A proposito di «sedevacantismo»
Don Curzio Nitoglia
12 Luglio 2008
Non me ne abbiano i miei amici «sedevancatisti» (totali o formali che siano), se qui di seguito inoltro un testo dell’amico don Curzio Nitoglia, sacerdote serio e teologo preparato, che getta luce sul tema scottante e relativo all’ora presente.
La risposta della «sede vacante» resta fragile e si presta addirittura ad una sorta di «protestantizzazione» del cattolicesimo, perché, annullando la validità dell’ordine sacerdotale e la sua continuità, lo relega a mera pratica «spirituale», senza sacramenti e Magistero.
Stefano Maria Chiari
La «Tesi di Cassiciacum» è ancora assolutamente certa?
Avvertenza
Avendo abbandonato - pubblicamente - le conclusioni giuridiche della «Tesi di Cassicìacum»
(7-8 dicembre 2006) per approdare a «Sì sì no no» presso Velletri (7 gennaio 2007), mi sentivo, sin da allora, in dovere di spiegare le ragioni di questo mio mutamento.
Avevo lavorato a questo piccolo scritto da molto tempo e lo porgo qui in «riassunto» come «un’ipotesi di Velletri» (1).
Vi ho riflettuto - informalmente già a partire dalla fine del 2003, (e sin verso la fine del 1990,
le conseguenze pratiche e giuridiche che alcuni «guerardiani» tiravano dalla «Tesi di Cassicìacum», mi preoccupavano e mi ponevano dei dubbi).
Solo nell’agosto 2007 (dopo lunga - forse troppo lunga - ponderazione) ho lasciato, anche formalmente, la «Tesi di Cassiacìacum», alla quale ho aderito per molti anni.
Non avrei voluto pubblicare queste pagine, per non turbare ulteriormente i fedeli, parlando di questioni «tremende» (paragonabili al dogma della «Predestinazione») e che superano le capacità dei non «specialisti» in teologia, (tali argomenti possono essere affrontati «in scuola» e non predicati ai semplici fedeli) (2), ma più fedeli mi hanno consigliato di rendere ragione delle mie decisioni pubblicamente, essendo io un sacerdote e quindi una persona «pubblica», onde evitare ogni equivoco.
Solo con questo intento mi accingo a rendere noto tale scritto, senza nessuna pretesa, né minaccia di apostasia, per chi non è d’accordo, memore (soprattutto per me ed anche per gli altri) delle parole di Dante:
«Or tu chi sei, che vuoi sedere a scranno,
per giudicar da lungi mille miglia
con la veduta corta d’una spanna?»
(Paradiso, XIX, 79-81).
Introduzione: Tre citazioni di padre Guérard
1) «La portata oggettiva della domanda: ‘L’occupante della Sede apostolica è, sì o no, papa materialmente?’, è talmente fuori della nostra portata che concretamente e realmente, la risposta a questa domanda non ha quasi impatto sul comportamento effettivamente possibile del fedele legato alla Tradizione» (Guérard des Lauriers, Sodalitium, numero 13, in, «Il problema dell’autorità», Verrua Savoia, CLS, 2005, pagina 37).
- Se è «fuori la nostra portata», (specialmente da quella di padre Guérard des Laurier) non è evidente.
Se «non ha impatto sul comportamento del fedele», non se ne possono trarre conclusioni pratiche e giuridiche.
Cosa che i «guerardiani», invece fanno «in pratica», reputandola evidente «in teoria» e così oltrepassano e contraddicono padre Guérard stesso.
2) «Una tale perpetuazione (della gerarchia puramente materiale) non è, ex se, impossibile. Essa richiede tuttavia delle consacrazioni episcopali certamente valide. E poiché il nuovo rito è dubbio, gli occupanti (della Sede Apostolica) ben presto non saranno più che delle ‘comparse’ » («Il problema dell’Autorità e dell’episcopato nella Chiesa», Verrua Savoia, CLS, 2005, pagina 37).
- Se Benedetto XVI è una «pura comparsa» non è neppure «papa materialmente o in potenza», onde la «Tesi di Cassicìacum» crolla a favore della «sede totalmente vacante».
Infatti oggi (2008) con Benedetto XVI, il quale non sarebbe validamente vescovo, poiché consacrato con il «sacramentario della Chiesa conciliare», ci troviamo di fronte al «nulla» o alla privazione totale del Papato.
3) «Chi dichiara attualmente: ‘monsignor Wojtyla non è per nulla papa (neanche materialmente)’, deve: o convocare il conclave (!), o mostrare le credenziali che lo costituiscono direttamente e immediatamente Legato di Nostro Signor Gesù Cristo (!)» («Il problema dell’Autorità e dell’episcopato nella Chiesa», Verrua Savoia, CLS, 2005, pagina 37).
- Ora, per padre Guérard Benedetto XVI non sarebbe Papa neppure materialmente, non essendo neanche vescovo, quindi i «tesisti», per essere coerenti con la «Tesi», dovrebbero o eleggere un altro Papa, o dimostrare di essere i vicari o «legati diretti» di Cristo.
Secondo loro tertium non datur.
Onde solo queste tre citazioni di padre Guérad autore della «Tesi» (su cui mi baso sostanzialmente in questo articolo), basterebbero a far capire che «oggi» (2004-2008) sussiste, almeno un «legittimo dubbio» sulla assoluta certezza teorica della «Tesi» per non parlare della pratica giuridico-morale dei «tesisti».
Se mi sbaglio, chiedo lumi ai «tesisti» su questi tre punti che mi pongono dei problemi.
Ed infine Benedetto XVI è ancora «Papa» materialiter o non è più nulla?
Discernimento e buon senso
Sant’ Ignazio da Loyola negli «Esercizi Spirituali» (numero 318) (3) scrive che in tempi di confusione non si deve cambiare proposito di agire, ma restar fermi e fare come prima senza pretendere di vederci chiaro, poiché «nel torbido pesca il demonio».
