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La pseudo-partecipazione
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Lo avevamo anticipato in un nostro articolo di qualche mese fa su questo stesso giornale on line (Disincanto Pomigliano): l’obiettivo vero della strategia di Marchionne è quello di abolire, secondo il modello americano, il contrato collettivo nazionale per tornare alla contrattazione esclusivamente individuale (sul tipo di quella dell’inizio dell’industrializzazione) con la mera mediazione di un sindacato ridotto ad interlocutore di livello esclusivamente aziendale.

Ora, dopo aver firmato a Pomigliano, anche CISL, UIL ed UGL si oppongono a questa prospettiva.

La Fiat ha rotto le trattative in corso a Mirafiori e la CGIL se la ride rimproverando le altre sigle con un ve lavevamo detto noi!.

Ma, in realtà, la colpa delle altre sigle sindacali è solo quella di non aver capito la slealtà della controparte patronale che dietro lo specchio per allodole della partecipazione celava la polpetta avvelenata dell’individualismo contrattuale.

Del resto, vi è una evidente coerenza tra l’abolizione/superamento del contratto collettivo nazionale e l’abolizione/superamento della Stato nazionale. Il parallelismo storico è innegabile. Mentre muore lo Stato nazionale, destrutturato dalla globalizzazione finanziaria dei capitali volatili e dal federalismo transfrontaliero che lo sta sostituendo con le cosiddette macroregioni (sul tipo di quella bavarese-lombarda o Carinzia-Friuli-Veneto o catalana, etc.: glorie della monnettiana Europa delle regioni), ne consegue la rimessa in discussione anche del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro, archiviato come strumento obsoleto di un capitalismo sociale ancora troppo ancorato al XX secolo.

Marchionne rappresenta, nella diatriba in atto, la punta avanzata del processo rivoluzionario inaugurato oltre due secoli fa con la legge Le Chapelier (1791) che aboliva le corporazioni di arti e mestieri ed il compagnonaggio, ossia i proto-sindacati dell’Ancièn Régime.

Invece, i sindacati, compresa la CGIL, rappresentano la conservazione, la reazione.

Capirete perché un vecchio cattolico reazionario (1) come lo scrivente non possa non avere in simpatia i sindacati, anche se sono sulla difensiva, come, storicamente, ha simpatia per gli insorgenti antirivoluzionari di due secoli fa che difendevano, insieme alla Fede cristiana, gli istituiti di vita comunitaria di un tempo, fondati su quella Fede, all’epoca messi in discussione da un luciferino processo, ad un tempo spirituale e storico, che solo oggi sembra trovare la sua conclusione.

Una conclusione che, però, sarà probabilmente anche la sua nemesi (ed i segni già vi sono), nell’abisso nichilista del solipsismo globale.

La sinistra non ha capito questo: non è possibile salvare lo Stato sociale ed il Contratto Nazionale senza prima salvare lo Stato nazionale.

Ma può capire questo una sinistra per la quale parlare di Stato nazionale significa fare apologia del fascismo e che sulla scorta di Marx vede nello Stato una trascendenza egemonica da superare in vista dell’internazionalismo ovvero di ciò che oggi chiamiamo globalizzazione e che il capitalismo ha saputo realizzare molto meglio di essa?

Il dramma epocale, però, riguarda anche noi cattolici, l’area laica socialista non marxista e le residue correnti nazional-sindacali ossia di ispirazione fascista.

Infatti se la CISL, sindacato almeno nominalmente cattolico, la UIL, sindacato di area socialista ma non comunista, e l’UGL, sindacato erede della tradizione sindacalista fascista, hanno prima aperto a Marchionne e, solo ora, si ritraggono, è perché ha giocato su di essi il fascino dell’idea partecipativa che storicamente appartiene alla loro cultura.

Purtroppo, ed è di questo che non vi è stata chiara coscienza da parte di quelle sigle, esiste anche un modo individualista e liberista, e nient’affatto comunitario (o corporativista), di intendere la partecipazione.

