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Ecco dove stiamo andando
03 Dicembre 2013
Scusate, signori, ma quali prospettive abbiamo davanti? I nostri governi non fanno che tenerci nell’euro, obbedire alle ricette d’austerità dettate da fuori, aumentare la tassazione stritolatrice fin oltre il punto di rottura, e non ridurre la spesa parassitaria che è la loro. Ci stanno riducendo i salari (i loro, no) per renderci più competitivi, e le pensioni perché non ne abbiamo tanto diritto; nello stesso tempo, hanno reso una maledizione quello che una volta era il «bene-casa» a forza di tassazioni che molti non potranno pagare; ma non potranno nemmeno vendere quel bene diventato una macina da mulino al collo, perché Monti ha provocato una restrizione del credito mai vista; e tuttavia, miliardi delle nostre tasse, appena le prelevano dalle nostre tasche, li consegnano alle banche, MPS, Unicredit, Intesa... Per di più – mi pregio ricordare – i nostri governi si sono impegnati («ci» hanno impegnato ) a ridurre il nostro debito pubblico – che in realtà stanno facendo aumentare – del 20% l’anno, fino a portarlo al 60% del Pil per i prossimi 20. Sono altri 50 miliardi l’anno di prelievo. «Altri», cioè in aggiunta al prelievo fiscale già mostruoso che già, per esempio, sulle imprese grava per il 65%. Altri 50 miliardi ogni anno che devono strizzare dalle nostre tasche, risparmi, immobili tragicamente illiquidi e di valore precipitante. Come faranno? Ve lo hanno mai spiegato i governanti, i loro economisti, i grandi esperti di Bankitalia? No, è impossibile. Se già oggi migliaia di imprese produttive hanno chiuso, ogni attività si restringe e una impresa su tre ha i bilanci in rosso (il che significa che molte di queste falliranno nei prossimi mesi), è semplicemente impossibile prelevare ancora ulteriori 50 miliardi l’anno, senza uccidere, semplicemente, tutta l’economia. Per questo magari, signori, vi state illudendo: no, non lo faranno. Non arriveranno al punto di ridurci nella miseria più nera. Si fermeranno, chiederanno all’Europa qualche alleviamento, e l’Europa lo darà... Non possono essere così inesorabili da far morire un popolo, dei popoli, per una concezione sbagliata dell’economia, l’austerità applicata ferocemente in piena depressione mondiale. Non possono essere così ottusi e ostinati. Sono esseri umani. Lasceranno infine la presa, cambieranno dottrina e metodi. Credete? Ho per le mani l’ultimo saggio di Luigi Geninazzi, collega di Avvenire: simpatico poliglotta, conoscitore del russo, polacco e tedesco, ha passato metà della sua vita professionale nell’Est comunista e ne ha visto il crollo. Il suo libro parla appunto di questo: «L’Atlantide Rossa – La fine del comunismo in Europa» (Ed. Lindau, 19 euro) , un inabissamento apocalittico, di cui è stato testimone oculare. Ebbene: nel suo libro ho trovato un’eco di quello che sarà il nostro futuro. Ecco per esempio un regime che pagò il suo debito fino all’ultimo dollaro, come era ed è prescritto dall’ortodossia economica. Lascio la parola a Geninazzi:
«... La situazione comincia a peggiorare nel 1980 quando Ceauşescu, con un’impennata di orgoglio tipica di tutti i tiranni, decide di ripianare il debito estero di cui si era gravato nella sua dissennata politica d’industrializzazione per trasformare a tappe forzate un Paese arcaico e contadino. Negli anni precedenti per inseguire un miracolo economico illusorio la Romania si era indebitata per oltre 10 miliardi di dollari, un fardello insostenibile che il dittatore intende scrollarsi di dosso. Per prima cosa rinuncia ai prestiti del Fondo Monetario Internazionale. Quindi rimpingua le casse dello Stato aumentando a dismisura l’export: quasi tutto quel che esce dalle fabbriche e viene coltivato nei campi della Romania prende la strada dell’estero. Nel 1987, con la valuta incassata dalle esportazioni, il debito si è già dimezzato, ridotto a poco più di 5 miliardi. Un successo esaltato dalla propaganda di regime che nasconde l’altissimo prezzo di questa follia».