Quindi nei casi di oscurità, aridità, desolazione, «notti dei sensi e dello spirito», occorre andare avanti come prima, anche senza vedere, anzi ci si deve accontentare di non aver lumi, poiché Dio permette tale oscurità per purificare l’anima dei suoi fedeli, spingendoli ad una maggior fiducia in Lui che non in se stessi e a «sperare contro la speranza», senza vedere nell’inevidenza (quod repugnat).
Anche Santa Teresa d’Avila e San Giovanni della Croce insegnano la stessa dottrina, che è comune in teologia ascetica e mistica.
Ogni eccesso è un difetto
Chi pretende di sapere tutto di tutto e di avere la certezza e l’evidenza di come stiano realmente le cose, erra; specialmente in una situazione di oscurità e di incertezza come l’attuale, che non ha avuto eguali in tutta la storia della Chiesa.
Ogni risposta (anche e specialmente la mia) e «soluzione» o «tentativo» è parziale ed ha le sue ombre e chiaroscuri.
Solo la Chiesa gerarchica potrà dirci la parola definitiva.
Quindi «si non vis errare, noli velle scrutare» (Sant’ Agostino).
La crisi conciliare e postconciliare è un «mistero tremendo», ora il mistero è oltre la ragione umana, la sorpassa ma non è contro essa.
Dunque, «cerchiamo di rendere certa la nostra elezione, mediante le nostre buone opere»
(San Pietro).
Ossia, fare ciò che la Chiesa ha sempre fatto (San Vincenzo da Lerino, «Commonitorium», capitolo III), rifiutare le novità che ci hanno portato a tale stato di confusione dommatica, morale e liturgica.
Non bisogna voler strafare (sostituendosi alla gerarchia), pensando di «vederci chiaro a mezzanotte».
L’ipotesi o la domanda speculativa sull’Autorità è lecita [i documenti del concilio Vaticano II, l’insegnamento «pancristista» di Giovanni Paolo II, il Novus Ordo Missae, pongono seri e reali interrogativi, non si può far finta di nulla e accusare il sedevacantismo di essere il «male assoluto», una specie di «shoah cattolica», mentre i responsabili di tale «catastrofe» religiosa sono stati Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II], ma la suddetta ipotesi teorica, non deve diventare una certezza pratica, mancandole (oggi) l’evidenza, come si evince dalle tre citazioni di padre Guérard su scritte (soprattutto quanto all’esercizio pratico di essa o alle conclusioni giuridico-canoniche che se ne tirano) e specialmente non deve essere predicata ai fedeli con imprudenza, faciloneria e arroganza (4), altrimenti si rischierebbe di gettarli nella disperazione o nella presunzione (Sant’Ignazio da Loyola, «Esercizi Spirituali», «Regole per sentire con la Chiesa», numero 362/365/366/367/368/369).
Sarebbe, invece, opportuno che il fronte cattolico antimodernista fosse sostanzialmente unito
(nel rifiuto delle novità) e accidentalmente (quanto al modo di reagire) separato o distinto, ma non nemico.
Quel che lascia perplessi è l’eccesso di polemica (in cui si tuffano, specialmente via «internet», anche persone a digiuno delle nozioni basilari del catechismo), che rasenta l’odio personale per coloro i quali non seguono strettamente la «Tesi», compresi i «sedevacantisti totali».
Il mistero della «Passione della Chiesa»
Mi sembra che la situazione odierna sia analoga alla Passione di Cristo, in cui «La divinità si nasconde e lascia soffrire la santissima umanità di Gesù» (Sant’Ignazio, Esercizi Spirituali, numero 196).
Già San Tommaso d’Aquino (Adoro Te devote) aveva scritto «In cruce latebat (.) deitas», sulla Croce la divinità di Cristo era nascosta, eclissata, non si vedeva.
Anzi Egli lasciava soffrire crudelissimamente la sua umanità, tanto da essere «più simile ad un verme che ad un uomo» (Isaia).
Padre Luis de la Palma, scrive: «Supera ogni nostra comprensione il fatto che il Figlio sia stato abbandonato» («La Passione del Signore», Milano, Ares, 1996, pagina 192).
Nella Somma Teologica l’Aquinate spiega che «la Divinità miracolosamente permise all’umanità di Cristo di provare angoscia per l’abbandono (apparente) da parte di Dio, pur essendo essa unita ipostaticamente alla Persona divina del Verbo e godendo la visione beatifica. Ciò fu permesso perché attraverso molte tribolazioni occorre entrare nel Regno dei Cieli» (III, q. 45, a. 2, in corpore).
Sempre nella Somma leggiamo «Fu per miracolo che la divinità non ridondava sull’umanità di Cristo» (III, q. 14, a. 1 ad 2um), «affinché potesse compiere il mistero della nostra redenzione soffrendo» (III, q. 54, a. 2, ad 3um).
Gesù Cristo stesso ha richiamato la nostra attenzione su tale mistero quando ha gridato sulla croce: «Dio mio perché mi hai abbandonato?».
La risposta al «perché» non è stata immediata, ci si è dovuti accontentare, durante la Passione, del «fatto».
Così oggi nella Passione della Chiesa si nasconde il suo elemento divino ed appare solo quello umano nella maniera più brutta o «vermiforme».
Questo è un mistero che deriva da quello dell’Unione Ipostatica e dal duplice elemento (divino e umano) della Chiesa (che è Cristo continuato nella storia).
Gesù aveva predetto agli Apostoli questa sua (e loro) eclissi: «Voi tutti vi scandalizzerete per causa mia in questa notte. Poiché sta scritto: Percuoterò il Pastore e il gregge si disperderà» (Giovedì Santo).
Invece Nostro Signore ci esorta assieme agli Apostoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e in Me».
Egli esplicita che: «Vi ho detto queste cose perché non abbiate a scandalizzarvi (.). Quando giungerà la loro ora ricordatevi che ve ne ho parlato».
L’ora della «Sinagoga di satana» (Apoc., II, 9) e del potere infernale è qualcosa di preternaturale, che quasi si tocca con mano oggi, come durante la Passione di Gesù.
«Verrà la loro ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto proprio e mi lascerete solo».
Il Sabato Santo solo Maria Santissima aveva conservato pienamente la fede nella divinità e resurrezione di Cristo.