Inutile dire, per quanto riguarda noi cattolici, che questo modo liberista di intendere la partecipazione non è esattamente quello che i Pontefici hanno auspicato nelle loro encicliche sociali.

La partecipazione alla gestione ed agli utili aziendali da parte dei lavoratori è l’idea fondamentale che sta, storicamente, alla base del cosiddetto modello renano, il cosiddetto Stato sociale di mercato, nato, non a caso, nella cattolica Baviera(precisamente all’interno dell’esperienza industriale della BMW). Oggi, però, in clima di liberismo globale, la partecipazione, che nella cultura politico-sociale di impronta cattolica, si è, nel corso dello sviluppo storico di tale cultura, posta, in qualche modo, idealmente in linea con gli antichi istituti comunitari premoderni - quasi vedendo in essa una loro re-invenzione moderna - è invece diventata, nelle prospettive dei governi occidentali, solo uno strumento per aumentare la competitività (vedasi, appunto, il caso di Pomigliano e la discussione che ne è nata) anziché come uno strumento, innanzitutto, di convivenza interclassista nell’equità e nella giustizia.

Ora, il punto sta proprio in questo: si è giunti a prospettare soluzioni socio-economiche partecipative in un clima, quello della globalizzazione ossia - abbattuti dalle multinazionali e dalle transnazionali gli Stati nazionali - della competizione mondiale più sfrenata e selvaggia, dove esse diventano funzionali solo all’aumento di produttività, e quindi dei profitti, legando le dinamiche salariali, e quindi i lavoratori, a tali aumenti, laddove, al contrario, quelle culture politico-sociali, alle quali fanno riferimento organizzazioni come CISL, UIL ed UGL, vedevano nella partecipazione uno strumento, etico e politico, di redistribuzione interclassista della ricchezza.

Ma il quadro storico e culturale nel quale quelle culture politico-sociali elaborarono, a loro tempo, le proprie proposte partecipative era, appunto, quello dello Stato nazionale, o della confederazione di Stati nazionali economicamente di pari livello, che garantiva una produttività indirizzata, principalmente, al solo mercato interno (laddove le materie prime erano disponibili - va pur detto - attraverso la depredazione coloniale dell’Africa e dell’Asia) e quindi una società molto più stabile di quella globale attuale, che non a caso un noto sociologo chiama società liquida. Una società, quella dell’ormai superata epoca dello Stato nazionale, caratterizzata anche, certamente, da una certa stratificazione sociale di ceto o di classe nella quale, quelle culture politico sociali, cattoliche, socialiste e fasciste, volevano, realisticamente, introdurre l’olio della partecipazione-redistributiva della ricchezza per ottenere maggior giustizia sociale e per impedire che il conflitto tra le classi distruggesse la comunità nazionale, aprendo la via a soluzioni comuniste e totalitarie. Si trattava, in altri termini, di rifiutare il capitalismo liberista, cinico ed individualista, per poter efficacemente, e non con le chiacchiere ed i buoni sentimenti umanitari di certa borghesia pelosa, battere il comunismo sul suo stesso terreno, superandolo con più ardite soluzioni sociali che sapessero dare risposta alle, per altro giuste, domande di giustizia che esso poneva ma alle quali esso rispondeva additando millenaristiche e totalitarie palingenesi intramondane, spiritualmente e socialmente distruttive quanto i mali capitalistici che, pur giustamente, denunciava.

