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L’inferno è vuoto? Non credo...
06 Dicembre 2010
Tento una risposta al lettore Wasa, che ha commentato così l’articolo «Una lettura interiore dei tempi ultimi»: «Per risponere al suo dubbio citerò due vecchi aforismi:
“solo la verità rende liberi” sebbene pure “chi capisce patisce”.
Il che significa che la cosa peggiore che si può fare per il prossimo è illuderlo sebbene il contrario non garantirà nulla perchè anche davanti alla verità “molti sono chiamati ma pochi gli eletti”.
Per il resto del suo articolo invece ho parecchi dubbi perchè mi sembra che il cappuccino abbia voluto lì andare con molto “umanitarismo” “al di là del bene e del male”...
Ma bene e male non sono la stessa cosa in quanto essi “operano nel mondo” e cioè salvano e dannano non solo chi li fa ma soprattutto anche chi ne viene investito.
Quindi da un punto di vista religioso la vecchia illusione intellettuale che l'inferno sia vuoto non è possibile.
Se non c'è punizione non c'è giustizia e se non c'è giustizia non c'è verità, e se non c'è verità non c'è nemmeno Dio». D’accordo, caro lettore Wasa. D’accordissimo. Ma non ritengo che padre Andrea aderisca alla teoria dell’inferno vuoto. Anzi al contrario: se ha creato l’Armata Bianca, chiedendo a migliaia di bambini di consacrare la propria vita (e all’estremo, donarla) per ottenere il perdono di tutti i peccatori; se incita a dare la Comunione ai bambini anche molto piccoli «prima che Satana li tenti», vuol dire che è ben cosciente del pericolo estremo e imminente di perdizione eterna che corrono le anime. Specialmente oggi. Proprio per questo, per gli uomini d’oggi così cattivi, occorre ricordare che la misericordia di Dio è incondizionata e senza misura. Oggi infatti l’abbandono generale della spiritualità, l’incredulità e la chiusura nell’aldiquà come orizzonte ultimo, mettono gli uomini nella condizione, assai probabile, di commettere in massa il peccato di Giuda. Se siamo quasi sicuri che Giuda è all’inferno, non è per aver venduto il Cristo, ma per aver disperato del perdono: peccato di superbia, la convinzione che il proprio peccato sia più grande della misericordia del Padre. L’Iscariota era ben cosciente del suo peccato, pieno di vergogna, ne assunse la reponsabilità, ed era dunque già a buon punto; ma non fece il passo ulteriore. Si fosse gettato sotto quella croce a chieder pietà, l’avrebbe trovata (c’è un bellissimo detto musulmano che mi viene in mente: «Mi rifugio in Te contro di Te», contro Te Giudice mi slancio tra le Tue braccia , Misericordioso). L’uomo resta, purtroppo, sempre libero di perdersi. Il fatto che le apparizioni ultime incitino a pregare «per il mondo intero» dicono che però tutto è possibile a Dio, anche salvare il mondo intero; e la piccola orazione consigliata a Fatima, «salva in Cielo tutte le anime, soccorrendo le più bisognose della Tua misericordia», invocano appunto – grazie alla disposizione assoluta del Padre di perdonare, e al sangue dei martiri e dei sofferenti nascosti che offrono le loro vite per chi non lo merita – uno speciale soccorso per questi immeritevoli. Quando? Io credo, in punto di morte, nel misterioso travaglio dell’agonia. E’ allora che milioni di uomini occidentali probabilmente si perdono, se non interviene uno speciale soccorso. Perchè dalla società non verrà. Una intera sapienza sociale e religiosa di aiuto ai morenti, nota al cristianesimo medievale, e sopravvissuta fino a ieri, è andata perduta. Sto leggendo un testo di un tibetano (1), Sogyal Rinpoche (che fuggito dal Tibet negli anni ’50, ha poi ricevuto un’educazione occidentale a Cambridge), il quale si dichiara addirittura scandalizzato dalla privazione di soccorso spirituale in cui sono tenuti da noi i moribondi e i terminali. «In Tibet – scrive – tutti avevano una qualche conoscenza delle verità buddhiste» e dunque una qualche preparazione alla morte, «ciascuno aveva un direttore