«Sola, la Madonna attendeva (.). Sola nella sua fede (.) credeva senza il minimo dubbio che Gesù sarebbe risorto (.). Sia gli Apostoli che i discepoli non credevano [pienamente, precisano i teologi, nda] alla Risurrezione (.). Maria ricordò che, l’indomani sarebbe risorto. Ma essi non riuscivano a crederci [perfettamente] (.). Maria era l’unica luce accesa sulla terra (.). Il rifugio dei peccatori che non riuscivano a credere [perfettamente]» (L. De La Palma, «La Passione», pagine 243-246).
Gabriele Roschini («Vita di Maria», Roma, Fides, 1959) scrive che la Maddalena «tentennava» e che le apparizioni fatte agli altri erano ordinate a «corroborare la loro fede» (pagine 276 e 282) poiché «la debolezza della loro fede costituiva la forza della loro testimonianza» (pagina 283) e P. C. Landucci («Maria Santissima nel Vangelo», Roma, Paoline, 1945), parla di «fede debole e barcollante» degli Apostoli, cui Gesù apparve per «rafforzare la loro fede» (pagine 436-437).
Onde non si può affermare che gli Apostoli avessero perso totalmente la fede.
Quando Cristo apparirà ai Dodici dopo la sua resurrezione non li condannerà ma dirà loro «non abbiate paura, sono Io, la pace sia con voi».
Così oggi non dobbiamo presumere di vederci più chiaro degli Apostoli, anche oggi, come allora, i cattolici fedeli si sono dispersi ciascuno per proprio conto.
L’Immacolata Concezione è una sola.
Quando Pietro tagliò l’orecchio ad uno dei soldati che arrestava Gesù, Egli lo riprese dicendo: «Pensi che io non possa pregare il Padre mio che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli. Ma allora come si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?».
Ecco il mistero che sorpassa la ragione umana, senza essere contro essa: il «come», il «perché».
Durante la Passione di Cristo e della Chiesa c’è qualcosa di sovrumano e misterioso che ci sorpassa. Anche oggi Cristo potrebbe mandarci dodici legioni di angeli, ma così deve avvenire.
Il perché ci sfugge, lo possiamo intravedere nel chiaro-oscuro della fede, ma non plus ultra.
Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange spiega che gli Apostoli «proprio nel momento in cui il Maestro loro stava compiendo la redenzione, non videro che il lato umano delle cose» («Gesù che ci redime», Roma, Città Nuova, 1963, pagina 337) e si scandalizzarono, come predetto.
Il grande teologo domenicano continua: «Questo mistero della [passione e] risurrezione continua, in un certo senso, nella Chiesa. Gesù la fa a sua immagine e se permette per essa terribili prove, le concede di risuscitare, in un certo modo, più gloriosa, dopo i colpi mortali che i suoi avversari le infliggono» (Ibidem, pagina 353).
Si noti, i colpi che riceve la Chiesa in tutti i secoli, sono mortali, essa ci sembra morire, ma risorge ogni volta più bella «senza ruga né macchia», basta attendere e non rimpiazzarla con un «manichino» thucista il quale è un «rattoppo peggiore del buco».
Nessuno nega l’esistenza del «buco», ma se si vede dal di dentro il «rattoppo» si capisce che è più sfondato del «buco», una sorta di «bue che dice cornuto all’asino».
Romano Amerio, intervistato da «Sì sì no no» nel 1987 alla domanda su come si potesse uscire dalla crisi (delle variazioni sostanziali nella Chiesa col Concilio Vaticano II), rispose che egli poteva intravedere solo il principio remoto della soluzione: la Divina Provvidenza, quello prossimo lo sorpassava.
Così è anche per me.
Non pretendo di aver pienamente ragione (tenebrae factae sunt), ma non posso permettere che altri vogliano imporre (specialmente a fedeli ingenui che vengono manipolati, terrorizzati e mandati allo sbaraglio, con conseguenze pratiche spesso disastrose, che ho costatato durante venti anni) delle «luci» o soluzioni incerte e conclusioni morali e canoniche, come l’unico rimedio a tanto sfacelo.
Conclusione: con quale «autorità»?
Si definisce, in maniera assolutamente certa, che non vi è più «Governo» in atto e de facto nella Chiesa da quaranta anni e se ne tirano tutte le conclusioni pratiche e canoniche, come aventi «autorità»?
Con quale «autorità» si definisce, con certezza, per fare un esempio, che le sentenze della Sacra Rota sono nulle da quaranta anni (obbligando per sè chi ha ricevuto la sentenza rotale di nullità del matrimonio, a vivere come San Giuseppe e la Madonna, esponendoli a pericolo prossimo di peccato mortale e abituale) e che le confessioni e i matrimoni dei parroci sono invalidi (essendo doveroso in materia sacramentaria il tuziorismo o rigorismo, secondo cui «il dubbio è nullo») da quaranta anni? Che il sacrificio della Messa è invalido e cessato, così il sacerdozio, l’episcopato, onde pure l’estrema unzione e la cresima, (resterebbe solo il battesimo e vi sono alcuni «sedevacantisti» coerentissimi che ricevono e amministrano solo il battesimo, tutto il resto essendo viziato, anche
i sacramenti degli altri «sedevacantisti» non coerentissimi).
Con quale «autorità» ci si presenta come «inviati» (missi) ad «annichilire e annullare» tutti gli atti (anche giuridici) della Chiesa ufficiale?
A proibire persino l’assistenza alla Messa di San Pio V, se celebrata «una cum», sotto pena di sacrilegio, peccato mortale e scisma capitale e terrorizzando i fedeli, i seminaristi e i sacerdoti «deboli di spirito»?
Forse con il «libero esame» della «sola Traditio»?
O forse ci si ritiene (de facto anche se non de jure) «Legati diretti di Cristo»?
Poiché in pratica si agisce così, anche se non lo si formula in teoria.
Le cupe ammonizioni di apostasia irreversibile e di dannazione da parte di «Sodalitium» - per grazia di Dio - non mi sfiorano, ma conosco molti fedeli e seminaristi o persino sacerdoti che si lasciano impaurire dalla minaccia di «fattura», fatwa o herèm, lanciata dai «Sommi Sacerdoti» (almeno de facto) dell’oblatio munda.
