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Abbiamo eletto la fine della nostra storia
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Esiste un ideale collegamento con il mio precedente scritto, in cui dichiaravo di credere nell’impossibile rinascita dell’Italia anche se il suo corpaccione di tenebra aveva eletto la fine della sua storia.
Unita che sia, o divisa in macroterre o macroregioni o in Stati o regni, dopo poco più di sessant’anni, avendo nel frattempo messo all’asta i beni comuni messi in piedi dai nostri padri, oggi possiamo dire che il corpaccione dell’Italia repubblicana ha consegnato all’Ukusaele (Uk = United Kingdom = Inghilterra + USA + Israele), una nazione del calibro della nostra e una magica capitale come Roma.
Della nostra, pare che non si metta più in dubbio il carattere servile, anzi forse abbiamo eletto anche quello del tipico plongeur.
Questa figura è ben diversa da quella del cameriere del grande albergo, giacché perfino quest’ultimo ha una sua dignità che gli impone un preciso atteggiamento mentale: si tratta di quel livello minimo che gli suggerisce di attendere di essere richiesto, per iniziare un’azione di qualunque tipo.
La maggioranza neoeletta, al contrario, non aspetta; offre, prima di essere richiesta, quello che immagina possa essere l’utile dell’Ukusaele.
E’ l’atteggiamento mentale del plongeur, quello che serve i pasti ai camerieri in ambienti riservati all’interno degli stessi ristoranti o alberghi di gran classe e li serve, come si dice, «a prescindere»: ad una data ora, rispettando procedure rigide e secondo una precisa scalettatura.
D’altra parte la mentalità è quella; sufficientemente consolidata - risale al 2001 - suggerì all’allora primo ministro un pensiero tipico del gioco infantile o dell’attività del plongeur: «Sono dalla parte dell’America prima di sapere da che parte sta l’America» (1); oppure «siamo i più americani di tutta Europa» (2).

Il nostro interesse nazionale?
Ma quale volete che sia, se esso cede il posto prima agli interessi privati, poi a quelli internazionali e, forse, a quelli della criminalità organizzata?
Credete forse che sarebbe andato diversamente se avesse vinto il fronte opposto?
Il centrosinistra avrebbe comunque garantito un governo mondialista pronto a «regalare» direttamente alla grande impresa straniera le ultime cose rimasteci.
Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari firmarono nel 2004 (3) un articolo che si occupava dell’instabilità politica provocata da un centrosinistra vittorioso, ma di misura, nelle elezioni. Quell’esiguità di risultati, scrivevano, avrebbe indebolito «… la leadership di Romano Prodi facendo apparire Walter Veltroni come l’unico leader capace di guidare il fronte dei progressisti». In realtà, sembra che questa dichiarazione sia contenuta, chissà dove, all’interno di sei documenti riservati, redatti dal dipartimento di Stato americano fra l’8 ed il 14 giugno del 2004.
Nel frattempo era accaduto che a fine maggio1996, era già partito un’eco rivelatasi fortunata: l’allora direttore dell’Unità avrebbe partecipato ai lavori tenuti dal Gruppo Bilderberg a Toronto, in Canada.

