Rallentano i trasporti globali: male per la Cina
07 Luglio 2008
«Vediamo navi in partenza dall’Asia non a pieno carico: è il segno che viviamo un vero rallentamento dell’economia reale»: l’ha detto Jacques Saadé (origine libanese), il capo supremo del colosso francese della navigazione CMA CMG.
Saadè ha ammesso che ha fatto abbassare la velocità di crociera dei suoi cargos da 22 a 19 nodi, per risparmiare sul carburante. «Il costo del carburante costituisce il 60% dei costi di nolo», dice, e si lamenta dell’assurdo prezzo del greggio. «Questo rincaro è artificiale, solo la speculazione può spiegarlo. I governi devono fare qualcosa per mettere un freno». E il rincaro avviene «mentre l’America importa di meno, e così l’Europa».
Anche il Baltic Dry Index, che misura i prezzi per i trasporti navali di carichi secchi (dal carbone ai grani), è calato del 23% in un mese. Questo si ripercuoterà - anzi lo sta già facendo - sul celebrato boom economico cinese
(1). Anzi per tutta l’Asia, dove prodotti e semilavorati passano vorticosamente per nave o treno da un paese all’altro alla caccia di «vantaggi competitivi» anche minimi (e con profitti all’osso), per poi arrivare o tornare di nuovo in Cina per l’assemblaggio finale e l’esportazione allo stupido Occidente.
Il grande gioco globale diventa difficile da sostenere con successo, da quando il costo di trasporto di un container da 40 piedi fra Shanghai e Rotterdam è triplicato. Si aggiunga che da pochi giorni anche i trasporti interni cinesi per ferrovia sono rincarati del 17%.
Peggio: la Cina consuma, per unità di prodotto lordo, cinque volte più energia del Giappone, e tre volte più che gli Stati Uniti. Ciò significa che le sue celebrate industrie esportatrici sono in generale inefficienti, e che la loro «competitività» è tutta basata sullo sfruttamento di manodopera a basso costo, su uno yuan artificialmente sottovalutato, e sul presupposto che i costi dell’energia siano trascurabili, e lo restino all’infinito.
In Cina, lo erano per un semplice motivo: il regime ha sempre «venduto» energia alle fabbriche a prezzi agevolati, con sussidi coperti dalla spesa pubblica. Ora i sussidi vengono tolti, e le imprese subiscono i veri costi energetici, proprio mentre questi aumentano astronomicamente sui mercati mondiali. Un altro modo di dire la stessa cosa è che la Cina ha investito in industrie inefficienti o marginali, sostenendole con sussidi pubblici. Tutte cose che si sapevano, ma oggi sono insostenibili.
Non è certo un caso se la borsa di Shanghai ha perso, da ottobre scorso, il 56%. E che 2.331 fabbriche di scarpe nello Guangdong hanno chiuso i battenti nell’ultimo anno. Anche i salari aumentano, non foss’altro perchè l’inflazione è (ufficialmente) vicina all’8%. Ed oggi, coprire le distanze dell’export globale diventa un costo rilevante per i carichi voluminosi a bassa tecnologia che sono tipici dell’industria cinese, mentre i mercati di sbocco (USA ed Europa) cadono in recessione (o depressione in USA) ed assorbono volumi minori. Lo stesso dicasi per le importazioni cinesi, che sono voluminose e pesanti, e per di più enormemente rincarate: materie prime, carbone, acciaio, minerali metallici e no.
La mostruosa festa olimpica di Pechino rischia di essere il canto del cigno del boom cinese. E del suo modello «capitalista», dove la nomenklatura comunista pretende di gestire dirigisticamente l’economia secondo il vangelo del capitalismo terminale, che è stata l’ultima ad apprendere e di cui è stata esaltata come prima della classe.
Poi, ci sarà stagnazione, sovrapproduzione, arretramento dell’occupazione; e non sono da escludere disordini politico-sociali. Ma già, quelli il regime sa come trattarli. La repressione è il suo miglior asso nella manica.
1) Ambrose Evans Pritchard, «Oil price shock means China is at risk of blowing up», Telegraph, 7 luglio 2008.
Home >
Asia/Africa Back to top
Nessun commento per questo articolo
Aggiungi commento