Le parole di San Tommaso secondo cui, «generalmente, alla rivolta contro la pubblica ‘cattiva-autorità’ o tirannia, si espongono più i cattivi che i buoni, infatti ai cattivi pesa sia il governo del re che quello del tiranno» (In V Politicorum Aristotelis, lib. V, 1, 1301a).
Mentre «gli uomini virtuosi», i quali dovrebbero giudicare della opportunità e liceità della resistenza e rivolta, difficilmente riconoscono di avere tutte le ragioni per ribellarsi lecitamente, invece
«i cattivi» sono più propensi a prendersi ogni ragione e a rivoltarsi, senza pensare alle conseguenze dei loro atti (In V Politicorum, lect. I, n° 714), sono più calzanti e attuali che mai, in effetti molti criticano non solo la nouvelle théologie, ma anche Pio XII.
Egli sarebbe il Papa (manovrato da Bugnini, come un burattino nelle mani di un burattinaio) che ha realizzato una profonda revisione dei riti della Settimana Santa, in cui per la prima volta un rito cattolico (anteriore alla riforma di Papa Pacelli del 1955) subiva delle modifiche suggerite dal giudaismo, esse avrebbero aperto la porta a qualsiasi cambiamento nella liturgia cattolica.
Onde tutto il processo di disfatta (= Concilio Vaticano II e Novus Ordo Missae) sarebbe iniziato proprio con la riforma liturgica (ecumenica) della Settimana Santa di Pio XII.
La liturgia cattolica sarebbe stata messa a disposizione (da parte di Pio XII) dell’ecumenismo, ed egli sarebbe colpevole di aver fatto (entrare e) comandare il giudaismo nel santuario cattolico.
Pio XII avrebbe compiuto una genuflessione simbolica davanti al giudaismo (confronta, Sodalitium, numero 62, pagine 58-65).
Ora, tutto ciò mi lascia più che perplesso, anzi terrorizzato da tanto «cow-boy-smo teologico».
Infatti, il fine della Chiesa è la salvezza delle anime.
Ora se l’Autorità non realizza il bene delle anime, secondo la «Tesi», cessa di essere autorità.
Quindi Pio XII, che ha aperto al giudaismo (e lo ha fatto entrare nel santuario), all’ecumenismo, alla mutazione perpetua della liturgia; non voleva oggettivamente, a partire dall’atto che ha posto nel 1955, il bene delle anime.
Perciò Pacelli, (dacché secondo i «tesisti» «tertium non datur»), non sarebbe formalmente Papa.
E’ lecito concluderlo (confronta Sodalitium, numero 62, pagine 29-30).
Infatti padre Guérard scriveva «Se c’è Autorità, c’è il dovere di obbedire» («Cahier de Cassiciacum», Nizza, 1979, volume 1, capitolo 4, pagina 91).
Ora la maggior parte dei «tesisti» rifiuta de jure la riforma del 1955, fatta materialmente dallo stesso monsignor Annibale Bugnini che fece nel 1969 il Novus Ordo Missae, ma promulgata formalmente da Papa Pacelli (confronta Sodalitium, numero 62, pagina 63).
Quindi per loro - praticamente - Pio XII non è l’Autorità.
Si noti che qui si tratta di una legge universale che il Papa impose alla Chiesa, non di un suo atto privato.
Essa potrebbe essere al massimo la «non più opportuna», ma mai cattiva.
Ora come si fa a conciliare la genuflessione al giudaismo, ecc., con la non nocività della riforma pacelliana e quindi il permanere dell’Autorità in Pacelli?
Se fosse così anche il Novus Ordo Missae e il Concilio Vaticano II, potrebbero essere non nocivi; oppure se così è, come scrive Sodalitium, Pio XII non è formalmente Papa.
Non so cosa dire, taccio esterrefatto e ringrazio, una seconda volta, Dio, per aver cambiato campo. Infatti ora non si invoca più (come sino a qualche anno fa) l’epicheia per non celebrare secondo le rubriche del 1955, ma le si rifiuta de facto e de jure, come cattive in sé.
Però se si continua così dove si va a parare?
Ognuno diventa il «papa» di se stesso.
Quindi in pratica, anche senza dover convocare un conclave e giustificarlo in teoria, ci si comporta come i «Legati (o vicari) diretti di Cristo».
«Pacelli sbaglia», Kyrie, eléison! «Sodalitium no», Christe, eléison!
Questa è almeno «conclavite» pratica e vissuta, che può essere anche teorizzata, spero non irreversibilmente.
Per cui, dove sta la Chiesa reale e non quella «virtuale», se tutti gli atti di Roma sono nulli, se le ordinazioni sacerdotali e le consacrazioni episcopali sono invalide, se i sacramenti, compresa l’eucarestia e il Sacrificio della Messa, sono cessati?
La crisi ha annichilato totalmente sia il potere d’ordine, che la giurisdizione e il magistero.
Il «Fine-Bene» della Chiesa non esiste più da cinquanta-quaranta anni, quindi anche la Chiesa? Infatti una religione che non ha più sacerdozio, né sacrificio non è più neppure materialmente o in potenza ma è morta totalmente, [come quella dell’Antica Alleanza dopo il 70, la quale era relativa al Nuovo Testamento. Però la Nuova Alleanza è Eterna. Quindi non può cessare totalmente].
Essa sarebbe non più a Roma, ma ove si trovano i vescovi e i sacerdoti della linea Thuc?
La Chiesa non sarebbe più romana e petrina (il materialiter dopo quaranta anni essendo diventato un nulla, farsa e comparsa), ma thucista (ubi Thuc ibi Ecclesia); essendo diventata Roma (almeno sin dal 2005, con l’elezione di Benedetto XVI) non più una Religione, ma una scena teatrale di pastori-attori muti, sembrerebbe essere nella terza èra di Gioacchino da Fiore, ma essa è condannata dalla fede cattolica.