A questo proposito, inviterei Gian Antonio Stella a titolare il suo prossimo e, gli auguriamo, altrettanto fortunato libro, «La Supercasta» oppure la «Casta delle caste», o magari «La madre di tutte le caste».
Scusate, se quella che ha avuto tanta fortuna è la Casta bananiera, potete immaginare quali invidiabili fortune gli porterebbe una Supercasta?
Solo che questa volta il volume dovrebbe avere per oggetto effettivamente una Casta vera: il Gruppo Bilderberg, per esempio, o la Trilateral Commission e così via.
L’evidente mio timore è stato suscitato dal ricordo di alcuni versi di Brecht «Al momento di marciare molti non sanno/che alla loro testa marcia il nemico» (4).
Non vorrei, insomma, che l’italiano, dimenticatosi, dal 1947 ad oggi, di questo retro-pensiero, sia diventato particolarmente vulnerabile,  propenso com’è, ad essere fin troppo accogliente.
La liberazione è finita ed è da tempo cominciata l’occupazione che oggi si arricchisce di ulteriori occupanti.
Come molti hanno saputo, il neo-eletto sindaco, gonfio nell’ampio petto, gittò là: «La prima volta che la bandiera israeliana sventola sul Campidoglio è fatto storico di chiusura di una grande tragedia, un’epopea per il popolo di Israele». (5).
Ma forse siamo alla seconda stagione di Roma città aperta, e non ce lo hanno detto.
D’accordo, lo furono anche Atene, Chieti e Firenze.
Ma allora sarebbe possibile che anche lo statuto che regola le città aperte, stia dormendo di sonni tranquilli nei cassetti delle scrivanie diplomatiche degli occupanti e noi non lo sappiamo.
D’altra parte, non è forse vero che il noto corpaccione di italica tenebra non berciava «americani» o «siamo tutti ebrei», scriveva Blondet (6) e che sorridenti politicanti invocavano Israele in Europa e nella NATO?
E’ curioso (ma mica tanto, forse) notare che per il momento non blateriamo ancora «siamo tutti inglesi».
Forse perché les angles se ne avrebbero a male?

Ciò che importa, comunque, è che noi si sia tutto, tranne che italiani; poi si vedrà.
«Chi vuole ancora governare? Chi obbedire? Ambedue le cose sono troppo fastidiose. Nessun pastore e un sol gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali: chi sente diversamente va da sé al manicomio» (7).
Per il momento, siamo lieti, strizzandoci l’occhio sorridente, di disfarci dello Stato, della Patria, della Nazione dello stesso nome d’Italia, esattamente come non fanno quelli dell’Ukusaele, l’Asse occidentale, che ha rilevato l’Italia e se ne è annesso il territorio: come dire, a titolo di possedimento oltremare?
Di protettorato coloniale?
Il fatto è che quell’Asse è un sodalizio così tanto impresentabile da porre la seguente questione: se può l’immagine così screditata (ma che resta pur sempre un’immagine) di tanto protervo terzetto, nell’era internettiana, assurgere addirittura a concausa della gravissima crisi dell’Occidente.

La posizione unilateralista assunta dall’Ukusaele, infatti, è una posizione arrogantemente posta come non negoziabile nelle strategie, sostanzialmente indifendibile, irreversibilmente deteriorata per l’aggiunta del carico di immagine orribilmente frùsta.
Vi sono cause precise a certe palesi inadeguatezze: quella relativa alle strategie adottate in Medioriente, quella relativa ai rapporti da tenere con gli emergenti colossi sino-indiani e con una Russia riorganizzatasi nelle idee e nelle strategie ed infine quella relativa al crollo del sistema finanziario occidentale di marca anglosassone.
Questa morsa sta sospingendo l’Asse occidentale verso l’estremizzazione delle reazioni che, per tale via, scadono in termini di legittimazione.
Ognuno può immaginare quel che accadrebbe se, al contrario, esse derivassero da scelte politiche di vasto respiro e da equilibri interni ponderati; a meno che… direbbe Blondet - questi non sappiano cose che noi non sappiamo circa i tempi e gli assetti ultimi di cui pure facciamo parte.
A proposito del crollo finanziario dell’Occidente e dell’accanimento terapeutico con il quale ci si immagina di salvare il salvabile (secondo il «teorema del quarantenne», di cui diremo più avanti), vorrei ricordare il fortunato saggio di Michel Albert (8).
Effettivamente fu uno scritto di riferimento, un’opera dalla quale non si poté prescindere, una di quelle che sembrano rispondere al lettore cui urgono domande diffuse rimaste sospese, come  in attesa.