La questione della partecipazione dei lavora­tori agli utili ed alla gestione delle imprese è un tema non nuovo che ha trovato, in passato, diverse forme di applicazione. La migliore finora sembra essere stata quella, inaugurata nel dopoguerra con la cogestione, nella Germania a guida prima cattolica e poi socialdemocratica. Mediante la Mitbestimmung la Germania è riuscita a diventare, prima della globalizzazione, la nazione dall’economia più solida e dalla tenuta sociale più forte tra quelle europee, riprendendosi una rivincita epocale su Francia ed Inghilterra. Il modello tedesco è stato l’oggetto, messo in contrapposizione a quello individualista angloamericano, di un bel libro degli anni ‘90, Capitalismo contro capitalismo, scritto da Alain Minc, un analista internazionale molto noto all’epoca, nel quale si poneva in evidenza come, finito il comunismo, restavano a fronteggiarsi sullo scenario storico due modelli di capitalismo, quello appunto renano, attento alla coesione sociale, e quello angloamericano, individualista e refrattario ad ogni limitazione.

Alain Minc, pur avendo simpatia per il modello renano, si diceva pessimista sul futuro di tale modello in quanto, a suo giudizio, la globalizzazione, con l’apertura delle frontiere e la volatilizzazione speculativa dei capitali, che così andavano sottraendosi ad ogni costrizione e responsabilizzazione sociale e nazionale, avrebbe messo in crisi il capitalismo sociale alla europea assegnando la vittoria al modello americano che con il suo selvaggio ed egoistico individualismo, appoggiato ad un visione egemonica mossa da pulsioni chiliastiche sia in economia sia nella politica estera, meglio si prestava alle durezze darwiniane imposte dalla mondializzazione economica. Fu, purtroppo, fin troppo, suo e nostro malgrado, buon profeta! In Italia, solo di recente ci si è avvicinati ad una legislazione di tipo partecipativo mediante il recente accordo tra governo, Confindustria e sindacato, nonostante essa fosse prevista sin dal 1948 dagli articoli 39 e 46 della Costituzione vigente. Infatti, pur avendo, come detto, una lunga storia ideale alle sue spalle, l’idea partecipativa  non aveva mai trovato finora in Italia alcuna concreta applicazione.

La Costituzione repubblicana ha ereditato, nonostante l’antifascismo di facciata, l’idea partecipativa anche dall’esperienza fascista, ivi compresa quella della Repubblica Sociale. Benché questa scomoda parentela non fosse affatto ignota ai costituenti del 1948, l’idea partecipativa trovò codificazione costituzionale perché era la stella polare anche del socialismo non marxista della sinistra riformista e del cattolicesimo politico dell’epoca. La storia di quest’ultimo, poi, risaliva, non senza problemi di un certo rilievo, al cattolicesimo sociale ottocentesco nato nell’ambito dell’intransigentismo anti-liberale e si appoggiava sul grande magistero di Leone XIII e di Pio XI, nel quale l’idea partecipativa è ben inquadrata teologicamente. La Dottrina Sociale Cattolica vede nella partecipazione la traduzione politico-sociale dell’aspirazione cristiana alla giustizia fondata su una concezione trascendente della persona umana e sul riconoscimento dell’appartenenza comunitaria naturale di ciascun uomo.

Come dicevamo, nel nostro Paese, solo di recente si è avuto un abbozzo di legislazione intesa a favorire soluzioni partecipative.

A differenza della Germania del dopoguerra, in Italia, nonostante i proclami costituzionali, l’idea partecipativa fu osteggiata e sistematicamente sabotata, laddove si provava ad avviarla, con responsabilità simmetriche, da un ceto imprenditoriale (gli Agnelli, i Pirelli, etc.), culturalmente arretrato e refrattario, chiuso in uno sdegnoso esclusivismo di casta, e da una sinistra dogmaticamente arroccata sui dogmi marx-leninisti-staliniani (incapace pertanto di realismo come invece ne è stata, a suo tempo, capace la socialdemocrazia tedesca) che si limitava, in nome della sacralità della lotta di classe, a fare da puntello dialettico alla chiusura imprenditoriale.