Inoltre il «thucismo», per chi come me lo ha visto da vicino non è un motivo di credibilità (per usare un eufemismo).
Come pretendere di essere i portatori dell’unica verità sul mistero della crisi che è penetrata nella Chiesa di Cristo, quando vi sono tante oscurità, misteri, questioni dibattute e non definite?
Il fatto o il «quia» (crisi) è certo, ma il come e il perché o il «propter quid» restano un mistero.
«State contente umane genti al quìa,
ché se potuto aveste veder tutto,
non era mestier parturìr Marìa».
(Purgatorio, III, 37-39).
Il mistero di iniquità, il mistero del cuore umano, «Pravum est cor hominis et imperscrutabile, quis cognoscet eum?» (Geremia).
Solo Dio che sonda il cuore e le reni.
Allora, «cercate di rendere certa la vostra elezione, mediante le vostre opere buone» (San Pietro), non si può penetrare un mistero, sarebbe come «voler mettere tutta l’acqua dell’oceano in un bicchiere» (Sant’Agostino).
Si può cercare di studiarlo, di avvicinarlo nel chiaro-oscuro della fede, con molta umiltà e trepidazione, senza pretendere di averlo capito e svelato, nell’adorazione di ciò che sorpassa le capacità umane pur senza essere contro la ragione, ma solo oltre essa.
Non è normale proporre come assolutamente certo ciò che è molto oscuro, disputato e misterioso e imporlo moralmente e giuridicamente sotto pena di peccato.
Come per la Predestinazione, bisognerebbe ammettere il fatto misterioso (Dio onnipotente e uomo libero/crisi ecclesiastica: infallibilità ed errori) e lasciare libertà di interpretarlo come si reputa più conforme alla realtà e alla Rivelazione, sino a decisione della Chiesa gerarchica, senza lanciare anatemi contro chi non segue esattamente il nostro modo di incedere.
Riassumendo e tirando le somme
Si può asserire tranquillamente che oggi (2004-2008) la Tesi di Cassicìacum come l’ha concepita padre Guérard des Lauriers non è più assolutamente certa, poiché fondandosi sulla distinzione reale tra materia e forma nel Papa, e per ammissione del padre Guérard stesso, dopo Giovanni Paolo II, non essendoci (quasi) più vescovi consacrati secondo il vecchio Pontificale Romano, il futuro «papa materiale» (nel caso odierno Benedetto XVI) sarebbe solo una pura «comparsa» («Il problema dell’Autorità e dell’episcopato nella Chiesa», Verrua Savoia, CLS, 2005, pagine 33-35 e 37) che non parla neppure, ma recita mutamente la parte del Papa, come farebbe un attore o un manichino in una rappresentazione senza dialoghi.
Ciò equivale a dire che Benedetto XVI, essendo stato consacrato vescovo con il nuovo Pontificale e non essendo neppure validamente vescovo (secondo padre Guérard), non può essere il Vescovo di Roma (ossia Papa) neppure in potenza o «materialiter», sarebbe solo il manichino della vetrina Gammarelli in attesa della elezione di un vero Papa.
Ci si trova, perciò, di fronte al sedevacantismo totale, (al «conclavismo» o al «delirio di onnipotenza» = «pensare di essere il Legato diretto e immediato di Cristo», una sorta di «sindrome napoleonico-messianica») ritenuto non accettabile da padre Guérard.
Quindi, da buon realista egli avrebbe rivisto e aggiornato la sua posizione iniziale, essendo arrivato ad una conclusione (secondo lui stesso) erronea.
Ma non così, sino ad ora, i «tesisti».
Perciò chiedo loro una risposta a questo riguardo: Benedetto XVI è «papa» materialiter o per nulla? Tertium non datur.
Pio XII era Papa formalmente o solo materialmente?
Spero solo che la risposta non duri quanto i tempi biblici o «apocalittici», anche perché per alcuni «tesisti» ‘ «Apocalisse secondo Corsini» è già avvenuta, quindi mi si potrebbe dire che mi è già stata data la risposta e io non me ne sono accorto, anche perché - povero me - conosco solo
l’«Apocalisse secondo Giovanni» e interpretata dai Padri della Chiesa.
Anche questa teoria «origenista-corsiniana», imposta come l’unica vera lettura dell’Apocalisse, ha contribuito a farmi aprire gli occhi e a cambiare campo, Deo gratis, in compagnia di tutti i Padri, Dottori ed esegeti approvati della Chiesa, tranne Origene, Rénan, Loisy e Corsini.che non sono auctores probati.
«Dimmi con chi vai ti dirò chi sei».
Pure su questo punto ho atteso una risposta, senza aver voluto far nomi, per «non uccidere un uomo morto» e consentirgli di correggersi, senza perdere la faccia.
Ma la risposta non viene, «Thuca locuta est, causa finita est».
Queste sono - in breve - le ragioni che mi hanno spinto (Deo gratias, ancora una volta) a lasciare formalmente la «Tesi di Cassicìacum» pur mantenendo una grande stima per padre Guérard des Lauriers, ma non per la maggior parte dei suoi allievi.
Non avrei voluto polemizzare con nessuno (tranne il caso di legittima difesa che mi ci ha costretto), non voglio soprattutto turbare i fedeli; spero soltanto che queste pagine li aiutino, come hanno aiutato me nel corso di questi anni di elaborazione e riflessione, a lasciare una strada che in teoria sembrava buona, ma che in pratica si è rivelata falsa, dacché in contraddizione con il pensiero stesso dell’autore di essa.
Alla gallica «Tesi di Cassicìacum» che è diventata la sub-gallica «Antitesi di Verrua Savoia» (= «Tesi» in evoluzione), preferisco la nostrana «Ipotesi di Velletri», senza nessuna pretesa e senza minaccia di scomunica, peccato, dannazione irreversibile per chi non la gradisce.
«Se sto nell’errore, che Dio me ne liberi; se sono nella verità che Dio mi ci mantenga».
Pace e Bene a tutti!
