Nel suo libro monsignor Carli affronta la questione dei rapporti tra Papato ed Episcopato alla luce della Tradizione e della nuova dottrina collegialista, la quale ha preso piede “pastoralmente” nel Vaticano II e dimostra come essa da dottrina estranea alla Tradizione apostolica e al Magistero costante, tradizionale e dogmatico della Chiesa è diventata dottrina comune, anche se non dogmatica, a partire dal 1964.
Certamente l’interruzione del Concilio Vaticano I, che non è stato chiuso, ma si è dovuto fermare dopo un anno di lavori alla sola definizione riguardante il Papato (infallibilità e primato), ha lasciato monco il suo splendido lavoro e, non avendo potuto affrontare la questione dell’istituzione divina dell’Episcopato con tutte le conseguenze, può dare l’impressione di una parzialità in cui si studia la Chiesa solo quanto al Papato.
Ora questi due dogmi sul Papato debbono essere visti come il fondamento sul quale si realizza l’unità della struttura ecclesiale composta di una gerarchia, in cui il Papato non assorbe e soppianta l’Episcopato, ma lo solidifica e ne è il fondamento. La dottrina tradizionale parla, infatti, di un Episcopato monarchico universale o papale e di un Episcopato subordinato locale o diocesano.
Occorre, tuttavia, fare attenzione 1°) a non ridimensionare i due dogmi riguardanti il Papato come fanno i collegialisti, ma 2°) ad armonizzarli con l’istituzione divina dell’Episcopato subordinato, garantito e reso solido dalla “Roccia” del Papato[3].
Il Vescovo diocesano
I Vescovi sono i successori degli Apostoli così come i Papi sono i successori di Pietro, Capo degli Apostoli. Quindi l’Episcopato è, per volere divino, parte essenziale e necessaria della struttura della Chiesa[4].
Anche i Vescovi, nominati dal Papa e riceventi direttamente da lui il potere di giurisdizione e da lui (o dietro suo comando) l’Ordine sacramentale tramite un altro Vescovo, grazie a questi due elementi non solo hanno la pienezza del sacerdozio, ma possono (non debbono necessariamente) partecipare al magistero e al governo della Chiesa, se il Papa lo desidera, sia riunendoli nel Concilio ecumenico sia chiamandoli a pronunciarsi con lui sparsi nelle diocesi di tutto il mondo su questioni di fede e di morale.
La Chiesa di Cristo è universale di diritto divino, ma si concretizza, si attua e si realizza nelle singole diocesi o chiese locali e nei Vescovi che le governano come successori degli Apostoli, altrimenti resterebbe un’astrazione o un’idea di Chiesa virtuale e non una Chiesa visibile, reale, in atto o in concreto[5], come Cristo l’ha voluta e l’ha fondata.
Se l’Episcopato in quanto tale è d’istituzione divina l’organizzazione amministrativa, il numero e l’estensione delle diocesi sono di diritto ecclesiastico.
Chiesa visibile non virtuale
Siccome la Chiesa è visibile si deve realizzare, concretizzare e vedere nel singolo Papa eletto in atto, che, avendo accettato l’elezione, diventa Papa formalmente. Se l’eletto non accetta, resta sino alla rinuncia definitiva “papa materiale o in potenza”[6], non diventa Papa reale e in atto, ma non rimane neppure abitualmente “papa materiale”. Egli permane cardinale (o quel che era prima dell’elezione non accettata) e il collegio dei cardinali deve passare ad una nuova elezione che dia alla Chiesa un Papa reale e in atto, poiché essa in quanto società visibile e non pneumatica non può sussistere su un “papato materiale e virtuale”. In breve la Chiesa ha bisogno di avere un Papa reale e in atto, perché è una società visibile e non pneumatica. Ora il Papa reale e concreto rappresenta l’anello concreto e reale (non virtuale e logico), che congiunge la Sede apostolica a Pietro. Quindi è inimmaginabile concepire la Chiesa di Cristo che si fonda per 60 anni su un “papato virtuale, potenziale o materiale” senza passare ad un Papa formale e in atto. Infatti se nel conclave l’eletto non accetta l’elezione, il collegio cardinalizio deve passare necessariamente all’elezione di un nuovo candidato, che accettandola diventa Papa in carne ed ossa, vero e vivo, in atto e fisicamente.