Albert procedette, tappa dopo tappa, per progressivo avvicinamento al problema: due capitalismi di natura diversa fra loro, si fronteggiavano e volevano uno la pelle dell’altro.
Tipizzando: il capitalismo neoamericano (anglosassone) contro quello renano (nippo-germanico).
Il primo «…è fondato sul successo personale e sul profitto di breve periodo. L’altro, ‘renano’, è centrato sulla Germania e ha molte somiglianze con quello del Giappone. Esso valorizza il successo collettivo, il consenso, la preoccupazione per il lungo periodo… quest’ultimo modello… è tuttavia il più equo ed il più efficiente… [assisteremo ad un ] nuovo conflitto ideologico che opporrà non più il capitalismo al comunismo, ma il capitalismo neoamericano al capitalismo renano. Questa sarà una guerra sotterranea, violenta, implacabile ma felpata, addirittura ipocrita, come sono, in una stessa Chiesa, tutte le guerre di parrocchia. Una guerra di fratelli nemici, armati di due modelli scaturiti da uno stesso sistema, portatori di due logiche antagoniste del capitalismo nell’ambito del medesimo liberismo» (9).
A denti stretti Albert dovette ammettere che «il modello meno efficiente ha la meglio» (pagina 205) e che «le operazioni di scalata… somigliano sempre più a un gioco di società lontano dalle realtà economiche e industriali, né più né meno che il Monopoli dei bambini [che oggi gioca nella Borsa di Chicago con le povere vite sospese delle persone mancanti di tutto, nda]… Il capitalismo americano non evoca soltanto il fascino selvaggio delle giungla e della lotta per la sopravvivenza. Ma anche quello dei bei bisogni, del denaro facile, delle fortune improvvise [il teorema del quarantenne, nda], delle ‘success stories’: ed esercita un’attrazione ben maggiore rispetto alla saggia e paziente prosperità del modello renano. L’espressione ‘far fortuna’ non appartiene certo alla tradizione renana
debolezze della sua industria e le disuguaglianze sociali, il capitalismo americano resta una vera e propria star. E’ ‘il’ capitalismo… la cui epopea è instancabilmente raccontata dai media
(pagina 208)… Nonostante le sconfitte subite, i debiti accumulati, le (pagina 209)».

Sono trascorsi circa diciassette anni, abbiamo avuto la prova che il modello meno efficiente ma che «ha la meglio», si è «rivelato» (!), nonostante i molti allarmi, essere quello che sta facendo precipitare l’Occidente assai poco resipiscente, nonostante i tardivi Tremonti nostrani… Bene; nonostante ciò l’Italia continua ad abbracciare sempre più strettamente questo modello, lasciandosi trascinare al fondo da un Ukusaele che morirà ma resterà liberale, liberista e capitalista selvaggio.
Infatti quei Paesi costituiscono i motori immobili delle tre «perversioni» appena citate.
Guardate che la logica non è del tutto peregrina.
Voglio dire che si applicherebbe all’Italia, con molte case di differenza ovviamente, lo stesso tipo di logica che sorregge la tesi di Mearsheimer e Walt (10) e che é pervenuta a conclusioni di tutta evidenza.
E’certamente  vero che il tema sviluppato dai due professori americani contemplava attori e scenari USA, ma credo che si  tratti di una sostanziale gradualità nei tempi di realizzazione del medesimo progetto che potrebbe interessare l’intero Occidente.
E’ senz’altro più urgente tenere in gioco la spropositata potenza USA ma questo non significa che il disegno non riguardi anche i Paesi più deboli, cosa che noi siamo e lo siamo perché a tanto siamo stati ridotti e per mero esperimento!