Quale sia il prezzo, Geninazzi lo ritrova nei suoi taccuini dell’epoca:
«Bucarest, maggio 1987. Sono sconvolto dallo spettacolo straziante di un popolo affamato e terrorizzato. Manca il cibo nella Romania di Nicolae Ceauşescu, il dittatore che si fa chiamare «il Titano dei Balcani», forse perché ha imposto a 23 milioni di cittadini uno sforzo immane di austerità e disciplina che s’accompagna alla mancanza di libertà. Tutto è razionato, anche i prodotti di base come pane, burro, olio, farina e zucchero, che comunque sono spesso introvabili. Perfino le patate si vendono a pezzi singoli, le uova sono un lusso, ed il latte in polvere, quando c’è, viene distribuito solo in farmacia dietro presentazione di ricetta medica. «Per fortuna c’è mia suocera che, essendo in pensione, può passare la maggior parte della giornata facendo la coda ai negozi per raccattare qualcosa» dice Corina (l’interprete del giornalista, ndr). Deve alzarsi all’alba per mettersi in fila insieme a tanti anziani infreddoliti, tutti lì con lo sguardo fisso nel vuoto ed una borsa di plastica che sperano di riempire prima di sera con qualunque cosa, fosse anche un etto di interiora di porco da cui ricavare una trippa maleodorante. Chi ha la fortuna di possedere una vecchia Dacia, l’auto prodotta in Romania, è costretto a fare lunghe code ai distributori e in ogni caso può rifornirsi di soli 30 litri di benzina al mese. Il mezzo di trasporto più diffuso, anche in città, resta il carro trainato da un cavallo. Il che spiega la gran quantità di sterco per le strade, l’unico prodotto in abbondanza nel socialismo dei Carpazi. La ressa davanti ai negozi è spaventosa. All’ingresso del Magazinul Victoria, il più grande di Bucarest, c’è una fila di centinaia di persone la cui unica speranza è di trovare una maglia di lana o un paio di scarpe di plastica. Sul viale Bălcescu fronte ad un negozio di alimentari, noto tante giovani mamme col bimbo in braccio così da poter comprare una doppia razione».
La Romania, si ricordi, è un Paese petrolifero. Eppure:
«Anche l’energia è razionata. Nelle case sono consentite lampadine al massimo di 40 watt che diffondono una fioca luce giallastra rendendo l’ambiente ancora più spettrale. L’erogazione di elettricità è limitata a 30 kilowatt al mese per famiglia, un disagio acuito dagli improvvisi e frequenti black-out. Inutile accendere i fornelli prima che sia notte, quando il gas raggiunge una pressione minimamente sufficiente per cucinare. La tv trasmette solo tre ore al giorno, dedicate ad illustrare “i trionfi del socialismo”. D’inverno il riscaldamento non può superare i 12 gradi, sia negli uffici che nelle abitazioni. A Bucarest la gente è costretta a vivere per lunghi mesi senza mai togliersi cappotto, guanti e colbacco. L’acqua calda è un bene prezioso, e me ne rendo conto quando visito la famiglia di Corina. Suo marito si scusa per lo stato d’eccitazione dei bambini. «Si stanno preparando a fare la doccia – spiega con un certo imbarazzo – E’ l’unico momento della settimana in cui abbiamo diritto ad un paio d’ore d’acqua calda. Sono ormai sette anni che viviamo così, lottando col freddo, col buio e con la fame».