La Chiesa ha bisogno di un Papa in atto, ma ciò non vuol dire che egli sia sempre e necessariamente un buon Papa, vi sono state epoche della Chiesa (la crisi ariana, il secolo X, lo scisma d’occidente) in cui per decine di anni si son susseguiti Papi non buoni e non di integra dottrina, che hanno favorito l’errore pur senza cadere in eresia formale.
Pro e contro della “Tesi di Cassicìacum”
La Tesi di Cassicìacum (contrariamente al sedevacantismo totale) tenta di salvare l’indefettibilità della Chiesa grazie alla nozione di potenza, che fa da ponte tra il nulla e l’essere in atto perfetto (“papato potenziale / Papato attuale”) e mantiene momentaneamente una gerarchia pontificia ed episcopale solo in potenza ma il suo punto debole è proprio questo: fare costantemente e abitualmente di un’entità virtuale, logica, astratta e non visibile in atto (“papato potenziale o materiale”) il fondamento della Chiesa di Cristo, che è una società visibile, sempre in atto sino alla fine del mondo.
Il Vescovo diocesano
Il Vescovo pure (oltre al Papa per la Chiesa universale) realizza in maniera circoscritta alla sua diocesi le note della Chiesa universale e particolarmente l’Unità del suo clero e dei suoi fedeli 1°) nella stessa fede, insegnando loro ciò che Dio ha rivelato e la Chiesa universale propone a credere e 2°) nella carità tramite la sottomissione al Papa, riconoscendone de iure e de facto il primato di giurisdizione.
In secondo luogo il Vescovo rende concreta nella sua particolare diocesi la Cattolicità della Chiesa, che altrimenti resterebbe in astratto e non sarebbe calata in concreto o in un soggetto reale, perché la Chiesa universale è composta da tante diocesi particolari governate dai loro Vescovi subordinatamente al Papa per diritto divino.
Inoltre il Vescovo introduce e mantiene nella sua diocesi la nota dell’Apostolicità formale in quanto successore degli Apostoli subordinatamente al successore di Pietro. La sola Apostolicità materiale, ossia senza il riconoscimento del primato di giurisdizione del Papa sulla Chiesa universale, non è una vera nota della Chiesa di Cristo, ma è propria delle comunità separate da essa per l’eresia o lo scisma (per esempio, la chiesa detta ortodossa). In breve il Vescovo rappresenta l’anello concreto e reale (non virtuale e logico), che congiunge la diocesi o la sua chiesa locale alla Chiesa apostolica in una catena ininterrotta di Vescovi che discendono da un Apostolo.
Infine per quanto riguarda la Santità, il Vescovo la ottiene e la mantiene alla sua diocesi mediante il sacerdozio locale, il sacrificio della messa, l’amministrazione dei sacramenti, che sono il canale principale della grazia soprannaturale, fonte di ogni santità.
I poteri del Vescovo
Il Vescovo diocesano ha 1°) la pienezza del sacerdozio, coadiuvato dai sacerdoti e dai diaconi nell’esercizio del culto divino nella sua diocesi; 2°) ha il potere di magistero autentico, anche se non infallibile, per insegnare le cose che riguardano la fede e la morale ai suoi diocesani; 3°) ha una vera giurisdizione o potere di governare la sua diocesi, ma essa gli è data direttamente dal Papa[7] e non gli viene direttamente da Dio ex officio o per il fatto di essere consacrato Vescovo. Occorre capire che il Papa e la Chiesa universale non limitano né diminuiscono l’Episcopato e la chiesa locale o la diocesi, ma le connotano come parti situate nel tutto. In breve la suprema potestà del Papa fa risaltare chiaramente il potere episcopale come ricevuto e partecipato da Dio al singolo Vescovo tramite il Pontefice romano stesso.