Ricordo la tesi dei due: il sostegno prestato dagli USA ad Israele era diventato di tale entità e prestato quasi del tutto incondizionatamente da far ritenere che esso non fosse concesso in base ad un piano strategico o in risposta a sollecitazioni morali ma a seguito di pressioni della lobby israeliana americana.
Per questa via il contribuente USA non finanziava politiche che perseguivano l’interesse nazionale ma quello immediato e inequivocabile di Israele che giungeva ad essere contrario a quello americano.
Si è addirittura apprezzato il rischio che, alla distanza, l’entità del sostegno e il suo essere pressappoco incondizionato, si sarebbe potuto ritorcere proprio contro Israele.
Se il criterio è apparso «congruo» per l’interno dei Paesi dell’Ukusaele, a fortiori lo sarà per gli sventurati Paesi che devono accontentarsi del solo onore di essere gratificati dell’«amicizia» dell’Asse.
Oggi agli USA, ma domani potrebbe toccare alla Polonia o, che so, magari, all’Italia o all’Europa intera.
Insomma e secondo disegni imprescrutabili, i popoli occidentali potrebbero essere chiamati ad essere tributari di quei tre Stati che, nonostante versino in condizioni fallimentari, ambiscono al dominio del mondo.
O forse proprio per questo, cioè a causa della rilevanza degli aiuti economici e militari fin qui prestati ma che gli USA cominciano ad aver difficoltà a corrispondere ad Israele, potrebbe affacciarsi la necessità che gli stessi vengano conferiti, oltre che dagli USA anche dagli altri Stati plongeurs.
La logica è la medesima; forse che la NATO (gli USA) non sollecitano da tempo i Paesi membri a maggiori coinvolgimenti in Afganistan?

Si pensi alle conseguenze che scaturiranno dal nostro allontanamento conclamato e, temo, definitivo dal mondo arabo; si pensi alle varie missioni militari ed alla NATO sulla cui funzione gli sbigottiti continuano ad interrogarsi; si pensi al neo «governo» - quello, per intenderci, del «io sto dalla parte dell’America prima di sapere da che parte sta l’America»; quello dell’Israele nell’Unione Europea e nella NATO - e  capirete bene di quali conseguenze l’Europa potrebbe essere chiamata a rispondere.
Occorre aprire un breve inciso che è stato dettato da fatti e non da giudizi di valore, dunque non opinabile.
Attinente alla querelle che vede dibattersi l’esistenza o meno di un complotto, di un Grande Complotto, a me sembra che la questione appena accennata si ponga come elemento decisivo a favore delle tesi di quanti ne accettano l’esistenza.
Se le tesi di Mearsheimer e Walt dovessero risultare corrette, non si potrebbe non accettarne la inevitabile conclusione: il potere delle lobby ebraiche americane sarebbe largamente egemone rispetto a quello detenuto, ad esempio, dal Council on Foreign Relations (CFR), l’organismo che, si dice, detti la politica estera americana.
Infatti si dovrà convenire sul fatto che o il CFR ha sposato le politiche compulsive della lobby o non ha un potere sufficiente per contrastarne l’azione anche se questa arriva a produrre una sovraesposizione della lobby a danno dello stesso sistema di potere mondialista.
In entrambi i casi, salvo errori, le organizzazioni mondialiste sono apparse silenti o conniventi.
Resterebbe il fatto, comunque, che non sembra siano intervenute a difesa dei due americani costretti a pagare a caro prezzo l’amore per la verità ed il gusto della ricerca.

Avviandosi alla conclusione, Mearsheimer e Walt scrivono, a proposito della seconda guerra libanese: «La reazione di Israele era il riflesso di una ‘debolezza del pensiero strategico’ quindi l’amministrazione Bush ha offerto sostegno a una ‘strategia perdente fin dall’inizio’» (11).
Il senso era stato offerto agli autori dalla commissione Winograd che si era espressa in termini di «irrealismo» nei confronti della strategia adottata da Israele.
Per concludere, occorre sottolineare che i due cattedratici non hanno dimenticato la questione della «doppia lealtà».
In sostanza la questione morale è affrontata, anche se solo in forma diffusa.
Tuttavia non mi è sembrato che Mearsheimer e Walt abbiano voluto incrudelire anche perché, e lo si può capire, essendo gli USA un Paese dalla retorica patriottarda piuttosto pronunciata, avrebbero sollevato un ulteriore vespaio se solo avessero posto in dubbio la fedeltà di alcuni «cittadini» USA nei confronti del Paese che li ospitava.