Siamo però giunti a quell’abbozzo, che sembra più in realtà un aborto, dell’idea partecipativa in una fase storica caratterizzata dal declino del Welfare, dall’arretramento dello Stato in economia, dalla caduta dei protezionismi doganali con la conseguente globalizzazione iperconcorrenziale senza regole e freni. In questo quadro storico, la partecipazione di cui ora si parla tanto anche nel nostro Paese altro non è che la partecipazione di tipo liberista, più che di tipo sociale. Un tipo di pseudo-partecipazione che, in pratica, svolge un ruolo del tutto e soltanto favorevole al capitale, tornato, quest’ultimo, al ricatto del prendere o lasciare: ossia o accettazione della moderazione contrattuale oppure delocalizzazione delle aziende.

L’accordo siglato in Italia sotto l’egida di Sacconi si limita a normare a livello di traduzione legislativa diverse tipologie di partecipazione che vanno dai sem­plici obblighi di consultazione, all’istituzione di organismi congiunti, dalla parteci­pazione dei lavoratori agli utili fino ad arrivare alla partecipazione azionaria dei dipendenti e al diritto a sedere con propri rappresentanti nei Consigli di sorveglianza.

L’accordo, però, con la scusa della sussidiarietà, lascia alle parti sociali di scegliere contrattualmente il mo­dello più adatto alla specifica im­presa o al territorio interessato, senza imporre perlomeno principi inderogabili. Si è inteso quindi valorizzare la contratta­zione di secondo livello piuttosto che quella nazionale o di comparto. Il modello Sacconi prevede, è vero, anche la partecipazione a­zionaria, stabilendo che i contratti collettivi o indi­viduali potranno disporre l’accesso privilegiato dei dipendenti al pos­sesso di azioni o quote di capitale. Anche una parte della retribu­zione potrà essere pagata in quote azionarie dopo il raggiungimento di determinati risultati. Ma, in genere, sono favorite forme di presunta partecipazione agli utili attraver­so voci retributive legate al raggiun­gimento di determinati obiettivi, ossia legate al margine operativo lordo.

Si ha, quindi, l’impressione, ed i fatti di Pomigliano e di Mirafiori lo hanno confermato, che più che un’autentica partecipazione agli utili - ossia un prelievo a favore dei lavoratori di una quota di utile netto fermo rimanendo il salario ed i suoi aumenti contrattati su scala nazionale - si stia piuttosto cercando di far passare un sistema di indicizzazione degli aumenti salariali collegati all’aumento di produttività.

Sicché ai lavoratori quel che in precedenza era attribuito per via di contrattazione collettiva, ovvero gli aumenti salariali, viene adesso attribuito in dipendenza di una non meglio definita redditività aziendale (margine lordo aziendale) che però, in quanto tale, non viene commisurata a consuntivo dall’utile netto, una cui quota sarebbe da attribuire ai lavoratori, ma da parametri o tariffe di incremento salariale connessi ad aumenti di prodotto generando così una sorta di scala mobile tra produzione e salario individuale, in una prospettiva che ricorda sotto certi aspetti il lavoro a cottimo.

Questa non è, però, l’autentica partecipazione redistributiva degli utili ed alla gestione, propugnata dalle scuole di pensiero sociale cattoliche, socialiste e fasciste. Qui siamo di fronte alla mera introduzione del salario di produttività. Mentre la partecipazione redistributiva prevede l’attribuzione in aggiunta al salario, contrattualmente stabilito su scala nazionale, di una quota degli utili netti aziendali, quota contrattualmente variabile nel tempo, il salario di produttività è soltanto una parametrazione della remunerazione alla quantità di prodotto ed, in tal senso, esso è la classica carota messa davanti all’asino per farlo correre di più.

Questo tipo di presunta partecipazione realizza un sistema nient’affatto corrispondente ai desiderata sociali e solidaristici delle tre predette scuole politico-sociali, la socialista non marxista, la fascista e la cattolica, ma piuttosto rappresenta una visione liberista ed individualista della partecipazione.