Per la teologia tradizionale è pacifico che il potere d’Ordine del Vescovo gli viene da Dio, anche se egli è consacrato dal Papa, in forza del rito sacramentale che gli assicura ex opere operato una valida consacrazione episcopale. Invece i poteri di maestro (magistero) e di governatore (giurisdizione) sulla sua diocesi gli derivano immediatamente dal Papa per istituzione divina. Quindi il Vescovo è subordinato e dipendente dal Papa[8].
Invece il Papa, non appena è legittimamente eletto ed accetta l’elezione, riceve un potere di giurisdizione pieno e supremo per diritto divino (cfr. Pio XII, Allocuzione del 5 ottobre 1957).
Distinzione reale e mutua relazione tra Ordine e Giurisdizione
Se il potere d’ordine è realmente distinto da quello di giurisdizione, dice pur sempre una certa relazione ad esso. Per esempio la giurisdizione del Vescovo tende (governando) come il potere dell’ordine (santificando) alla salvezza del suo gregge e in un certo qual modo continua nel mondo e in particolare nella diocesi la Redenzione universale di Cristo operata soprattutto mediante il Sacrificio del Calvario, di cui quello della messa è la riattuazione incruenta. Perciò colui che viene eletto Papa deve avere non solo l’intenzione di accettare la giurisdizione universale e somma, ma anche il potere dell’ordine episcopale (e viceversa).
Il collegialismo pretende che il Vescovo, in virtù della sola consacrazione episcopale e quindi indipendentemente dalla missione canonica datagli dal Papa, riceverebbe una partecipazione alla giurisdizione universale sull’intera Chiesa cattolica. Ora ciò è incompatibile col fatto che il Vaticano I assegna solo al Papa la “pienezza della suprema potestà di giurisdizione nella Chiesa universale” (DB, 1831). Inoltre i Vescovi non aventi giurisdizione non hanno la successione apostolica formale[9]. Infine Pio XII, per contrastare l’errore collegialista che già iniziava a serpeggiare in ambiente ecclesiale, in tre Encicliche ha insegnato che il Vescovo riceve la giurisdizione da Dio tramite il Papa (Mystici Corporis, 1943; Ad Synarum gentes, 1954; Ad Apostolorum Principis Sepulchrum, 1958).
In breve è inconcepibile ammettere una giurisdizione universale e abituale dei Vescovi alla pari del Papa, è inammissibile l’equiparazione tra Episcopato e Papato, come vorrebbero i collegialisti, secondo i quali ogni Vescovo in forza della sola consacrazione episcopale ha il diritto di partecipare, per volontà e istituzione divina, al magistero e alla giurisdizione universale del Papa. Infatti solo se il Papa vuole può farli partecipare pro tempore al suo magistero e alla sua giurisdizione universale sia riunendoli in Concilio ecumenico sia interpellandoli ad esprimersi con lui sparsi nel mondo ognuno nella sua diocesi.
Il Vescovo diocesano, nominato canonicamente dal Papa (missio canonica) e consacrato almeno tre mesi dopo la nomina, entra in rapporto con la sua diocesi e solo dopo entra in rapporto con la Chiesa universale unendo la sua diocesi ad essa mediante la subordinazione a Pietro. Quindi è attraverso la giurisdizione o la nomina canonica che il Vescovo diocesano entra in contatto con la Chiesa universale ed è per la comunione del Vescovo col Pontefice romano che la Chiesa è un solo gregge sotto un solo sommo Pastore (DB, 1827). Il singolo Vescovo, che è direttamente in comunione con il Papa, lo è anche indirettamente coll’intero corpo dei Vescovi il quale è formalmente tale per la subordinazione al primato giurisdizionale del Papa.