Ma non così da noi, in Italia, dove la questione di una «doppia lealtà» massonica e istituzionale (in passato ne fu sollevata una particolare rilevanza assunta all’interno della pubblica amministrazione), non fu percepita come fattore di rilevante gravità perché irrilevante è l’interesse nazionale, irrilevante il valore della Patria, irrilevante il senso della Nazione.
Tornando alla questione dell’interesse nazionale italiano, l’elezione dell’attuale maggioranza, darà vita, e verrà passata sotto silenzio - in Italia si può fare, - una questione Mearsheimer e Walt. Nell’ottica del «castizzare» di qui e di là, mi sembra più appropriato dire che le votazioni abbiano, forse inconsapevolmente, eletto l’Ukusaele come retro-casta egemone nei confronti dei poteri nazionali che risulterebbero inermi nei confronti della salvaguardia dell’interesse nazionale.
Alcuni segnali sono già arrivati, spediti dalle istituzioni o dal governo, dove ha brillato l’ineffabilità degli Esteri (o dovremmo dire dal nostro dipartimento di Stato?) con lampi di inaudita originalità (un precedente è in Genesi, 56 !!!) e di sfacciata dannosità: ci riferiamo, ad esempio, alla proposta di una «banca europea del grano» avanzata al vertice FAO del 3 giugno 2008.
In verità, a pensarci bene, i sogni del Faraone, che dettero l’abbrivio all’imponente ascesa di Giuseppe, figlio di Giacobbe, somigliano tanto alla «imponderabilità» delle variazioni dei valori scambiati a Chicago.
Mi riferisco al Chicago Board of Trade (CBOT) dove si tratta il prezzo del grano e dei cereali - credetemi, ho dei veri travasi di bile quando penso alla disinvolta autorevolezza attribuita a questo ente che determina la prosperità elementare dei popoli lasciando che si giochino cifre, numeri, autentiche espressioni di scale di valore - «valore» di cui Giacinto Auriti ci ha lasciato la perfetta definizione - e dove si scommette su di esso, al cinico riparo da qualunque considerazione o riferimento che ricordi il contenuto umano di tutta la questione.
Ed il fine è veramente miserabile: oltre quello di lucrare sulla vita e sulla morte di poveri inermi, esiste, ben presente in quelle teste malate, quello di riuscire, da parte degli scommettitori, ad accedere a sontuose pensioni allo scoccare dei loro 40 anni (il teorema del quarantenne).
Quale curioso parallelismo: Freud e Giuseppe sono stati entrambi abilissimi interpretatori di sogni!

Agli altri segnali, si possono aggiungere le esortazioni dell’attuale capo del governo italiano dirette ai Paesi poveri, per i quali, a quanto pare, non vale il principio di precauzione.
Questi dovrebbero utilizzare gli OGM per salvarsi dalla fame!
Ma allora se messieur le president non può non sapere, che altro vogliamo pensare?
Dulcis in fundo aggiungete, se vi pare, la sortita di Cossiga.
Il quadro si arricchirà di nuovi significati.
Il suo disegno di legge (numero 221), si badi, è qualcosa di più di un mero atteggiamento, dichiarazione, o coup de théâtre cui siamo stati abituati.
Si tratta di un documento dotato di formalità giuridica che come tale conserva il valore attraverso il tempo e serve, a mio avviso, a creare un precedente piuttosto che a «rilanciare» una tendenza, come direbbe Blondet (12).
Non credo che Cossiga sia stato preda di sommovimenti emotivi; credo, al contrario, che non sia casuale la contestualità dell’ascesa della nuova maggioranza e l’avanzamento della proposta di legge.
Al centro di numerosi avvenimenti forti, Cossiga è stato protagonista di vistosi cambi di passo.
Credo che lui abbia precisato la «chiave musicale» politica, decisa oltremanica, sul tipo di concerto che dovrà tenersi in Italia nel prossimo medio periodo.

