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Coi soldi nostri, la UE aiuta... la Cina
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Un bel mezzo miliardo di euro. A tanto ammonta il prestito super-agevolato che l’eurocrazia, per il tramite della sua Banca Europea d’Investimento, ha accordato al governo cinese: per aiutarla a mitigare il «riscaldamento globale» e a ridurre le emissioni inquinanti (di cui la Cina è il massimo produttore planetario).

Magdalena Alvarez Arza
   Magdalena Alvarez Arza
La notizia ha dell’incredibile, ma è stata resa nota nella mega-conferenza di Cancun sul cambiamento climatico. Qui la vicepresidente della Banca Europea d’Investimento (BEI), Magdalena Alvarez Arza, ha raccontato in conferenza-stampa del mega-prestito agevolato fatto ai cinesi. Aggiungendo che già nel 2007 la Banca aveva versato ai cinesi 500 milioni (per aiutarli a costruire il Terminal 3 dell’aeroporto internazionale di Pechino!), ed altri 118 milioni sono stati assegnati per la ricostruzione dopo il terremoto dello Sichuan. Ben oltre un miliardo di euro al più grosso concorrente delle nostre imprese.

Non che Pechino abbia detto grazie. Anzi, a Cancun ha insistito che i Paesi ricchi (saremmo noi e gli USA) forniscano anche le tecnologie, oltre che aiuti per l’anti-inquinamento ad altri Paesi poveri. Infine, il regime cinese s’è degnato di accettare: l’Europa gli finanzia 15 progetti di sviluppo di energia rinnovabile, biomasse, pale eoliche e captatori di energia solare, con cui conta di ottenere per il 2020 almeno il 15% della sua energia, con gran risparmio dei costi dell’import petrolifero.

Coi soldi nostri, Pechino aprirà tredici zone industriali per sviluppare impianti di energia solare, pagando agli imprenditori che ci si vorranno impiantare fino a metà dell’impianto; altri costi li coprirà con sussidi di 4-6 yuan (50-80 centesimi di euro) per ogni watt di energia pulita generato, essendo notoriamente le fonti pulite meno efficienti del petrolio e carbone. Gli Stati Uniti hanno protestato per questi sussidii, giudicandoli distorsione della concorrenza. Non così gli eurocrati.

I nostri oligarchi a Bruxelles, nel pieno della crisi provocata dalle banche, con alcuni Stati-membri a rischio d’insolvenza (e a cui si fanno pagare, per salvataggi che sono in realtà salvataggi delle banche, interessi esosissimi), e nel cuore di una recessione storica delle società europee, che minaccia di diventare un declino industriale e sociale irreversibile, hanno deciso di far diventare la Cina, il nostro concorrente, più competitiva, efficiente e innovativa; coi soldi nostri le fanno aprire fabbriche avanzate e ricerche che probabilmente porteranno a innovazioni e brevetti cinesi. E quasi sicuramente indurrà ulteriori delocalizzazioni di imprese e posti di lavoro europei in queste nuove aree speciali ad energia rinnovabile da noi pagata e sussidiata. Tutto ciò per disinteressata obbedienza al dogma del riscaldamento globale provocato dall’uomo: questa sì, è fede. (Chine : prêt de 500 millions d’EUR pour des projets liés à l’atténuation des changements climatiques)

Qualche miscredente nella dogmatica globalista, specie se altamente ingenuo, potrebbe magari ritenere che un ente che si chiama Banca Europea d’Investimenti dovrebbe finanziare anzitutto imprese europee, specie nella profonda crisi attuale quando troppi Stati, rovinatisi per salvare le banche private, sono troppo indebitati per cercare altri fondi sui mercati onde stimolare l’economia e innescare il rilancio che continua a mancare (come Bersani rimprovera continuamente a Tremonti). Specie adesso che agli Stati deboli si impone – al contrario delle ricette keynesiane – di tagliare, licenziare, ridurre i salari, e surtassare, per accontentare i mercati, e in definitiva strangolando le economie nazionali con la riduzione dei consumi che segue all’austerità.

L’oligarchia europea risponderà che non ci sono i soldi per il gigantesco rilancio necessario.

E invece i soldi ci sono, e l’ha scoperto il Financial Times spulciando i documenti interni della Commissione Europea: l’oligarchia di Bruxelles nasconde un tesoretto di 347 miliardi di euro. Di che si tratta? Dei fondi strutturali non spesi per il periodo 2007 -2013, al 90% non allocati. L’accumulo di questi fondi non spesi è esso stesso un prodotto della crisi: i fondi strutturali possono essere assegnati esclusivamente agli Stati membri disposti a co-finanziare progetti – principio in teoria giusto: aiutati e la EU ti aiuta – e gli Stati membri in difficoltà, a causa dei tagli ai bilanci, hanno ridotto gli investimenti. (EU growth funds lie idle under red tape)

Il Financial Times ha scoperto che ad accaparrarsi parte dei fondi, che dovrebbero andare a piccole-medie imprese ed aree disagiate, sono state alcune delle più grosse multinazionali (IBM, Coca Cola, Nokia, Siemens) munite dei grandi studi legali necessari per affrontare le complicate pratiche burocratiche richieste dall’eurocrazia per smobilizzare i quattrini. Per lo stesso motivo, una buona cifra (50 milioni) se l’è accaparrato lo staterello fra i più ricchi del mondo, il Lussemburgo. Per lo più i fondi sono dati a pioggia, alle 271 regioni europee, su piccoli progetti insufficienti a innescare lo stimolo. Altre multinazionali hanno usato i sussidi UE per delocalizzare le fabbriche in zone a più basso costo del lavoro. In più di un caso si sospetta che decine di milioni di questi fondi siano finiti in tasca alla mafia e alla ‘ndrangheta. (Europe’s hidden billions: Cohesion for a reason)

347 miliardi sono un grosso capitale, una quindicina di nostre finanziarie, dieci volte il Grand Emprunt, i fondi stanziati dal governo francese per lo stimolo alla sua economia nazionale. Si potrebbero aprire grandi lavori europei per infrastrutture del futuro, e le idee non mancano: il sistema satellitare Galileo (dov’è finito?), autostrade del mare, autostrade informatiche, progetti di ricerca per il risparmio energetico, un balzo in avanti per riconquistare qualche primato nell’elettronica di consumo; progetti per far lavorare laboratori, ricercatori e imprese europee, e magari ridurre le disuguaglianze fra  diversi Stati. Ma c’è l’ostacolo delle regole vigenti, che bloccano l’impiego di questi crediti in modo come al solito automatico.

Ovviamente, si possono cambiare le regole, se c’è la volontà politica. La Commissione, pare, ha aperto consultazioni in proposito. I 27 Stati non si mettono d’accordo, anzi a causa della crisi parecchi preferirebbero ridurre i loro contributi ai fondi strutturali. Evidentemente, i finanziamenti alla Cina non hanno invece suscitato obiezioni.


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