Quanto è «forte» l’euro
02 Giugno 2008
Sento gli economisti e banchieri (Draghi per primo) auto-incensarsi per il «successo dell’euro». Celebrano il decennale della moneta «forte», e se stessi. Si sbrodolano a vicenda per «la stabilità» che ha garantito. Ripetono la balla che l’euro forte «ci sta salvando dai rincari petroliferi» (dimmi, lettore, ti sta salvando? Alla pompa di benzina, il prezzo dovrebbe essere stabile...); si celebrano perchè «controlla l’inflazione».
Vediamo un po’ di cifre vere. L’Inghilterra non è entrata nell’euro, ha mantenuto la sua moneta sovrana, di cui la sua Banca Centrale mantiene il potere di flessibilità dei cambi; rialzi, ribassi del tasso secondo i guai prodotti dalla speculazione: perchè è vero che la Gran Bretagna è oggi nei guai, ma per la sua speculazione finanziaria spropositata come un cancro (la City pesa per il 25% sul PIL britannico), non per la moneta «debole».
I celebratori dell’euro dicono: l’euro ha ingessato i cambi, ma in compenso ha ottenuto la stabilità dei prezzi. E’ vero? Vediamo, in Gran Bretagna a cambi flessibili della sterlina, nel decennio 1998-2008 i prezzi al consumo sono saliti del 18% (1,8% l’anno di inflazione). E nella zona euro?
Dipende: in Germania sono cresciuti come in Gran Bretagna. Ma in Francia l’inflazione decennale è stata del 20%. E in Italia? Del 26%.
Anche a prendere per buone le cifre ufficiali sul tasso d’inflazione dei banchieri (menzognere: 2-3% l’anno), nel «decennio euro» gli italiani hanno perso oltre un quarto del loro potere d’acquisto. Naturalmente abbiamo perso di più, e basta che confrontiamo mentalmente i 1.000 euro di oggi con i due milioni di lire mensili del 1999: erano, allora, un più che decente stipendio.
L’euro ha stimolato le economie europee? Vediamo. L’economia britannica, rimasta fuori dall’euro, con la sua moneta flessibile e svalutabile, nel decennio si è espansa del 28%; nella zona euro, del 20%. Direte: la Germania fa eccezione, è il Paese di grande successo dell’euro. Invece no: nel decennio-euro, l’economia tedesca è cresciuta ancor meno della media europea: 16%. Se oggi ha una ripresa, è dopo anni di recessione, e in seguito a draconianne «riforme» in tagli salariali e previdenziali.
Secondo gli stessi dati ufficiali, della Commissione Europoide, il prodotto interno reale della zona-euro è cresciuto del 1,6% l’anno da quando l’euro è nato. In Danimarca, Svezia e Gran Betagna, rimaste fuori della zona euro benchè membri dell’Unione, la crescita del PIL è stata decisamente superiore: il 2,2% annuo.
La crescita determinata dall’euro è stata persino inferiore a quella registrata nel decennio precedente, 1989-1998, quando ciascuno aveva la sua moneta nazionale: 1,9%. In quel decennio precedente, la produttività del lavoro è cresciuta dell’1,6% annuo; una volta introdotto l’euro, è praticamente dimezzata, ora sta allo 0,8%.
«Non c’è alcun segno che la moneta unica abbia migliorato il dinamismo economico dei suoi membri», scrive Martin Wolff del Financial Times: «l’eurozona è un trionfo come unione monetaria, molto meno come unione economica» (1).
L’euro non ha prodotto nessuna convergenza delle economie reali; anzi, via via che si è apprezzato sul dollaro, ha esacerbato le divergenze. Divergenze nel costo del lavoro (tra Germania e tutti gli altri, Spagna, Grecia e Italia essendo i peggiori); divergenze nell’inflazione (diversa in Germania e in Italia); divergenze nella bilancia dei conti correnti.