Sette anni così. La cosa che più impressiona è come un popolo intero possa giungere a sopportare tanto, a degradare gradino per gradino, perché la discesa verso la miseria è graduale. Impressiona e fa orrore, pensando come anche noi italiani ci siamo adattati, e di quanto siamo scesi dal 2008, inizio della crisi, ad oggi. Eppure, nell’ortodossia economica, la Romania di allora era un successo: aveva dimezzato il debito estero, ripagandolo puntualmente. Accelerando sull’export e puntando sull’austerità interna.
«... La Romania è affamata ma è il primo fornitore di carne dell’Unione Sovietica; il Paese dove manca l’acqua calda è lo stesso che può contare sulle ricchezze naturali di gas e petrolio. Quel che un tempo era uno dei più importanti granai dell’Europa raziona il pane ai suoi cittadini, 300 grammi al giorno per persona. E’ il tragico paradosso dettato da una folle ideologia che sta portando il Paese alla miseria più nera. Dal 1980 il tenore di vita in Romania è diminuito del 25 %. La mortalità infantile è l’8 %, la più alta d’Europa, un dato che in realtà potrebbe essere ancora peggiore in quanto le nascite vengono registrate dopo due o tre settimane. I bimbi prematuri spesso muoiono nelle incubatrici a causa degli improvvisi black-out elettrici. E le persone in età avanzata sono gli ultimi a poter disporre di cure e medicine, anche queste razionate. Emil mi racconta il caso di un suo vicino, un signore anziano che si è sentito male ed è morto perché l’ambulanza non è mai arrivata. “Sembra che per risparmiare benzina non si muovono se il malato ha più di settant’anni”, dice. Nonostante la politica governativa per incentivare la natalità (ogni donna in età fertile deve avere almeno quattro figli e l’interruzione volontaria della gravidanza è punita penalmente), in Romania gli aborti superano le nascite e la speranza di vita si è abbassata con il peggioramento delle condizioni igieniche».
Geninazzi viene invitato a casa della sua interprete, Corina:
«Come la stragrande maggioranza dei rumeni anche lei, insegnante quarantenne che va orgogliosa delle comuni radici latine dei nostri due popoli, in Italia non c’è mai stata. Ai suoi occhi sognanti appare come il Paese delle meraviglie che ha intravisto in fugaci immagini alla tv o in qualche cartolina. Appesa ad una parete della cucina imputridita per l’umidità c’è una pagina con una grande foto che Corina ha strappato da una rivista italiana finita chissà come nelle sue mani. Non è l’immagine di una città d’arte o di un panorama tipico del nostro Belpaese. Macché, si tratta della pubblicità del salame Negronetto! Quelle fette dal vivace colore rosso distese su un tagliere evocano un profumo e un sapore che ai rumeni sono del tutto sconosciuti. Si mangia con la fantasia a casa di Corina».
Sì, anch’io che in quei Paesi sono stato meno volte del collega, ricordo quelle stesse atmosfere desolate dell’Est. A Bucarest, dove fui mandato dopo la morte di Ceausescu, ricordo l’hotel con un solo telefono nella hall, fra pulciosi tendaggi di velluto rosso vestigia di glorie pre-comuniste, dove noi giornalisti facevamo la fila per dettare il nostro pezzo. Ricordo le vetrine delle botteghe alimentari che esponevano solo due cose: pani di burro regalati dalla Comunità Europea, e strane confezioni di qualcosa che, all’esame ravvicinato, si rivelò un preparato per fare «nuvole di drago», quella specie di patatine cinesi che sanno di pesce. Era un prodotto fabbricato in Vietnam del Nord. La gente non sapeva nemmeno cosa fossero e si guardava bene dal comprarle. Anch’io ricordo persone come Corina, persone commoventi per l’ospitalità che ti davano nella miseria e ti invitavano a casa – case piene di libri ma senza caffè – per il piacere di parlare italiano, citavano Dante e Petrarca a memoria, e credevano