Don Curzio Nitoglia
1) Ne posseggo una «seconda edizione» in una forma più estesa che non avrei voluto rendere, pubblica, tranne che non vi fossi stato costretto da polemiche scorrette. Ora, debbo costatare, che pur senza nominare nessuno (confronta Sodalitium, numero 62, «Un’obiezione alla Tesi di Cassicìacum», pagina 29-31), si vorrebbe far passare la vera obiezione (che ho sollevato lasciando l’Istituto Mater Boni Consilii) per quello che non è.
Brevemente scrivo ora (per non confondere le idee ai lettori), che per quanto riguarda l’analogia tra Stato e Chiesa (rapporto di somiglianza relativa [entrambi sono società perfette] e dissomiglianza essenziale [una è naturale e l’altra soprannaturale]), mi riserbo di pubblicare in futuro, in maniera approfondita, un articolo a parte.
Faccio solo notare che pur avendo abbandonato la «Tesi» non ho mai confuso e identificato (univocamente = rapporto di assoluta e sostanziale somiglianza) Stato e Chiesa, come si vorrebbe far dire all’obiettante «x» (o a me, poco importa). Quindi è scorretto e fuori tema rispondere all’obiezione (che sollevai pubblicamente l’8 dicembre del 2006) facendo dire (all’obiettore «x» o a me, poco importa) ciò che non ho mai detto. (Posseggo la registrazione della conferenza - 14 gennaio 2007 - di risposta alla mia obiezione, in cui il relatore volle andare «equivocamente» fuori tema facendomi sostenere l’univocità tra Stato e Chiesa. Gli scrissi, in privato, chiedendo spiegazioni, non ne ho ottenuto risposta ed ora si ritorna con lo stesso «equivoco» per iscritto e pubblicamente, al quale debbo rispondere, per iscritto e pubblicamente). Sodalitium, numero 62, pagine 25-31, non risponde alla (mia) obiezione, ma a quella che scorrettamente si mette in bocca
a qualche «Mister x» o a me, poco importa). Ne riparleremo in futuro, dopo che mi si risponderà sui tre punti suscritti, se - cioè - Benedetto XVI è ancora «papa materialiter» o per nulla.
A proposito di «equivoci», l’editorialista di Sodalitium, (numero 62, pagine 2-4) è molto inquieto per la sorte di coloro che, a differenza di lui, (unico «cavalier senza macchia ?»), hanno cambiato campo irreversibilmente «specie in Italia». Ora, a parte il fatto che di irreversibile vi è solo lo stato di dannazione eterna, il quale - per fortuna di tutti coloro che non la pensano esattamente come lui - non è in potere dell’editorialista; mi permetto di fargli ricordare che - in Italia - il fondatore dell’Istituto e della rivista di cui oggi egli è superiore e direttore, ha abbandonato - purtroppo e non solo per colpa sua - «campo», ed anche sacerdozio ed episcopato, proprio lui che era (o pensava di essere, assieme a me, all’editorialista e ad un altro sacerdote) uno dei pochissimi preti (quattro in tutta Italia) ad «offrire l’oblatio munda» (poveri noi). Tuttavia lui mi fa pena, dacché è uno sconfitto e prego per lui, ma l’editorialista mi preoccupa (non irreversibilmente, «finché c’è vita c’è speranza»), dacché de facto si comporta da «Legato diretto di Cristo» e continua a far danni (pensando di essere uno dei dieci-cinquanta preti in tutto il mondo, cinque o sei in tutta Italia, che celebrano l’oblatio munda), spero non irreversibilmente. Farebbe, dunque, meglio a pensare ai fatti suoi e di casa sua, piuttosto che condannare irreversibilmente tutti quelli che non sono come lui. «Qui reputat se stare, timeat ne cadat»: Quanto a me, ringrazio Dio di aver cambiato (spero, Deo adiuvante, irreversibilmente) campo, che come l’albero si giudica dai frutti.
La triste realtà, invece mi pare essere questa: «Dio ci ha rinchiusi tutti nell’infedeltà per usare a tutti misericordia, affinché nessuno si glorifichi in se stesso» (San Paolo). Infatti essendo stato «colpito il Pastore» (è un fatto, contro cui nulla valgono tutti le argomentazioni), «il gregge» (vescovi, sacerdoti e fedeli) «s’è disperso, ognuno per conto suo». Di fronte ad un terremoto terribile, come è stata la «crisi conciliare», chi può pretendere di essere stata la «pecora bianca» totalmente immune da ogni difetto, speculativo e pratico? Chi può dire di aver capito tutto, aver risolto tutto, il perché di ogni cosa? Io no! Solo un bugiardo o un megalomane può rispondere di sì. Il primo sarebbe bene che si corregga soprannaturalmente («perseverare diabolicum»), infatti per ottenere misericordia bisogna riconoscere di essere «miserabile» e sforzarsi di essere misericordioso con gli altri; il secondo che si curi naturalmente (poiché è socialmente e pastoralmente pericoloso).
2) Necessariamente per affrontare questo problema (della «sede formalmente vacante» a partire dal 1965, anzi dal 1955, sino al 2008) occorre affrontare questioni molto difficili di filosofia e teologia. Ora «la apostolicità e la visibilità della Chiesa, sono state date da Cristo alla sua Sposa, affinché i fedeli possano facilmente seguire il suo insegnamento, riconoscerla e distinguerla senza difficoltà dalle sette» (cfr. «D. Th. C»., col. 2143). Quindi pretendere che i fedeli conoscano bene la filosofia e la teologia per capire la «Tesi» che dovrebbe illuminarli sullo stato attuale della vera Chiesa e discernere il vero dal falso, cozza contro la facilità di riconoscere l’unica Chiesa di Cristo.
Il difficile non può essere facile, per il principio per sé noto di identità e non contraddizione.
Per capire la «Tesi» (presentata dai «tesisti» come l’evidente specificazione di un atto di fede) occorre possedere la scienza ardua della filosofia e teologia, mentre per costatare l’evidenza non occorre la laurea. L’impossibile è evidentemente falso. Ora non è così evidentemente falso asserire che Paolo VI (ma già Pio XII, per i «tesisti») e successori non sono formalmente Papi, ma solo materialmente. Infatti per dimostrarlo occorre pubblicare una «Tesi» di laurea in filosofia e teologia, (detta di «Cassicìacum») molto disputata anche tra i «sedevacantisti» stessi. Invece l’evidenza la si «mostra» e non la si «dimostra» e si impone a tutti (I + I = II).