Non a caso questa forma truffaldina di partecipazione, tipica non da oggi delle relazioni industriali statunitensi, è generalmente refrattaria alla co-determinazione ossia alla rappresentanza dei lavoratori nei consigli di amministrazione o in quelli di sorveglianza. Un ministro come Tremonti, che pur ha idee abbastanza chiare sul pericolo della speculazione finanziaria, ha dimostrato di non saper uscire dal limite della propria cultura liberale quando ha affermato che la co-determinazione non può essere ammessa. Probabilmente egli teme sindacati ideologizzati come la FIOM ma non si rende conto che laddove non sono adottati sistemi di partecipazione alla gestione, da commisurare a seconda della grandezza dell’azienda e facendo naturalmente attenzione a non cadere in un assemblearismo inconcludente, si scarica sui lavoratori il rischio imprenditoriale senza, tra l’altro, dare loro anche la giusta possibilità di co-determinare gli indirizzi e le strategie imprenditoriali, dalle quali dipendono il conseguimento degli aumenti salariali connessi con l’aumento di redditività aziendale.

Altrove ebbi modo di scrivere:

«Si deve… evitare di minare il CCNL, con efficacia erga omnes, che è tuttora il principale strumento di difesa del lavoro, in nome della prevalenza su di esso dei contratti territoriali e/o aziendali. La minimizzazione del contratto collettivo nazionale sarebbe un evidente effetto perverso dellattuale état d’esprit favorevole ad un malinteso federalismo, particolaristico, per il quale tutto ciò che è nazionale, anche se di per sé ben può convivere con un equilibrato sistema di autonomie locali, avrebbe sempre ipso facto un valore negativo. Per questa strada infatti dalla minimizzazione del livello nazionale si passerà in breve tempo alla minimizzazione anche dei livelli territoriali e aziendali per lasciare spazio al solo contratto individuale di lavoro tra imprenditore e singolo lavoratore, configurando un ritorno al rapporto di lavoro ottocentesco tra una parte forte e laltra debole che segnerebbe non un aumento della solidarietà ma il trionfo del solipsismo sociale e dellindividualismo economico» (2).

Quando scrivevo queste parole non ancora erano intervenuti Pomigliano e Mirafiori. Tuttavia era già evidente, a chi volesse leggere chiaro, dove si voleva andare a parare in nome di una presunta partecipazione che con quella autentica nulla ha a che fare. Marchionne oggi conferma la nostra, fin troppo facile, previsione.

Forse molti, purtroppo anche tra i cattolici, riterranno il nuovo modello della Fiat come l’approdo definitivo, post-ideologico, delle relazioni industriali. Una sorta di fine della storia nei rapporti tra capitale e lavoro.

Nel 1990, Francis Fukujama, noto analista nippo-americano, poi passato ai neocon ed oggi di nuovo su posizioni liberal moderate, proclamò, in famoso saggio dell’epoca, l’«hegeliana fine della storia» con riferimento «ai secoli di noia che dovremmo attraversare dopo la fine del comunismo e la definitiva vittoria dellOccidente liberale». Nonostante quel proclama, trionfalmente accolto dai media occidentali sulla scorta dell’entusiasmo da Perestrojka e da caduta del muro nel 1989, la storia non solo non è finita ma ha avuto una improvvisa accelerazione, con avvenimenti imprevedibili, dalla Guerra del Golfo all’11 settembre, dalla crisi economica globale all’ascesa delle nuove potenze economiche orientali, dalla guerra usraeliana del 2003 per ridefinire gli assetti medio-orientali alla comparsa di potenze regionali capaci di opporsi ai progetti americani ed israeliani.

Sarà così anche per quanto riguarda la storia delle relazioni industriali e già se ne scorgono alcuni segni.

La fine dello Stato sociale nazionale ha riproposto il fenomeno della pauperizzazione dei ceti medi, che fu caratteristico del processo di industrializzazione nel XIX secolo. Il fantasma del vecchio Marx, che qualcuno troppo presto aveva messo in soffitta, torna così a far capolino dagli archivi della storia. La sua profezia per la quale il capitalismo avrebbe eliminato i ceti medi, proletarizzandoli, ed alla fine posto l’una di fronte all’altra due soli classi sociali, quella maggioritaria del proletariato e quella minoritaria della borghesia, era, forse, troppo semplicistica per la sua epoca e non poteva tenere conto della risposta che venne da destra ai danni del liberismo, quella risposta che portò nel XX secolo allo Stato sociale di mercato, attraverso diverse esperienze sia democratiche sia autoritarie di massa e modernizzatrici come quelle fasciste.