che io, noi occidentali, fossimo pieni di una cultura di cui erano assetati... Ricordo quegli androni delle case, il grigio-comunista onnipresente, la spazzatura negli angoli che nessuno spazzava perché le scale, dopotutto, non sono «di nessuno». Gli ascensori guasti da anni, le muraglie in cemento sporco. E passi per i falansteri socialisti, distese infinite di grigiore e ruggine. Ma ricordo il centro di Kiev: prospettive di bellissime magioni di un liberty monumentale e fastoso, ornate a mosaici, che testimoniava che l’Ucraina – il granaio del mondo – era stata ricca, abitata da una borghesia più che benestante, europea di gusti, mentalità e modernità, fino al 1917; le magioni fastose e i palazzi dai grandi attici esistono ancora, ma dentro, negli androni, la spazzatura, la trascuratezza, il grigio-comunista, gli ascensori mai più funzionanti da anni, le pareti (anche degli appartamenti) mai più ritinteggiate. Ecco, questo era veramente rivelatore della discesa nella miseria: la mancanza di manutenzione. Quando un’ideologia errata, la quale impone una teoria economica fallace – abolizione della proprietà, socializzazione dei mezzi di produzione – viene imposta a un popolo magari con la polizia politica (o Equitalia), il popolo via via si adatta; lo Stato continua inesorabilmente ad imporre il suo sistema, e gli sembra che «funzioni»; ma la manutenzione viene abbandonata. Non si hanno più i mezzi sovrabbondanti per pagarla, e si pensa sia la cosa di cui si possa fare a meno con minori conseguenze. Fino a quando tutto diventa grigio-sporco, sui lampadari la polvere s’incastra come una tinta nerastra, i tram sono ancora quelli del 1920, le locomotive hanno visto l’Ottobre Rosso, le auto sono disperatamente bisognose di riparazione anzi riprogettazione, le macchine nelle fabbriche sono obsolete, l’aria invernale delle capitali odora di carbone coke come nel 1930.... Eh sì, aggiungiamo: laddove si aprivano scintillanti vetrine sulle belle prospettive, ci sono banchi vuoti, vetri rattoppati col nastro da pacchi; i ristoranti sono chiusi da venti o trent’anni e nessuno ne sente la mancanza, lo storione affumicato non arriva più del resto chi lo chiederebbe? E la splendida cucina dell’Est, quelle tavolate di antipasti dai nomi infiniti che si intravvedono nei libri di Dostojevsky, è ridotta apparentemente a due ingredienti unici, da soldati-contadini: cetrioli in salamoia e inguardabili «kobashize», nome unitario di qualunque tipo di insaccato con dentro carne qualunque – anche, nella Romania di Ceausescu, di carne di topo muschiato allevato per le pellicce da esportare. Ah già, la vodka: razionata, costosa, devastante vizio generale, venduta in botteguzze squallide, uomini che non si conoscono se ne comprano a metà «un quartino» e se lo bevono sotto il nevischio, in attesa del tram che viene dalla Rivoluzione Che poi, se come mi capitò una volta, da Varsavia si esce e si va in una cittadina vicina, si scopre che lì non c’è nemmeno una bettola dove il visitatore possa mangiare un panino e bere una birra; non c’è letteralmente nulla nella piazza principale. Nulla fuori della capitale, la gente mangia in qualche tipo di mensa aziendale (kobashize e cetrioloni e pane militare), il visitatore semplicemente «non è previsto». Ed era spaventoso vedere questa gente così civile, spesso molto colta e appassionata di musica e di bellezza, di letteratura e sapere, in mezzo a questa stracca rovina socialista, non potersi lavare, non conoscere deodoranti , e le ragazze, spasimare per un rossetto da supermercato o un paio di calze di nylon... Signori, temo che questo stia capitando anche a noi. Che non abbiamo nemmeno la cultura e la sete di bellezza dei dissidenti e degli intellettuali dell’Est, dunque siamo privi di una risorsa spirituale essenziale da