Qualcosa di simile accadde, mi sembra, quando Cossiga avviò la demolizione dello Stato con le «picconate» che furono vibrate dall’interno delle istituzioni, anzi dalla più alta delle istituzioni.
Lo Stato contro se stesso.
L’immagine fu molto eloquente ed infatti accese vaghe speranze popolari e ammantò di legittimità le picconate e l’autore delle stesse (uno Stato che si rivolta contro se stesso e che non procede alla sua riforma per le vie istituzionali previste!!!).
Esse cominciarono nel gennaio del ‘90; Tangentopoli era alle porte e con essa la definitiva crisi dello Stato (picconato) e della politica e dei partiti.
Non mi sembra realistico ipotizzare che picconate (la demolizione dello stato nazionale costituisce un punto di forza sia del progetto mondialista che di quello liberale, nel senso di stato ridotto al minimo) ed eliminazione di un’intera classe dirigente, possano essere stati fenomeni privi di connessione.
Oggi Cossiga, servendosi della formalità  di un atto appropriato, tenta di affermare la presenza massiva di Israele in Italia come se fosse una realtà fondante del nostro Paese: formalmente presente e facilmente visibile nelle istituzioni nazionali, nella società, nella cultura, nelle menti individuali abbondantemente compulsate.
Ancora una volta nella nostra storia, siamo costretti a vivere un Paese lacerato, che sembra porsi contro la propria tradizione ed i propri costumi.

Non è la prima volta che si verifica «l’incompatibilità fra patria e religione, fra Stato e cristianesimo, [esso] è in un certo senso un elemento fondativo della nostra identità collettiva come Stato nazionale» (13).
Intendo subito dire, giacché odo il vociare e le grida di sdegno, che le operazioni fortemente strutturate agìte dalle nostre élite di potere consistenti nel forzare nella gola della società italiana fattori che non sono da questa né reclamati e né le sono congeniali, continuano a ripetersi dettate dalla determinazione di attuare progetti iniziatici a noi sconosciuti piuttosto che dalla realizzazione del  nostro bene comune.
All’italiano medio sono state fatte trangugiare robuste dosi di individualismo, di liberalismo, di feroce anticristianesimo e oggi gli occorrerà trangugiare la presenza ebraico-sionista (di per sé non preoccupante) compulsata come anima seconda dell’itala gente.
Insomma, ha da finire la storiella che noi si continui a prestare la nostra «eccessiva» attenzione (da sempre rivolta) verso il mondo arabo-palestinese, proclama l’ukase.
Che volete che importi che per questa via si producano forti innervazioni di lobby (che mai vorranno integrarsi) nelle nostre classi dirigenti, nella intellettualità partigiana, nelle istituzioni, nella società che diventerà progressivamente ideologica e cinica, affollata di menti acritiche e compulsate.

Si faccia caso: alla realtà appena rappresentata va aggiunta, disciolta dell’acqua sociale una sempre più forte religiosità islamica, chiuse mentalità individualistiche, rabberciate filosoferie liberali, ateismi senz’altro conclamati, protervi e irridenti, impudichi e ignoranti («la religione è un diritto. L’irreligione anche…» assicura tal Comte-Sponville (14) edonismi da «ultimo uomo» altrimenti detto pettegolo o gossip: tutti accomunati da un’unica corrosiva determinazione: pervertire i cuori cattolici, annientare la nostra Chiesa e la nostra fede, porsi frontalmente contro l’ethos della nostra società.
Perdonate, ma mi sovviene un ricordo; sapete come un liberale del calibro di Dahrendorf spiega la globalizzazione?
Dice che essa: «significa centralizzazione. Si tratta di un processo che nello stesso tempo individualizza e centralizza. Agenzie e realizzazioni intermedie (ovvero la società civile in generale) in qualche misura ostacolano la piena globalizzazione» (15).
Insomma, la società civile, solo perché esiste, ostacola.
E quello diceva che quando sentiva parlare di cultura avrebbe voluto mettere mano alla pistola!
Se non fosse tragico, direi che siamo alla solita stucchevole noia: l’élite liberale non solo tende a far regredire lo Stato ma anche a misconoscere la società.
Per questa ragione Bobbio (ma non dimentichiamo la Thatcher, inossidabile boccuccia di rosa) scriveva a proposito dei liberali che in precedenza avevano attaccato il socialismo, e poi il welfar: «Ora viene attaccata la democrazia, puramente e semplicemente. L’insidia è grave…) (16). Che senso ha la democrazia senza società. E poi, senza farla tanto lunga, come si fa a non dire che l’Ukusaele, per ragioni storiche ed ideologiche diverse, è sempre stato un Asse ostile nei confronti dell’Italia e da molto tempo?
Occorre non dimenticare che di esso fanno parte Paesi che hanno un ruolo molto attivo nell’affermare il tentativo titanico di rimodellare il mondo secondo progetti che non rientrano né fra gli interessi della maggior parte delle nazioni della terra né fra quelli specifici dell’Italia. Dichiarazione di Dmitri Medvedev alla Davos Russa del 7 giugno 2008 contro gli USA: «Contro quei Paesi che vogliono proteggere la propria sovranità economica ‘ottenendo il massimo vantaggio per i propri cittadini senza dividere i vantaggi coi vicini. L’egoismo economico è in crescita’
» (17).