3) «Nel tempo della desolazione non si deve mai fare alcun mutamento, ma rimanere fermi e costanti nei propositi e nella determinazione in cui si stava nel tempo precedente a quella desolazione [.]. Perché, come nella consolazione ordinariamente ci guida e ci consiglia più lo spirito buono, così nella desolazione è lo spirito cattivo». Confronta anche «Es. Spir.», numero 320, 321 e 322.
Analogamente, nella crisi attuale, si deve continuare a fare ciò che la Chiesa ha sempre fatto senza avventurarsi (pubblicamente e pretendendo la certezza assoluta) in «novità» azzardate che potrebbero essere pericolose, come se non fossero calate le tenebre.
L’ipotesi speculativa e «scolastica» (che non deve essere predicata ai semplici, con imprudenza, faciloneria e arroganza, come successe nel Seicento quanto al dogma della Predestinazione, ma va solo disputata tra teologi), della «sede formalmente vacante» poteva, inizialmente, avere «in linea di principio» un fondamento nella realtà, purtroppo il modo di agire dalla maggior parte dei «sedevacantisti» (che sono il principale avversario della «sede vacante», facendone una conclusione dogmaticamente certa e vincolante e quindi un obbligo morale e canonico per tutti), li rende mal sopportabili, dacché pretendono di avere la assoluta evidenza e certezza, il che li porta a «disprezzare tutti, tranne se stessi» e ad «imporre ai fedeli pesi insopportabili». In realtà anch’essi sono vittime (se in buona fede, Dio solo lo sa) della crisi che ha sconvolto l’ambiente cattolico degli anni Sessanta, non sono i responsabile di essa e quindi non debbono essere combattuti quasi fossero il «nemico numero uno», a condizione che rispettino gli altri e non si trasformino in «carnefici», altrimenti non possono pretendere di essere rispettati a loro volta. Chi insulta e calunnia deve sapere che può essere confutato vigorosamente e - se necessario - denunciato.
4) Per esempio, quanto al dogma della Predestinazione, la Chiesa lascia piena libertà di insegnare e di seguire la tesi tomista o quella molinista, pur essendo radicalmente diverse e contraddittorie e quindi oggettivamente una sola è quella vera, poiché in un mistero così arduo e «tremendo» non vuol pretendere di avere la certezza assoluta e di obbligare i fedeli a seguire una tesi teologica che potrebbe essere troppo dura per le loro forze. Al contrario alcuni sacerdoti «tesisti», nella crisi misteriosa e tremenda che attraversa la Chiesa dal 1958 (anzi dal 1955), non esitano a pretendere di saper tutto e di obbligare i loro poveri fedeli a seguire in tutto e per tutto le loro «certezze» assolute, che non ammettono domande, dubbi, e problemi di coscienza. Quando qualcuno osa porre un quesito, normalmente, tranne rare eccezioni, si sente minacciato di peccato mortale, di scisma, e di dannazione, di aver cambiato irreversibilmente campo, ecc. Mentre la crisi che ha investito l’ambiente cattolico da mezzo secolo, può far perdere la testa e la fede se ci si pensa troppo, senza adeguata preparazione teologica e un’intensa vita spirituale, cercando di assicurassi l’elezione tramite le buone opere, senza le quali la fede è morta. Quindi non è bene parlarne ai semplici fedeli nei minimi dettagli e sino alle ultime conclusioni, come se fossero certezze infallibili di fede e di costumi. Se lo si fa, o si è irresponsabili, oppure manipolatori delle coscienze, per poterne disporre a proprio uso e vantaggio (non forzatamente materiale). Ho conosciuto dei fedeli (e anche dei sacerdoti, per non parlare di alcuni vescovi Thuc) che discettavano, anche per scritto su «internet», sul «materialìter» (con l’accento sulla seconda «i») e sul «formalìter» (idem ut supra), senza conoscere l’ «abc» della dottrina cattolica.
Analogamente, tanto per fare tre esempi:
la divergenza di «sfumature teologiche» tra San Giacomo vescovo di Gerusalemme e San Paolo Apostolo dei Gentili, nel 58 dopo Cristo, (At., XXI, 15) appare chiara quando San Paolo si reca a Gerusalemme e San Giacomo gli mostra le sue riserve; infatti mentre il primo poneva l’accento maggiormente sulla fede in Cristo (vivificata dalla carità) per la salvezza eterna, il secondo sottolineava piuttosto l’importanza della Legge mosaica per i cristiani venuti dal giudaismo, pur non ritenendola essenziale per la salvezza, ma tuttavia essa restava, per lui, un elemento importante di attaccamento alla storia e religione dei padri.
Già al Concilio di Gerusalemme (49 dopo Cristo) la questione era stata dibattuta, però «Le tensioni nella Chiesa primitiva rimangono gravi anche dopo il Concilio di Gerusalemme» (Divo Barsotti, «Meditazione sugli Atti degli Apostoli», Cinisello Balsamo, San. Paolo, ristampa 2008, pagina 379). L’abate Giuseppe Ricciotti («Paolo Apostolo», Roma, Coletti, V edizione, 1946) spiega: «L’accoglienza che Paolo trovò presso la comunità di Gerusalemme fu un’accoglienza diplomatica (.) a Gerusalemme vivevano fianco a fianco ellenisti cristiani e giudeo cristiani, rispettivamente con le loro propensioni» (pagina 459).
Ora il Concilio di Gerusalemme aveva parlato chiaro, ma «se ciò in teoria era chiarissimo, in pratica la pesantezza dell’umanità non permetteva a questo gruppo o a quello di elevarsi sino a quella vetta così sublime. E allora i sovraeminenti apostoli proponevano dei compromessi, per far incontrare i due gruppi» (ivi).
Giacomo rimprovera a San Paolo l’eccessiva libertà dal mosaismo, anzi l’abbandono.