Infatti come scrive monsignor Carli “l’elemento costitutivo formale dell’Apostolicità dell’Episcopato non è la consacrazione episcopale, ma la comunione col Papa (DB, 1821)” (op. cit., p. 223). La consacrazione valida si ha anche presso i Vescovi scismatici, che, non avendo la giurisdizione dal Papa di cui non riconoscono il primato, non sono formalmente successori degli Apostoli, ossia hanno solo un’Apostolicità materiale e non formale. Come si perde la formalità dell’Apostolicità sottraendosi colpevolmente alla comunione con Pietro[10], così la si acquista formalmente e la si mantiene in forza della medesima comunione con la Prima Sede.
Il corpo dei Vescovi
I Vescovi, anche se dispersi in tutto il mondo ciascuno nella sua diocesi, non sono entità isolate, ma per volere di Cristo compongono una unità o società morale: la Chiesa gerarchica, che è il corpo dei Vescovi sotto il Romano Pontefice, Vicario di Cristo e capo degli Apostoli. Ogni Vescovo consacrato validamente, se è unito a Pietro riconoscendo il suo primato di giurisdizione, diventa membro del corpo dei Vescovi, di cui il Papa è il capo e con lui e sotto di lui governano, ammaestrano e santificano ognuno la propria diocesi e solo se il Papa vuole partecipano alla sua giurisdizione universale sia riuniti in Concilio ecumenico sia sparsi nel mondo, ma esprimendo la loro opinione su questioni di fede e morale dietro domanda del Papa, che può volere (non “deve”) avvalersi del loro consiglio soprattutto se vuol definire ed obbligare a credere, impegnando così l’infallibilità, ossia ottenendo l’assistenza divina che lo premunisce dall’errore definito e reso obbligatorio, cosa che Dio non può permettere.
Ogni Vescovo è successore concreto di un Apostolo come un anello concreto, fisico, reale e non logico o virtuale di una lunga catena fisica e reale, la quale risale ad uno dei Dodici Apostoli, dei quali il Principe è Pietro. Ciò ci rassicura in quanto l’Episcopato formalmente preso succede, in maniera dogmaticamente certa, per consacrazione episcopale e missione canonica all’Apostolo cui Cristo all’origine della Chiesa affidò, con Pietro e sotto Pietro, la sua Chiesa, che sarebbe durata in questo modo “tutti i giorni sino alla fine del mondo” (Mt., XXVIII, 20).
Si capisce così la necessità, per divina istituzione, dell’Episcopato che fonda e giustifica l’Apostolicità perpetua e sempre attuale, ma non materiale, potenziale o virtuale, della Chiesa di Cristo. L’Episcopato subordinato al Papato è un qualcosa di assolutamente necessario alla Chiesa di Cristo perché Cristo così l’ha voluta e fondata promettendole assistenza e protezione “tutti i giorni sino alla fine del mondo” (Mt., XXVIII, 20), il che presuppone un Episcopato e un Papato formale, attuale, reale, fisico e non materiale, potenziale e logico. Questa è l’unica Apostolicità che ci fa individuare la vera Chiesa di Cristo. Per cui anche oggi e sino alla fine del mondo la Chiesa si regge sulla Roccia di Pietro e sull’Episcopato subordinato a lui.
Corpo o Collegio?