possedere quando si è nel Lager, o si fa’ una vita da Lager. Voi obietterete: Ceausescu era un folle (1), si faceva chiamare «il Titano dei Balcani» , e alla fine il popolo l’ha rovesciato. Il popolo? Sicuri? In ogni caso, ci sono voluti decenni. E circostanze internazionali irripetibili: Gorbaciv a Mosca, un Papa dell’Est, milioni di dollari dei sindacati americani a Solidarnosc... Voglio dire: è incredibile quanto a lungo un sistema economico palesemente controproducente , che infligge sofferenze ed umiliazioni a interi popoli, può tuttavia durare. Ridò la parola Geninazzi. Stavolta parla della Polonia, Paese che conosce bene (è amico personale di Lech) Walesa):
«... Per i polacchi fare la coda è diventata la cosa più naturale del mondo. Si mettono in fila là dove c’è una fila. Semplicemente, istintivamente, senza neppure chiedersi il motivo. E senza sapere se alla fine si troveranno di fronte all’ennesimo bancone vuoto o se saranno così fortunati da trovare qualcosa. Qualsiasi cosa, perché in una società dove manca tutto anche la merce più insignificante è meglio di niente. «Esco a fare la coda» (kolejka) non è una battuta spiritosa. È semplicemente la condizione naturale di chi vive in un regime socialista. Non c’è voluto molto per scoprire che in Polonia kolejka non è un vocabolo come un altro ma una categoria filosofica, il supremo imperativo di un’esistenza coatta. Peggio ancora: è il marchio di un’umiliazione sociale a cui non puoi sfuggire. Me lo spiegò un giorno il dissidente sovietico Aleksander Zinoviev, l’autore di Cime abissali. “Da noi la coda non è un inconveniente sgradevole e per lo più casuale, come succede da voi in Occidente. È invece uno strumento del potere per mantenere i cittadini in uno stato di sudditanza psicologica e di demoralizzazione costante”».
«La mancanza dei generi alimentari e dei beni di prima necessità ha sempre caratterizzato la vita dei polacchi sotto il regime comunista. Ma tra il 1980 ed il 1981 è diventata un’emergenza sociale vera. Le misure di razionamento che finora riguardavano solo la carne (tre chili e mezzo al mese per persona) sono state introdotte anche per lo zucchero (un chilo a testa), il burro (250 grammi), l’olio, il riso, la farina ed il latte in polvere. Ma anche per ottenere il quantitativo garantito dai kupon, minuscoli biglietti di carta che servono come buoni d’acquisto, bisogna fare lunghe code, non tutte con esito favorevole. Verdura e frutta, ad eccezione di patate e mele, sono introvabili. Le arance sono il regalo più apprezzato così come le banane».
«Quando vado in giro mi si stringe il cuore. Lo spettacolo è desolante: sugli scaffali polverosi dei negozi, illuminati dalla luce biancastra dei neon che sa tanto di ospedale, ci sono soltanto scatole di tè e bottiglie d’aceto. La gente si mette coda fin dalle cinque di mattina, anche durante il lungo e rigido inverno, con i piedi intirizziti dal gelo, le mani a reggere la sporta vuota di tela grezza e la faccia triste seminascosta dal colbacco o avvolta nello scialle. Sono soprattutto pensionati, casalinghe, madri di famiglia in paziente attesa per ore, fino a tarda mattinata, nella speranza di poter rientrare a casa con un litro di latte per i bambini o un po’ di patate per il pranzo. Il triste rito continua tutto il giorno: appena si sparge la voce che in un negozio arriverà della merce si crea una ressa paurosa. Subito viene nominato un capo-coda che si mette all’ingresso e regola le precedenze. È davvero incredibile la pazienza dei polacchi: si dispongono in modo molto ordinato e tranquillo, non ci sono incidenti, tutt’al più qualche mugugno. Non mancano solo gli alimentari ma tutti i prodotti essenziali come sapone, detersivi, fiammiferi, vetri, chiodi. Tutto è un problema, un’incognita, una continua mortificazione».