Pure il corpaccione di tenebra italiano gioirà nel fornire, servilmente prono, legioni di ascari e divisioni di truppe cammellate.
L’Ukusaele, che abbiamo immaginato come un Asse è, a mio modo di vedere, un patto estremo, forte di segreti progetti, in gran parte sconosciuti alle opinioni pubbliche del mondo; una sorta di via irremeabile imposta all’Occidente per via della comunanza di interessi che si è stabilita fra quei tre Paesi in politica estera, nei sostegni alla loro politica interna, nei destini inconfessabili che hanno stabilito per sé e tentano di prescrivere agli altri.
La loro visione dell’uomo si fonda su un impianto ideologico duale, che potremmo assimilare, generalizzando, al WASP (White Anglo-Saxon Protestant).
Secondo tale visione, l’umanità dovrebbe essere composta, iniziaticamente, da uomini eccellenti (i Wasp) e da ordinari-subumani.
Sto dilatando evidentemente l’accezione corrente di WASP, tuttavia il senso che scorre al suo interno è quello che fa fede: la sintesi può essere agevolmente rintracciata nei British Israel di cui Ugo di Nicola scrisse a suo tempo: «La Gran Bretagna, i dominions, gli Stati Uniti, e i Giudei costituirebbero tutta la razza di Israele a cui spetta di instaurare un governo mondiale chiamato, nel-le Sacre Scritture, il regno di Dio. La dinastia ed il trono d’Inghilterra sarebbero la discendenza ed il trono del re David. Il British Israel è quindi, innanzitutto, un movimento razzista, che ripone ambizioni e mezzi nella potenza politica anglosassone. Il popolo protestante degli Stati Uniti discenderebbe dalla tribù di Manasse, quello protestante inglese da Efraim; nel regno di Dio da essi instaurato gli altri popoli, razze inferiori, potrebbero essere soltanto chiamati a partecipare al regno, perché unicamente alla pura razza ariana anglosassone spetta il dominio del mondo» (18).

Questi scritti forse perdono oggi, per noi italiani, quella patina che potevano avere circa trent’anni fa, quando facevano da apripista, ricchi di riferimenti bibliografici in lingua, ricordi personali vagamente letterari, un po’ misteriosi, che paventavano, come per le gravi malattie che si vorrebbe toccassero ad altri ma non a noi, paventavano accadimenti sì, ma per un giorno di chissà quando. Non è così.
Oggi ci siamo stampati con le nostre ingegnose mani il «passi» per accedere, servilmente, ad un simile onorevole consesso, sottoscrivendo i medesimi misteriosi e dannati progetti.
Tremonti, prima che scoppiasse la crisi del cibo, alluse, in televisione, ad un cibo che sarebbe stato di difficile reperimento.
Ma forse non ci sarà più tempo perche l’Italia veda nascere i suoi Mearsheimer e i Walt.