L’espressione più esatta è corpo e non collegio dei Vescovi. Infatti il corpo esprime l’idea di una subordinazione ad un capo, che nel caso della Chiesa di Cristo è Pietro. Il collegio non ha questo significato espresso dalla parola corpo e sottintende solo un primato di onore e non di governo. Infatti il collegio è una persona morale, un sodalizio o un ceto di più persone fisiche, che, su un piede di perfetta parità, eleggono un capo il quale è solo un primus inter pares ed inoltre agiscono sempre collegialmente (cfr. L. Carli, op. cit., p. 232). Invece nel corpo il capo ha un primato di governo e dirige tutti gli altri membri ed organi del corpo e non agisce collegialmente con essi, ma essi agiscono mossi dal capo. Inoltre è essenziale al collegio agire sempre collegialmente sotto la rappresentanza del capo-collegio soltanto come primo tra pari, ossia avente un semplice primato onorifico o di titolo, ma non giuridico né giurisdizionale. Ciò equivale al prendere decisioni tutti assieme o con la partecipazione di tutti, secondo la legge democratica della maggioranza che vince.
Il fatto che questo termine “collegio” sia stato utilizzato da Lumen gentium n. 12 per indicare il “corpo” dei Vescovi è perlomeno un difetto imperdonabile di serietà scientifica, giuridica e teologica che farebbe “pastoralmente” della Chiesa una democrazia, mentre dogmaticamente per divina istituzione è un Episcopato monarchico del Papa con un Episcopato subordinato dei Vescovi diocesani ed in ogni diocesi vi è un solo (mònos) Vescovo e dunque anche qui vi è un Episcopato subordinato al Papa nella Chiesa universale, ma monarchico nella propria diocesi (cfr. L. Carli, op. cit., p. 233).
Quindi la dottrina tradizionale cattolica non insegna che i Vescovi residenziali (diocesani) o titolari (che hanno la consacrazione e il titolo episcopale, ma non una diocesi da governare) in unione col Papa e sotto di lui come loro capo costituiscono iure divino, seu ex ipsius Christi Domini institutione, vel statuente Domino (DB, 1825), un vero “collegio”, che succede al collegio degli Apostoli sotto Pietro e con Pietro nella missione e nei poteri sulla Chiesa universale, dotato in permanenza e costantemente di suprema, piena e immediata potestà di magistero, di governo e di santificazione sull’intera Chiesa e non insegna che tali poteri, si badi bene, il “collegio episcopale” li possiederebbe perché ricevuti direttamente da Cristo con la consacrazione episcopale e non dal Papa tramite missione o nomina canonica. Quindi la Chiesa sarebbe di diritto divino collegiale, democratica e non monarchica, retta da un “con-governo” di Papa e Vescovi. Tuttavia il collegio dei Vescovi potrebbe esercitare i suoi poteri per mezzo del solo Pontefice romano, ma anche in questo caso come rappresentante del collegio e quindi in un’azione collegiale fatta da uno solo, però a nome e come rappresentante di tutti perché egli è sempre il capo del collegio episcopale e anche se sembra agire da solo in realtà lo fa collegialmente (“agere sequitur esse”).
Il problema della collegialità è importantissimo dacché è di natura dogmatica riguardante la costituzione divina della Chiesa e non è una questione disciplinare di diritto ecclesiastico. Con la Collegialità si è portato un attentato allo statutum Domini, attentato che in parte è stato mitigato dalla “nota previa”, ma che ha lasciato l’ambiguità del duplice capo della Chiesa: il Papato e l’Episcopato alla pari quanto al potere giurisdizionale/magisteriale e con un certo primato solo di titolo, nominale e onorifico del Papato (Cfr. L. Carli, op. cit., p. 235)[11].
Il problema attuale, nella crisi che travaglia l’ambiente ecclesiale, è di sapere come Cristo ha voluto e fondato la Chiesa e non quali prospettive siano oggi più utili all’uomo contemporaneo (democratico, pluralista, tollerante per principio e relativista), ma che non quadrano con la volontà di Cristo e contraddicono la definizione del Primato pontificio data dal Vaticano I.