Oggi, però, la globalizzazione sembra ridare fiato a quella profezia, sbagliata su scala nazionale ma forse azzeccata su scala mondiale. Il conflitto di classe, infatti, torna a ripresentarsi in termini di conflitto tra popoli, intrecciato all’artificiale scontro di civiltà che legge, falsamente, quel conflitto come scontro tra fedi (ed ecco perché i cattolici devono tenersi alla larga da tale prospettiva che vuole usare strumentalmente la fede per coprire innominabili interessi geopolitici e geo-economici). Basta guardare al panorama globale che ci circonda per scorgere di nuovo in atto la guerra, per il momento non ancora calda, tra le nazioni plutocratiche dellOccidente e le nazioni proletarie. Sotto questo profilo non è solo Marx a tornare, rivendicando la fondatezza della sua previsione, ma anche Mussolini.

Per un cristiano l’intera prospettiva sopra delineata non può non tingersi di tinte inquietanti.

Il conflitto sociale, che si era riusciti nel secolo scorso a calmierare e comporre con vantaggio di tutti e che la globalizzazione liberista sta riproponendo su scala planetaria, non potrà questa volta essere superato dall’intervento dello Stato, come è stato tra XIX e XX secolo. Per il semplice fatto che non esiste uno Stato Mondiale, mentre già esiste un Mercato Globale. Ma se, nel secolo appena iniziato, le cose dovessero volgersi nel senso di un apocalittico conflitto mondiale tra il ricco Occidente - o meglio tra le élite oligarchiche del mondo occidentale e non certo la generalità della sua popolazione che sarà piuttosto usata come massa di manovra - ed il resto del mondo, allora in tal caso potrebbe diventare assolutamente indispensabile pensare ad uno Stato o ad un Governo Mondiale. Se in forma totalitaria di tipo neo-comunista o neo-populista o se in forma di Welfare mondiale non importa. Probabilmente il terrore o l’esperienza di una qualche distruttiva guerra globale o semi-globale renderà l’umanità docilmente disposta all’accettazione di un Governo Planetario a cooptazione iniziatica e cabalista.

Ma è proprio questa la prospettiva che ogni cristiano non può che temere, se è memore di quell’antica profezia, non umana ossia non pronunciata da un qualche filosofo, che suona così: «Le fu permesso di far guerra contro i santi e di vincerli; le fu dato potere sopra ogni stirpe, popolo, lingua e nazione» (Apocalisse 13,7).

Una profezia che negli ultimi secoli ha mosso la riflessione di molti pensatori cristiani, da Donoso Cortés a Dostoevskij, da Soloviev al Carl Schmitt epimeteo cristiano, da Chesterton a Belloc, che hanno visto negli avvenimenti in atto nei loro tempi altrettanti segni dell’avverarsi, nella storia, del senso profondo ed ultimo di quella profezia.

Diventando, in tal mondo, anche loro profeti. Andate a rileggervi, ad esempio, Il Padrone del mondo (3) di Robert Hugh Benson, anglicano convertitosi, come Newman, al Cattolicesimo, e troverete in questo romanzo scritto nel 1907 passi di sconvolgente attualità.

Luigi Copertino





1) L’auto-definizione è provocatoria: fatta per scandalizzare tutti i moralisti ed i benpensanti di destra come di sinistra.
2) L. Copertino, Partecipazione sì. Ma quale?, in EuropaItalia, anno 3, numeri 21-22, luglio/agosto 2009, pagine 36-37.
3) Confronta R.H. Benson, Il Padrone del mondo, Jaca Book, Milano, 1998.


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