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Tutti nella superbanca cinese. Gli svizzeri, da invitati
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È stata tutta una corsa, una gara. Con sgomento dispetto e incredulità di Washington, tutti i suoi alleati si son precipitati ad entrare nella Banca Asiatica di Investimento e Infrastrutture (BAII) creata da Pechino: Germania, Francia, (incredibile) Italia, e persino il Regno Unito . Il Governo americano ha «privatamente» rimproverato Londra per questo tradimento. Pubblicamente o quasi, ha espresso il dubbio che Stati non appartenenti al G-7 (ossia al Regno del Bene globale) siano capaci di operare prestiti e investimenti «secondo gli standard appropriati» specie sul piano «della protezione sociale» e «dell’ambiente» (siete pregati di non ridere: la predica viene dal Paese del fracking, degli OGM Monsanto e del più alto numero di detenuti al mondo, dove il carcere è stato chiamato ‘la cassa integrazione dei negri’).

L’effetto di questo avvertimento? L’Australia, la Nuova Zelanda, per non parlare dell’India e l’Indonesia, si sono affollati alla porta della neonata banca cinese. 35 nazioni in tutto. La Corea del Sud ci sta pensando. L’unico vero e forte alleato rimasto fuori su ordine americano è il Giappone. Ma colto da tentazione irresistibile, Taro Aso, il ministro delle Finanze di Tokio, ha dichiarato che prenderà in considerazione l’adesione alla banca cinese «se garantisce un meccanismo credibile per dare prestiti», frase che ha qualcosa della scusa pietosa.

Tutto questo è già stato scritto, ed altri hanno sottolineato che la banca cinese segna l’inizio della fine dell’egemonia finanziaria americana, esercitata attraverso i suoi organi sovrannazionali come FMI, Banca Mondiale, Banca Asiatica di Sviluppo (sempre diretta da un giapponese) di cui ha scritto le regole e in cui ha la maggioranza decisionale; altri, più ottimisti, hanno salutato l’inizio della de-dollarizzazione.

Pochi, mi pare, hanno sottolineato l’importanza dell’adesione di un altro Paese. Piccolo, neutrale, e non inserito nei sistemi d’alleanza americani. Prendo la notizia della Xinhua, l’agenzia ufficiosa di Pechino:

«La Svizzera decide di partecipare al processo di fondazione della BAII».

Notare: non si parla di semplice adesione. La Svizzera ha regalmente deciso di «partecipare al processo di fondazione» della superbanca. Il resto del comunicato suggerisce che Pechino l’ha graziosamente invitata a sedersi alla sua destra.

«In quanto uno dei primi Paesi d’Europa occidentale a fare questo passo – continua Xinhua – la Svizzera potrà così partecipare alla preparazione degli statuti di questa importante istituzione finanziaria. Ciò ‘le permetterà di ben posizionarsi nella nuova istituzione’, secondo un comunicato del governo elvetico. (...) La Svizzera considera di poter svolgere un ruolo importante ‘per assicurare che la nuova banca rispetterà gli standard internazionali [ecco la risposta a Washington, ndr] della sue attività operative e nella cooperazione allo sviluppo. Essa potrà, a questo scopo, mettere a profitto la sua lunga esperienza, e credibilità di cui gode presso le banche multilaterali di sviluppo».

Pechino dunque non solo dà agli gnomi di Zurigo un posto da fondatore al vertice della BAII; riconosce alla Svizzera il ruolo di proboviro, di garante e giudice della onestà della nuova istituzione.

Divertente la piccola bugia iniziale: la Svizzera non è stata «uno dei primi Paesi» ad aderire. Il primo, primissimo ad offrirsi è stato il Regno Unito, e proprio per «guadagnare il vantaggio di essere il primo», iscrivendosi alla banca cinese prima degli altri Paesi del G-7, dirottare verso la piazza di Londra le transazioni asiatiche future, e avere il potere di conformarne gli statuti e dare le «garanzie» sugli standard, insomma di conformare la BAII secondo i criteri, l’ideologia e l’egemonia globalista anglo-americana. Anche Cristine Lagarde, a capo del Fondo Monetario, s’è detta «deliziata» di collaborare subito con la BAII, per lo steso motivo di Londra: influire sulla sua creazione e la sua costituzione.

Pechino ha invitato invece la Confederazione al posto ardentemente desiderato da Londra.

E la BAII non è la sola: la Cina ha proposto anche una New Development Bank per i suoi BRICS (Brasile, Russia, India e SudAfrica), per non dire del progetto Via della Seta, che intende collegare con reti ferroviarie veloci i vicini nell’Asia Centrale. Lo stesso Economist dei Rotschild ha scritto: «La Cina, stracolma di riserve in valuta e ansiosa di convertirle in soft power, sta creando una architettura alternativa» a quella che ha garantito l’indiscusso dominio della finanza anglo e della sua ideologia negli ultimi 70 anni; e «l’America, sia che l’abbia fatto apposta o per inettitudine, ha fatto della questione un test della sua forza diplomatica. È stato un disastro...».

Decisa a continuare su questa strada, Washington ha sparato un missile intercontinentale a testata multipla Minuteman III – l’arma da guerra atomica – e l’ha fatto «per dare una visuale al mondo», ha detto il colonnello Tytonia Moore, responsabile del lancio. Chiusi nel loro mondo.