All’Est, il regime creava quel bisogno, che nega all’uomo anche la dignità:
«Non c’è dettaglio, per quanto piccolo possa essere, che sfugga a questa regola implacabile che domina l’intera vita sociale. “A casa mia manca l’acqua calda da più di una settimana. Oggi non funziona neppure il riscaldamento. Anche l’ascensore si è bloccato. Mentre salgo le scale mi viene il vomito per la puzza dell’immondizia che si è accumulata all’ingresso. Sono andato all’ufficio postale per ritirare un libro spedito dall’estero ma la polizia me l’ha ritirato perché non sono io a decidere quello che posso leggere o studiare. Poi sono passato in farmacia perché il mio bambino ha l’influenza ma non ho trovato né compresse né aspirine. La mia auto è quasi a secco ma al distributore di benzina la coda era lunga un chilometro e così ci ho rinunciato. La moglie mi rimprovera: devi andar lì alle cinque di mattina, prima di recarti al lavoro, la vuoi capire o no? Non ho combinato nulla e mi sento stanco, frustrato, svuotato”. È il racconto di una giornata come tante altre che illustra bene lo squallore della vita quotidiana nella Polonia sovietizzata. Lo sfogo di questo cittadino di Varsavia, amareggiato e depresso, è stato raccolto da un giornale vicino al potere, il settimanale Polityka che l’ha pubblicato nella rubrica delle lettere...»
E adesso sentite anche questo:
«Nel mio Paese la vita è qualcosa di anormale». Urszula, 21 anni, infermiera in un grande ospedale di Varsavia, non sopporta i turni di notte che le fanno perdere sonno, appetito ed amicizie. Così dice. Ma c’è qualcosa che le rode dentro e di cui si vergogna: quando arriva la fine del mese nella busta-paga si trova poche migliaia di złoty, l’equivalente di 50 dollari al cambio ufficiale, in realtà meno di 20 al cambio nero (l’unico vero parametro del valore della moneta nei Paesi socialisti). «Non è uno stipendio, è un’umiliazione», bisbiglia la ragazza scuotendo i lunghi capelli biondi come per cancellare una sensazione sgradevole. Urszula non è un’eccezione, milioni di connazionali guadagnano come lei. (...) C’è un dato che si mantiene pressoché costante fin dagli anni Cinquanta: la quota del reddito che le famiglie polacche spendono in generi di consumo alimentare oscilla tra il 40 ed il 50%. E’ il sintomo di una disfunzione cronica dell’economia che trova sbocco nel mercato nero. Qualche mese prima che scoppiassero gli scioperi dell’estate 1980 il governo aveva stilato un elenco dei generi alimentari introvabili o comunque scarseggianti nei negozi di Stato, una lista lunghissima di 280 prodotti a cominciare dalla carne. Era l’ammissione di una disfatta. Gierek aveva preso il potere nel 1970, dopo la sanguinosa repressione delle proteste operaie a Danzica, promettendo una maggior offerta sul mercato di questo richiestissimo alimento, il grande assente dalla tavola dei polacchi. Dieci anni più tardi la decisione di aumentare il prezzo della carne fino all’80% diede fuoco alle polveri dell’esasperazione popolare e segnò la fine dell’era Gierek. La situazione sarebbe continuata a peggiorare negli anni seguenti: più scarseggiano i beni alimentari e più aumenta il loro prezzo, un circolo vizioso che vede impennarsi l’inflazione ed abbassarsi il livello dei consumi. Nell’estate del 1989, subito prima della svolta democratica, un polacco è costretto a sborsare mediamente il 12% del suo stipendio mensile per un chilo di carne, il 7% per un chilo di prosciutto, il 2% per un chilo di pomodori».