Divergenze persino nei tassi d’interesse reali: chi compra un BOT tedesco accetta un frutto minore di chi compra un BOT italiano, nonostante entrambi siano denominati in euro.
L’euro ha prodotto così crisi «asimmetriche»: il tasso uguale per tutti è stato eccessivamente basso per certi Paesi (come l’Irlanda e la Spagna, dove ha alimentato bolle immobiliari: tutti a comprare casa col mutuo), e troppo alto per altri; troppo basso nei Paesi ad alto tasso d’inflazione. Ma come è possibile questa divergenza?
Essa dimostra che nemmeno la moneta è una pura e semplice «quantità». Persino l’euro ha una «qualità» diversa in Germania e in Italia. Ciò è ovvio per chiunque – tranne i burocrati che decidono a tavolino le unioni monetarie – dato che ogni moneta nazionale, coi suoi pregi e difetti, non è che il riflesso complessivo del carattere razionale.
Questo si riflette nel tasso di cambio: non è per caso che il marco valesse mille volte più della lira, ma l’espressione di virtù e discipline che a noi mancano. Ma non è nemmeno un caso che vivessimo tutti meglio, soggettivamente, con la lira: era la «nostra» moneta. Le successive svalutazioni ci consentivano di recuperare competitività. L’inflazione al 12% era, per la gente, meno drammatica della sedicente «stabilità» odierna, anche perchè il debito pubblico – coi BOT al 12%, apparentemente proibitivo – era coperto volontariamente, anzi volentieri, dai risparmiatori italiani, che li compravano in massa.
Vivevamo a nostro agio sotto la nostra moneta, perchè era «nostra». Nostra come la lingua che parliamo dalla nascita; adatta al nostro imperfetto vivere sociale, con i suoi pressapochismi e furbizie, compensati da sporadiche genialità e fantasiosità che i tedeschi non conoscono. Noi tendiamo ad infrangere le regole – il che ha due facce, una bassa quotidiana (farsi raccomandare, passare col rosso, evadere le tasse, parcheggiare in terza fila) ma anche un registro «alto» (Leonardo e Michelangelo infransero molte «regole» nell’arte; un certo tipo di innovazione estetica è una infrazione alle regole, nel Made in Italy).
I tedeschi aderiscono a disciplina e costanza secondo regole; il loro registro basso è la pedanteria da professore universitario; quello alto, la pedanteria sublime di Kant, l’applicazione più intensa ancora alla disciplina in Thomas Mann, la fantasia matematica dei loro grandi musicisti. Non a caso tra il marco e la lira c’era la differenza di «peso» e «qualità» che c’è tra la solidità affidabile e la fatuità leggera. Tra una Weltanschauung e un’arte di arrangiarci; o se volete, il differente «peso» che c’è tra Beethoven e Rossini.
Il che significa che noi, oggi, con l’euro, parliamo una lingua straniera, di cui non conosciamo bene nè la sintassi nè il vocabolario: per questo siamo diventati legnosi economicamente, facciamo fatica ad esprimere la nostra elasticità sub-legale e sopra-legale, ci sentiamo privati di prospettive. Siamo nella situazione dell’immigrato che parla male la lingua, e si sente inferiore, e sospettoso crede che tutti lo deridano per i suoi strafalcioni; mentre quando parla nella sua lingua è capace di spirito, di raffinate allusioni e di sfumature.
Ma l’euro è «forte», fortissimo sul dollaro, è diventato moneta di riserva mondiale, si auto-congratulano i banchieri centrali. E’ vero, ma solo temporaneamente: la banche asiatiche, la Russia e il Medio Oriente petrolifero accumulano euro alla disperata in alternativa al dollaro deliquescente, per parcheggiarlo nelle loro riserve. Con ciò, apprezzano l’euro, il che devasta la nostra competitività. Ma con quali benefici?