Invece è da chiedersi cosa mai ha indotto la servile Roma ad unirsi agli altri servi europoidi in questo sgarbo agli USA. Il fatto è che nei circoli che in qualche modo contano avanza la sensazione che il sistema globale americano non solo è in un vicolo cieco, se vogliamo al capolinea; e per di più sull’orlo del precipizio. E a denunciarlo sono proprio gli operatori che più si avvantaggiano del sistema. Paul Tudor Jones, un grosso e rispettato trader, ha sgomentato molti dicendo, in tv, che «siamo al colmo di una disastrosa market-mania», intendendo i mercati finanziari, i soli dove ci si arricchisce mostruosamente, «una mania delle peggiori della mia vita». Evocata l’iniquità insostenibile fra «l’1% e il resto dell’America, e fra gli USA e il resto del mondo», ha aggiunto: «questo divario non può durare e non durerà. Storicamente, questo genere di divaricazione si riduce in tre modi: con la rivoluzione, con le tasse più alte, o con la guerra. Nessuna di queste è nella mia lista dei desideri...».

Ray Dalio, il fondatore del fondo speculativo Bridgewater Associates (gestisce 165 miliardi di dollari) ha scritto ai suoi clienti che la politica della FED rischia di far esplodere un crack «stile 1937». Che cosa accadde allora? Che la Grande Depressione nata nel 1929 ebbe un ulteriore aggravamento, mostrando il fallimento del New Deal. Ciò perché esattamente come oggi, per drogare l’economia in recessione dal ’29, la FED ‘stampò moneta’ a perdifiato. La moneta e i bassi interessi alimentarono una (nuova) bolla della Borsa. Quando la FED rialzò i tassi (prematuramente, si disse) la bolla scoppiò, e ci fu una ricaduta spaventosa nella disoccupazione di massa, e nei fallimenti. E un rigelo della Grande Depressione in tutto il mondo (salvo che nel paese del Male Assoluto, ma questo è un altro discorso). E sì che nel 1937 gli Stati Uniti erano, finanziariamente, un’«isola, e non come oggi un attore d i un mondo globalizzato» dove i capitali possono andare e venire alla velocità della luce e senza confini; nel ’37 la Borsa esauriva tutta quanta la «finanza speculativa»; oggi il mercato del debito (obbligazioni e Titoli di Stato) giganteggia, e sopra questo titaneggia – fino a farlo sembrare un nano – il mercato dei derivati: 690 trilioni, contro i 70 trilioni di tutti i mercati azionari e obbligazionari. Ora, i derivati sono sensibilissimi a variazioni dei tassi d’interesse primari, decisi dalle banche centrali: le quali o si paralizzano, o rischiano l’Apocalisse.

«Il mercato è iper-sopravvalutato, sta per arrivare una correzione significativa»: parole del capo della Federal Reserve di Dallas, Richard Fisher, al momento di lasciare la poltrona per la pensione. Lo sa benissimo, che i trucchi delle Banche Centrali hanno sempre meno effetto. La durata dei periodi di stabilità che seguono ad ogni «intervento» o «salvataggio» diminuisce, e l’ampiezza di ogni nuova crisi si espande. Sono molti operatori a dire che la prossima farà sembrare il 2008 (la crisi dei subprime con quel che ne è seguito e non ancora concluso) un ruttino.

E in Europa? Un certo vento di fallimenti bancari ha cominciato ad alzarsi. Inaspettatamente, nell’area tedesca: l’austriaca Hypo Alpe Adria, già nazionalizzata nel 2009 è fallita. Vienna non ha voluto o potuto più «salvarla» (ci aveva messo 5,5 miliardi di euro dei contribuenti, volatilizzati), quindi il peso del crack cade sugli azionisti e, novità, sui correntisti. Gli azionisti hanno imbarcato perdite per 7,6 miliardi: e fra questo un investitore chiamato Düsseldorfer Hypotherkenbank, che tratta obbligazioni securitizzate (pfandbriefe), un mercato in Germania di 400 miliardi di euro. Prontamente fallita. Altrettanto prontamente, l’associazione delle banche private tedesche BDB l’ha presa in carico, attraverso il fondo di garanzia dei depositi, per assicurare i correntisti che, fino a una certa cifra, non avrebbero perdite: piccolo particolare, la Düsseldorfer non tiene conti correnti di privato. Segno più rivelatore di panico non si può immaginare.

Come non bastasse, gli USA – questi maestri della morale – hanno accusato la Banca Privata di Andorra di riciclaggio, che significa il divieto di operare in USA. Lo staterello di Andorra ha dichiarato di nazionalizzare la banca privata: così si è scoperto che il bilancio della banchetta che ha garantito (3,1 miliardi) è quasi pari al bilancio statale di Andorra (3,5). E il micro-Paese non sta sotto l’ombrello protettivo della BCE, dunque deve provvedere da sé. Subito dopo, una filiale della banca di Andorra da essa posseduta, la Banco Madrid, è andata in fallimento... Non sappiamo ancora cosa hanno escogitato alla BCE per frenare quello che sembra un effetto-domino. Ancor meno se e per quanto funzionerà.

Speriamo nei cinesi, e nello sviluppo che sapranno innescare...
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