spirituale». Invece, «dovunque in Occidente mi ha colpito la grande sofferenza mentale, conscia o inconscia, causata dalla paura della morte», e insieme la censura e il silenzio generale su quella fase – che è la più importante della vita, la decisiva, e per giunta quella a cui non ci si sa più esercitare in vita, dunque col pericolo estremo di affrontarla male. I parenti mentono incoraggianti (Ma no, guarirai), e il terminale non può aprirsi con loro, affrontare il discorso, mettere a posto le cose lasciate in sospeso, chiedere e dare perdono, riparare (nei casi più fortunati dove uno ha dei parenti, perchè tanti muoiono soli, come sono vissuti); spesso, mancano le parole per parlare di questo; i medici nei casi migliori han fatto tutto quando hanno prescritto le cure palliative, gli antidolorifici e le flebo, nel caso peggiore aspettano che quel paziente ormai non trattabile defunga, per liberare un letto o strappargli un rene. Così, dice il nostro tibetano, negli ospedali «la gente terminale è terrorizzata di esser gettata via come cosa inutile», e «nel momento di massima vulnerabilità, le persone sono abbandonate senza appoggio e senza conoscenze spirituali». L’aiuto spirituale, insiste, «non è un lusso per pochi. E’ “il” diritto fondamentale di ogni essere umano, come il diritto alla libertà, all’assistenza medica e all’uguaglianza delle opportunità». Già questa protesta del nostro Rinpoche ci fa misurare come siamo lontani da quello spirito: il diritto all’assistenza spirituale non è inserito nelle nostre carte dei diritti fondamentali. Anzi tutto il sistema, pubblicitario, economico e consumistico, la società dello spettacolo in cui ci troviamo immersi, è fatto per distrarci dal pensiero della morte («induce nelle anime l’oblio», direbbe Platone). Anzichè da maestri spirituali, siamo circondati da cattivi maestri. L’educazione che ci impartiscono è tutta un’esaltazione e un invito a sviluppare la propria autonomia (che la tecnologia aumenta fino a un senso di onnipotenza), la propria autosufficienza, la libertà individuale giocata sul registro basso di nè Dio, nè padroni, «sono libero, faccio quello che mi pare, e peggio, il corpo è mio e lo gestisco io. Ora, il morire è precisamente la perdita dell’autonomia che tanto valorizziamo, il far da soli che siamo abituati a fondare sulla buona salute e magari i muscoli palestrati; non possiamo più far niente da soli, siamo dipendenti per le necessità corporee più umilianti. Stiamo inoltre perdendo lavoro, casa, posizione sociale, il conto in banca e quegli oggetti di prestigio in cui avevamo fatto consistere il nostro io. Stiamo perdendo i rapporti umani, amici, figli, parenti. Non abbiamo più potere su niente. Come reagiremo in quelle ore di perdita? Proviamo a rievocare come abbiamo reagito quando teppisti ci hanno sfregiato la carrozzeria della nostra amata auto con un chiodo, quando abbiamo trovato la casa visitata dai ladri e i gioielli e i soldi spariti, o anche solo quando qualcuno ci è passato davanti nella fila allo sportello. Da quei sentimenti, potentemente moltiplicati (la perdita è immensamente più grande), saremo dominati nel trapasso, tanto più che non abbiamo coltivato quell’arte del distacco, del lasciare la presa, raccomandata nei trattati della Buona Morte medievali: ossia più probabilmente odio, rabbia impotente, rifiuto di perdonare, avidità. Anzi, ha scritto l’attuale Dalai Lama, proprio «in punto di morte si genera un forte attaccamento al proprio sè, perchè si teme che stia per passare alla non-esistenza»; e ciò proprio nel momento in cui sarà più importante lasciarlo andare. Ma ben pochi conoscono la preghiera opportuna, il nunc dimittis («ora lascia andare il tuo servo, Signore»), pieno di placata speranza, che pronunciò il vegliardo Simeone al vedere, nel tempio, il Messia Bambino. Al contrario (cito ancora il Dalai Lama) prima del trapasso «gli atteggiamenti con cui si ha una lunga