In un prossimo articolo vedremo se l’idea della Collegialità episcopale si trovi realmente nella S. Scrittura neotestamentaria.
d. Curzio Nitoglia
1] Nato a Comacchio in provincia di Ferrara nel 1914, ordinato sacerdote nel 1937, fu eletto Vescovo di Segni nel 1957 a soli 43 anni; rimase a Segni sino al 1973 quando fu nominato Arcivescovo di Gaeta dove morì il 14 aprile 1984.
2] Cfr. E. Ruffini, La Gerarchia della Chiesa negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere di San Paolo, Roma, 1921;
3] Cfr. H. Lattanzi, Quid de Episcoporum “collegialitate” ex Novo Testamento sententiendum sit, in Divinitas, n. 8, 1964, pp. 89-94.
4] Cfr. A. M. Vellico, De episcopis iuxta doctrinam catholicam, Roma, 1937.
5] Per fare un esempio, il concetto universale o astratto “uomo” è un ente logico o di ragione, che come tale non esiste nella realtà; invece nella realtà esiste Marco o il soggetto concreto e individuale, in cui sussiste la natura umana in genere o il concetto universale di uomo. Così la Chiesa, senza un Papa in concreto e senza un Episcopato con Vescovi concreti e reali in carne ed ossa in ogni diocesi, non esiste in re ma solo in mente.
6] Per esempio nel 1903 il card. Giuseppe Sarto fu eletto Papa, ma per due volte rifiutò e solo alla successiva terza elezione si piegò alla volontà di Dio ed accettò l’elezione. In tal caso le prime due volte era “papa solo materialmente”, ma non lo sarebbe restato se il collegio avesse eletto un altro candidato: il card. Sarto sarebbe rimasto cardinale e non sarebbe restato in permanenza “papa materiale”. Invece, avendo accettato la terza elezione, è diventato Papa formale o in atto. Ciò che lascia perplessi nella “Tesi di Cassicìacum” è il fatto che da Paolo VI sino ad oggi vi sia stata una serie ininterrotta di “papi materiali o virtuali”, non reali e in atto, sui quali potrebbe sussistere una “chiesa pneumatica”, ma non la Chiesa gerarchica e visibile di Cristo. Inoltre, se ora si arrivasse all’elezione di un vero Papa in atto, egli non sarebbe il successore di San Pietro perché la catena dell’Apostolicità papale si è rotta con la morte di Paolo VI, il quale da “papa materiale” è diventato un cadavere e da un cadavere non succede un Papa reale o in atto.
7] Il Papa ha una giurisdizione che gli viene direttamente da Dio ed essa è “ordinaria” ossia “ex officio” per il fatto, cioè, di essere Papa, mentre il Vescovo non ha una giurisdizione “ordinaria” o “ex officio” cioè per il fatto di esser consacrato Vescovo, ma ha una giurisdizione “straordinaria” che gli viene dal Papa il quale lo nomina Vescovo e dopo lo consacra tale.
8] Cfr. D. Staffa, De collegiali Episcopatus ratione, in Divinitas, n. 8, 1964, pp. 37-40.
9] Cfr. D. Staffa, De collegiali Episcopatus ratione, in Divinitas, n. 8, 1964, pp. 37-40; H. Betti, De membris Concilii Oecumenici, in Antonianum, n. 37, 1962, pp. 3-16.
10] In casi di estrema necessità si può procedere alla consacrazione episcopale senza la previa concessione di Roma, sottraendosi non colpevolmente alla comunione con Pietro. Per esempio, nell’Urss alcuni Vescovi rinchiusi nei gulag consacravano altri Vescovi senza poter domandare il placet a Roma, così come nella attuale situazione di caos spirituale e dogmatico nell’ambiente ecclesiale un Vescovo, che non vuol cedere alle novità modernistiche, può consacrare altri Vescovi, i quali non sarebbero accetti per la loro integrità di dottrina non infetta di neo-modernismo.
11] Cfr. R. Dulac, La Pensée catholique, 1964, n. 89, pp. 39-48.