Alcuni punti per la conclusione:
• il sistema economico-finanziario (anglosassone, giudicato da Albert già nel ‘91, il peggiore) crolla ma la linfa che lo nutre (un succo lattiginoso composto da liberalismo, mercatismo, liberismo elibertismo) viene pompata sempre più vigorosamente nelle menti dei membri del corpaccione italico e resta ai loro occhi perfino «misteriosa»;
l’Italia, diventato possedimento d’oltremare dell’Ukusaele, paga per gli svantaggi insiti in tale status ma non percepisce i vantaggi della sua servile «amicizia»;
• possiamo considerare conclusa la storia millenaria dell’Italia poiché l’interesse nazionale è
diventato indistinto, quasi fosse evaporato, non c’é; un altro primato negativo: siamo il primo Paese al mondo che abbia eletto la sua fine;
• la realtà che ho creduto di definire con il termine Ukusaele, rivoltante neologismo, d’accordo, in
realtà è contenuta con buona approssimazione in una società piuttosto coperta fondata nel 1919 in UK, dal nome, magari suggestivo, visionabile ampiamente in rete di British Israel. Occorre non dimenticare che nel tempo compreso fra la prima e la seconda Guerra Mondiale in UK spuntarono come funghi le società che sarebbero diventate la struttura portante del mondialismo occidentale;
• il «teorema del quarantenne» è quello dell’operatore della Borsa, nel nostro caso di quella di Chicago che per andare in pensione a 40 anni sarebbe capace di azzardare, per lucrare le commissioni, qualunque speculazione, compresa quella giocata con numeri vaganti per le arie (ma che si scaricano su persone che muoiono di fame).

Se nessuna autorità mondiale o nazionale è in grado di chiudere quel bordello chiamato Chicago Board of Trade (CBOT) in cui, folleggiando, si  decreta di somministrare la morte o di risparmiare la vita delle persone, allora l’Occidente può felicemente scomparire.

Giuliano Rodelli



1) Il Corriere della Sera, 24 luglio 2001, pagina 11.
2) Gianluca Luzi, «Berlusconi, show a Wall Street: ho salvato l’Italia dai comunisti», La Repubblica, 25 settembre 2003 pagina 2.
3) Paolo Mastrolilli, Maurizio Molinari, «E gli USA dissero ‘E’ Veltroni il leader futuro’»,
La Stampa 3 luglio2004, pagina 7.
4) Bertold Brecht, «Breviario tedesco»,…
5) Adnkronos, 7 maggio 2008.
6) www.effedieffe.com/interventizeta.php?id=2100&parametro=cultura del 29/6/2007.
7) Friedrich Nietzsche, «Così parlò Zarathustra», (da Prefazione di Zarathustra), Adelphi, 1968, pagina 12.
8) Michel Albert, «Capitalismo contro capitalismo», il Mulino, 1993.
9) Michel Albert, «Capitalismo… cit», pagina  24 e seguenti.
10) J. Mearsheimer e S.M.Walt, «La Israel Lobby», Mondadori, 2007.
11) J. Mearsheimer e S.M.Walt, «La Israel…cit.», pagina 380. Salvo errori la I edizione del libro non contiene il testo delle note che pure sono state numerate nel testo. www.effedieffe.com/content/view/3325/174/
12) www.effedieffe.com/content/view/3325/174/
13) Ernesto Galli della Loggia, «Liberali che non hanno saputo dirsi cristiani», il Mulino numero 349, pagina 859.
14) Corrado Augias, «Perché la morale non ha bisogno di Dio», Il venerdì 6 giugno 2008, pagina 107.
15) Ralf Dahrendorf, «Quadrare il cerchio», Larerza, 1995, pagina 63.
16) Norberto Bobbio, «Liberalismo vecchio e nuovo», «Mondoperaio», 11/81 pagina 93.
17) Leonardo Coen, «Petrolio e mercati, Mosca contro gli USA», La Repubblica, 8 giugno 2008
pagina 9.
18) Ugo Di Nicola, «I movimenti mondialisti nella storia contemporanea», l’Alternativa, 1976.

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