consuetudine in vita prendono il sopravvento e dirigono la rinascita» (2). Lasciando perdere il tema delle rinascite buddhiste (che sarebbero, nella nostra cultura, analoghi a purgatorii), si faccia tesoro dell’insegnamento adesso: perchè gli atteggiamenti con cui si ha abituale consuetudine, sono le abitudini. E aver coltivato per l’intera vita le buone abitudini (che si chiamano, nella fede cristiana, le virtù) o invece le cattive abitudini (i vizii), farà la differenza. E ce l’aveva pur detto qualche vecchio prete... ora però non c’è più tempo per farsi buone abitudini. Guardiamoci da un piatto ottimismo cattolico (spesso è tutto quel che di cattolico ci resta) tipo mi convertirò in punto di morte: sono convinto che il nostro esuberante Salame-premier la pensa così, ma la lunga consuetudine alle escort, alle minorenni, al lusso e ai miliardi non sono esattamente le abitudini che danno prontezza alla conversione finale. Elisabeth Kubler-Ross, la prima a studiare la psicologia dei morenti, ha distinto cinque fasi nei malati terminali che prendono coscienza: rifiuto, rabbia, patteggiamento, depressione e, infine, accettazione. Ma non sono fasi tassative, non si presentano necessariamente in quest’ordine, e alcuni non arrivano mai all’accettazione. E ancora, questi processi si possono dare solo a chi ha una lunga malattia, dunque il tempo (e il tempo di capire ciò che vien negato dal sistema: che la sofferenza ha senso, di espiazione e di offerta, che la sofferenza è grazia e richiamo). Ma penso ai tanti giovani delle stragi del sabato sera: che passano all’istante dalla trista euforia di droga e sesso alla morte, dalla più ridanciana idiozia al momento più serio e grave dell’esistenza, senza preavviso nè preparazione, del tutto dominati dai loro istinti e voglie, in salute fisica e peccato mortale (come si deve dire da cattolici), con l’io inflazionato e l’esaltante senso di onnipotenza (che viene dal guidare la BMW di papi) che si tramutano istantaneamente in perdita dell’io e impotenza assoluta. E molto probabilmente confusione, rabbia, paura: gli atteggiamenti mentali meno consigliabili per morire. C’è davvero da pregare perchè queste anime ricevano un soccorso speciale dalla misericordia, e che per loro si offrano anime buone sconosciute capaci di dar la vita per i nemici e per il mondo intero, fino al punto di prendere su di sè l’espiazione che spetta a queste anime impreparate. E’ quel che spero anche per me, perchè temo che l’inferno sia pieno di miei simili.
1) Sogyal Rinpoche, The Tibetan book of living and dying, Harper, 1992. 2) Faccio questi esempi tratti dal buddhismo perchè, come noto, il lamaismo possiede un metodo certificato per l’aiuto ai morenti e un testo e un rituale di accompagnamento al post-mortem, pubblicato in Occidente col titolo Libro tibetano dei morti, ma che si chiama Bardo Thodol, dove bardo indica il processo di transizione tra la morte e la rinascita (in uno stato, o mondo, che ha affinità coi nostri paradisi, purgatorio e inferno, con la differenza che nessuno stato è eterno: è eterna solo la non-rinascita). Ma questa frase della massima autorità indica che i buddhisti sono ben lungi dall’attribuire al Bardo Thodol i poteri magici di salvazione che gli attribuiscono gli adepti occidentali o l’esoterismo New Age. Senza un allenamento al distacco e la pratica della compassione per tutti gli esseri durante la vita, la lettura del testo da parte di un occidentale non basta certo a soverchiare la forza delle abitudini cattive con cui abbiamo vissuto e che costituiscono la nostra personalità. Nei colloqui con un morente, scrive il nostro Rinpoche, «non aspettatevi troppo da voi stessi, non pretendete di ‘salvare’ con le vostre prediche. Generalmente, le persone muoiono così come hanno vissuto, come sono». E’ quel che si dice nella nostra fede: non è Dio che ti giudica, ma te stesso.
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