrettati a creare la loro banca centrale privata: l’annuncio fu fatto dal Consiglio Nazionale di Transizione: mai s’era visto che nel pieno della lotta intestina, molto prima di essere saldi al potere, dei rivoluzionari avessero pensato di creare la Banca Centrale. «Segno che non sono solo degli stracciaculi questi ribelli, e che vi sono sofisticate influenze su di loro», commentò l’analista finanziario Robert Wenzel dello Economic Policy Journal : «mai avevo visto una banca centrale essere formata in pochi giorni dal bel mezzo di un’insurrezione popolare». Il nero segreto di Deutsche Bank Abbiamo visto l’emissario di Deutsche Bank farsi rassicurare sulle felici prospettive del business letale. Un segnale in più delle totale anglo-americanizzazione della banca tedesca che un tempo aveva come missione il finanziamento dell’industria nazionale, ed oggi è ingolfata nella più folle speculazione sui derivati — in cui dilapida i surplus guadagnati dagli esportatori germanici. Come mi ricorda l’amico Umberto Pascali da Washington, non si è trattato di una «evoluzione naturale». Si è dovuti passare attraverso l’omicidio del presidente delal Deutsche Bank, Alfredo Herrausen, nell’ormai lontano 30 novembre 1989: data cruciale della riunificazione delle due Germanie e del ritiro dell’impero sovietico che aveva lasciato macerie economiche nei paesi che aveva gestito per 70 anni. Herrausen, economista industriale e consigliere fidato del Cancelliere Kohl in materia, stilò un ampio e coerente progetto di rinascita delle industrie ex comuniste, in Germania come in Polonia, e soprattutto in Russia; ebbe l’ingenuità di andare a Wall Street a proporre al capitale americano di partecipare all’impresa; sarebbe un ottimo investimento anche per voi, caldeggiò. Invece un attentato alla bomba fece saltare la sua Mercedes blindata mentre usciva dalla villa. Non essendoci ancora Al Qaeda nè il Califfato, dell’omicidio fu incolpata la RAF (Frazione Armata Rossa), a quel tempo ridotta a due soli membri ancora liberi, in fuga e braccati. Il progetto Herrusen – molto diminuito, ridotto alla sola Germania Est – passò a un altro economista: Detlev Rohwedder. Assegnato alla privatizzazione delle aziende obsolete della Germania orientale appena riunificata alla Repubblica Federale, Rohwedder si oppose alla svendita e al saccheggio a pezzi e bocconi delle ex imprese comuniste (Wall Street voleva soprattutto i terreni su cui sorgevano), elaborando un piano di ammodernamento che contemplava, in molti casi, il trasferimento della proprietà ai lavoratori anziché la privatizzazione. Il primo aprile 1991, un tiratore scelto lo uccise – con un proiettile standard NATO 7,65 – sparando da 63 metri alla finestra della sua sorvegliatissima casa a Dusseldorf, proprio nel momento in cui Rohwedder passava davanti al vetro. La rivendicazione della RAF fu lasciata sul posto dal cecchino: non c’è dubbio, sono stati i rossi. Il piano Herrausen conduceva all’integrazione reciproca di Germania e Russia, ed Est Europa, in un blocco economico potente, ricco di materie prime, risorse umanee intellettualità. Era per scongiurare questa integrazione che gli Usa erano entrati in guerra. Il duplice omicidio, mi scrive Pascali, «segnò la fine di una possibile indipendenza europea; ad essa l’Europa deve se non è capace di negarsi al conflitto con la Russia orchestrato da Wall Street».
Anshu Jain
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Attualmente, il capo supremo della Deutsche Bank non è nemmeno capace di parlare tedesco: si chiama Anshu Jain, è un indiano della setta jainista, che ha passaporto britannico ed è ritenuto un mago dei derivati: esemplare illustrazione della della più incredibile e fantastica internazionalizzazione della banca di nome Deutsch, e della sua piena adesione alla globalizzazione finanziaria. Anshu è stato uno dei 500 (diconsi cinquecento) specialisti che, a metà degli anni ’90, lasciarono tutti insieme Merrill Lynch per passare a Deutsche Bank, o più precisamente per occupare militarmente la sede di Londra della banca, facendone – da prestatrice di medio credito all’economia reale – la «potenza globale che genera metà dei suoi profitti dalla speculazione pura» sulle piazze globali, in derivati, valute, titoli, cartolarizzazioni più che dubbie di mutui subprime (lo stato americano le ha comminato una multa di un miliardo di dollari per frode nei mutui). Il gruppo dei 500 seguiva il suo capo, Edson Mitchell, un aggressivo, avido, maleducato e competitivo speculatore (il tipico ugly american); è stato sotto di lui, che l’ufficio di Londra è diventato la vera direzione centrale e stanza dei bottoni di Deutsche Bank; è sotto la sua mano di ferro che la banca è stata riorganizzata brutalmente, fra purghe e sovversioni del vecchio personale. Anshu era divenuto il suo braccio destro. Poi, nel dicembre 2000, anche Edson Mitchell è scomparso: a 47 anni, in un misterioso incidente aereo del suo jet executive privato, un Beechcraft King Air 200 schiantatosi sulle montagne del Maine. Il capo dei missionari di Merril Lynch lasciava moglie, quattro figli, un’amante francese di nome Estelle, e la Deutsche Bank a mezzo della caotica riorganizzazione. Il giovane indiano ne ha preso il posto. Quanto bene ha fatto questa riconversione della banca che fu di Herrausen questa dinamica riconversione, lo testimoniano cifre spaventose: Deutsche è esposta in derivati per 55 mila miliardi, 20 volte il Pil tedesco, 9 volte il prodotto lordo dell’intera zona euro. A copertura di quei 55 trilioni, la banca ha depositi per 522 miliardi, cifra 100 volte inferiore. Un crack li farebbe volatilizzare tutti, ma che importa? Sarà il contribuente germanico a coprire a piè di lista le perdite per le avventure della «sua» banca.
È anche così che si tiene a freno Berlino e la si porta allo scontro con la Russia. Il business delle armi, come abbiamo visto, interessa Deutsche Bank. Nel 2014, a febbraio, Anshu Jain è stato festeggiato nella sede del Museo Ebraico di New York dalla comunità, di cui si professa amico e da cui riconosce di essere stato molto aiutato quando arrivò a New York, indiano sconosciuto, per entrare a Wall Street.
1) Anzi i due maggiori giornali americani, il Washington Post (le 14 marzo 2015) e il New York Times (il 26 marzo 2015), hanno pubblicato due opinioni in cui si caldeggia il bombardamento dell’Iran. I due articoli sono firmati da Joshua Muravchik e John Bolton, due ebrei neocon che si sono distinti in fanatismo nel Governo Bush jr. Evidentemente i due individui stanno conducendo la campagna dettata da Netanyahu; il fatto inquietante è che i due «grandi» giornali ne abbiano pubblicato i delinquenziali propositi.
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