Il 12% dello stipendio per un chilo di carne. Riportato alla situazione italiana, e ammettendo uno stipendio di 1500 euro mensili come media (è molto meno), è come se un chilo di carne costasse 170 euro. Direte: no, noi non ci siamo ancora. No, ancora no; ma aspettate la prossima estrazione di 50 miliardi dalle tasche degli italiani, e l’anno seguente un’altra estrazione di 50, poi un’altra ancora... e il vostro e nostro potere d’acquisto si avvicinerà a quello dell’infermiera Urzsula. E non è che i polacchi non si siano ribellati. Anzi, sotto il comunismo hanno più volte protestato, scioperato, tentato insurrezioni: stroncata regolarmente con repressione e con promesse di miglioramento (idem gli ungheresi e i cechi). Quarant’anni così. Ci sono voluti quattro decenni prima che la protesta potesse coagularsi ed organizzarsi in una alternativa politica reale, fattiva, capace di proporre un cambiamento di prospettive, e potesse coalizzare masse polverizzate, per lo più abituate a quella «reazione individualistica che evita di contestare direttamente il sistema e si affida alla illegalità»... E la liberazione è venuta da una situazione internazionale irripetibile. E non si creda – cercava di farlo credere la propaganda comunista in Italia – che in quei Paesi si stesse male anche prima, anzi di più, sotto il tallone dei capitalisti e dei proprietari terrieri. Balle. Quei Paesi erano favoriti da un’abbondanza naturale. Come ricordò allora a Geninazzi Joseph Tischner, sacerdote e professore noto come il filosofo di Solidarność,
«Al centro della ricca e fertile Europa si trova un Paese nel quale gli scolari vanno a scuola senza i quaderni, nel quale mancano il gesso per scrivere alla lavagna, il carbone per riscaldare le case, lo zucchero, la carne, il burro. Eppure il nostro è un Paese dove i doni della natura sono stati sparsi in modo abbondante. Abbiamo un suolo fertile, giacimenti di carbone, zolfo, rame e una popolazione in maggioranza laboriosa e capace. Come dunque è potuto succedere una cosa come questa?» E’ successo perché «in Polonia il lavoro è ormai privo di senso, ha cessato di essere una creazione per diventare sempre più uno spreco delle materie prime e della fatica degli uomini. La convinzione di lavorare senza senso ha provocato la rottura dei legami fondamentali di comprensione fra gli uomini, fra potere e società, fra cittadino e cittadino».
Là il comunismo è caduto, sono tornati i colori, e se proprio non l’abbondanza, la varietà. Qui, intravvedo già i segni del nostro scadere verso il grigiore che fu il loro, e che loro hanno (troppo presto?) dimenticato. Dite pure che esagero. Ma l’altra sera, andando in auto dalle parti di casa mia, fra saracinesche abbassate per sempre, ho visto una scritta al neon verde. Diceva: «FARMA». Le ultime tre lettere, C, I ed A erano fulminate e spente. Il farmacista ha visto diminuire i suoi introiti di almeno il 20%. Non credo che farà riparare l’insegna. E perché, poi? Dopotutto, si capisce lo stesso.
1) Il regime di Ceausescu era una immane Parentopoli: «Attorno al monarca comunista, si è formata una dinastia avida e corrotta che si è sovrapposta alla struttura del partito. Quella rumena è una dittatura di famiglia dove quaranta delle più importanti cariche del Paese sono occupate da congiunti e parenti. La moglie Elena, elogiata come “madre della patria” e “scienziata eminente” (la propaganda le attribuisce una laurea in ingegneria ed una lunga serie di riconoscimenti accademici), è vice primo ministro e capo del Comitato per l’educazione oltre che membro dell’Ufficio permanente del Comitato politico del partito comunista, cioè il massimo organo del potere. Figli, nipoti, cognati e cugini si spartiscono le altre cariche, formando un clan mafioso che gestisce tutti gli affari di Stato. Poi ci sono i cooptati dall’esterno, funzionari di partito che gareggiano in servilismo e cortigianeria per entrare nella più stretta cerchia del potere. Il satrapo di Bucarest si fida solo dei suoi e ha fatto della cultura del sospetto il cardine di tutto il sistema politico». Ricorda qualcosa?
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