Qualunque sia il beneficio, del resto, sta esaurendosi. Gli investitori privati, secondo la BNP Paribas, non si fiondano a investire i loro capitali nell’eurozona; anzi li stanno ritirando a ritmo sempre più accelerato (2). Gli investimenti diretti in fabbriche e aziende europee sono diventati negativi: meno 149 miliardi di euro rispetto all’anno scorso? Come mai?
Perchè l’euro che si rafforza ha reso sempre meno conveniente il costo del lavoro, specialmente nel sud d’Europa (ossia in Italia, Spagna e Grecia).
L’investimento in azioni ed obbligazioni è parimenti fuggitivo: i capitalisti mondiali si sono disfatti di 280 milioni di euro in titoli rispetto all’anno scorso. In tutto, il deflusso di capitali dalla zona euro, in 12 mesi, si calcola in 400 miliardi di euro. Capitali che mancano alle nostre imprese industriali, afflitte da recessione e moneta «forte», due disgrazie congiunte. Naturalmente, la fuga di capitali estreri è accentuata dall’Italia e dalla Grecia; come già detto, chi ha denaro non compra i BOT italiani allo stesso prezzo dei tedeschi, pretende un frutto maggiore, a compenso della nostra minore affidabilità.
«Gli investitori stanno smettendo di trattare la zona euro come fosse tutta Germania, stanno guardando con sospetto ai deficit delle nazioni meridionali», dice Hans Redecker, l’analista valutario di BNP Paribas. In altre parole, riescono a distinguere chi, economicamente, con l’euro sta parlando la propria lingua, e chi parla una lingua straniera, imparata male. Pagheremo un prezzo alto, perchè siamo sotto una moneta straniera.
Il che non significa che ci convenga uscire dall’euro, ecco il problema: i nostri debiti, a cominciare da quello pubblico astronomico, sono denominati in euro, ossia in moneta solida, tedesca. Guadagneremmo in lire leggere come gettoni di plastica, e dovremmo pagare i debiti in marchi tedeschi pesanti come il piombo.
E’ per questo che Martin Wolff - uno del Council on Foreign Relations, uno della Trilateral, un liberista-globalista dogmatico - ha scritto un articolo per dissuadere i suoi connazionali dall’entrare nell’euro. Il suo argomento? Eccolo: «Perchè una nazione si unisca alla zona euro,bisogna che il suo popolo abbia la volontà di affrontarne le conseguenze per sempre, per quanto spiacevoli possano essere a volte» (3).
E’ una frase da incidere nel bronzo. E’ un altro modo di dire che la moneta è tutt’uno con la nazione, la sua storia e il suo carattere, virtù e vizi. Wolff dice ai suoi inglesi: ve la sentite di diventare cittadini tedeschi? Soggetti a una moneta aggrappata pedantescamente alle «regole» fissate una volta per tutte, e disciplinatamente accettate anche quando le «regole» sono palesemente distruttive? Ve la sentite di accettare tutte le conseguenze che accettate in quanto nazione? Di sacrificarvi per una parte d’Europa che non è vostra, di sentire come connazionali tedeschi e italiani e spagnoli e greci, uniti in un comune destino, come una famiglia dove i più fortunati aiutano i più deboli, anche se colpevolmente deboli? E ciò «per sempre»?
A noi, questo discorso chiaro non l’hanno mai fatto. Non ci hanno spiegato che, in fatto di moneta ed economia, saremo stranieri «per sempre». Ringraziate Ciampi, Prodi, Draghi. Senza dimenticare Trichet.
1) Martin Wolff, «
Britain is better off outside the euro», Financial Times, 30 maggio 2008.
2) Ambrose Evans-Pritchard, «
Euro suffering from reserve currency curse as investors pull out», Telegraph, 30 maggio 2008.
3) «
What is right today may be wrong tomorrow. If a country is to join the eurozone,
its people must be willing to cope with the consequences forever,
however unpleasant they may sometimes be».
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