Paolo insegnava, conformemente al Concilio gerosolimitano «che i pagani divenuti cristiani non dovevano preoccuparsi delle osservanze giudaiche, ma con i giudei fatti cristiani egli (.) era più remissivo, lasciando alla loro coscienza di continuare o no le pratiche della Legge, pur affermando che essa non arrecava la salvezza» (pagina 461).
Don Divo Barsotti, (pur se non condivisibile in tutte le sue opere, ma molto profondo e ortodosso nella sua «Meditazione sugli Atti degli Apostoli», a differenza dei tanto decantati Cristina Campo, Coomaraswamy jr. e compagnia «sede va-cantante».) commenta: «Sul piano della teologia e della prassi rimangono possibili interpretazioni diverse della fede e della volontà di Dio; nessuno può pretendere di esaurire tutta la ricchezza della Chiesa, nemmeno Paolo. Egli deve vivere in comunione con Giacomo, e Giacomo deve vivere in comunione con Paolo (.). Ci unisce certo la fede unica e comune, ma come facilmente anche nella fede siamo portati ciascuno a sottolineare il nostro punto di vista, che per quanto legittimo, è sempre parziale» («Meditazione sugli Atti degli Apostoli», pagina 380).
Paolo farà il voto di nazireato, seguendo il consiglio di Giacomo, per non scandalizzare - col suo comportamento pratico - i semplici che dal giudaismo si erano convertiti a Cristo, ma non può mancare alla verità: per lui la Legge è superata dalla fede in Cristo informata dalla grazia santificante.
In secondo luogo, è un fatto storico e divinamente rivelato che San Paolo resistette in faccia a San Pietro (Galati II, 11-21). Ora «contro il fatto non c’è argomento che tenga».
In realtà anche riguardo il peccato di San Pietro vi è una seria disputa e divergenza accidentale di opinioni tra i Padri e Dottori, pur in un’unità sostanziale.
Infatti, San Girolamo sostiene che Pietro e Paolo fingessero, l’uno evitando i pagani per «non scandalizzare dei giudei» e l’altro di «riprendere» Pietro.
Sant’Agostino è assolutamente contrario a tale opinione, per lui Pietro «era realmente reprensibile, peccò realmente per eccessiva cura di non scandalizzare i giudei».
Per Sant’Agostino il peccato di Pietro fu veniale di fragilità o semideliberato, non di malizia o di proposito deliberato. San Tommaso d’Aquino (S.T., I-II, q. 103, a. 4, ad 2um) riprende la tesi di Sant’Agostino. Quindi è certo che Pietro non peccò mortalmente, ma solo venialmente e di fragilità, come pure è un fatto indiscutibile che San Paolo lo abbia ripreso pubblicamente ( Galati II, 11-21) poiché la sua eccessiva cura di non urtare i giudei, mortificava i pagani converti al cristianesimo.
Tuttavia l’atto di Pietro, pur essendo in sé, pratico, avrebbe comportato (qualora non fosse stato corretto) la «conclusione teorica» dell’eresia giudaizzante, ossia la necessità di rispettare le regole cerimoniali del mosaismo per salvarsi, anche dopo Cristo.
Quindi Paolo dovette correggere Pietro in pubblico, Pietro accettò la ingiunzione di Paolo; il primo non dichiarò la «sede vacante», il secondo non scomunicò chi gli resisteva in faccia e pubblicamente. Dunque è divinamente rivelato che si può riprendere eccezionalmente e pubblicamente l’Autorità del Papa.
Infine, per quanto riguarda il dovere di obbedire sempre e in ogni caso all’Autorità ecclesiastica si può rispondere che: Padre Guido Vernani da Rimini o.p., («De protestate Summi Pontificis») afferma che Cristo ha voluto soffrire liberamente la morte, comminatagli da Pilato, dietro istigazione del Sinedrio, pur senza approvare come giusta la sentenza iniqua [«chi Mi ha consegnato a te, è più colpevole di te». Pilato e ancor più Caifa sono colpevoli, ma sono e restano «Pretore» e «Sommo Pontefice»], ma al tempo stesso riconosce l’autorità legittima di coloro che lo hanno condannato [risponde a Caifa, chiamato dal Vangelo di Giovanni XI, 49 «Sommo Sacerdote» che proprio in quanto Sommo Sacerdote e non da sé come semplice uomo, profetizzò la morte di Cristo (Giovanni XI, 52) per tutto il popolo; e al procuratore Pilato: «non avresti alcun potere se non ti fosse stato dato dall’alto» Giovanni XIX, 11. Dunque Pilato ha ed esercita il potere, anche se se ne serve male, così il Sinedrio e il Sommo Sacerdote che proprio in quanto tale «profetizzò» la morte di Gesù per la salvezza di molti]. Gesù non ha invocato la mancanza di esercizio di governo o di autorità in Pilato e nel Sinedrio, che pure non agivano - oggettivamente, dagli atti che hanno posti - per il bene comune. Ha risposto alle loro domande, ha riconosciuto lo stato di fatto: governano realmente, quindi esercitano l’autorità, anche se se ne servono iniquamente e colpevolmente, non ha approvato come buona la sentenza malvagia, ma neppure ha argomentato che, avendo l’intenzione oggettiva di non fare il bene comune, anzi di uccidere il Verbo Incarnato stesso, non esercitavano de facto il potere; no, essi praticamente governavano e come tali erano considerati anche da Lui: governanti de facto e de jure.
Gli Atti degli Apostoli (VII, 52) sono chiari su questo punto e San Tommaso spiega che «come una persona cara che è morta è tenuta in casa qualche tempo prima di essere sepolta definitivamente, così gli Apostoli mantennero un certo legame con la Sinagoga prima di abbandonarla formalmente» (S.T., 1a-2ae, q. 103, a.4).
Soltanto con la morte di San Giacomo Apostolo e vescovo di Gerusalemme (62 dopo Cristo) e la distruzione del Tempio (70 dopo Cristo), gli Apostoli e specialmente San Paolo, prendono formalmente congedo dalla Sinagoga e non riconoscono ai sacerdoti alcun potere.
Prima di tale evento, anche dopo la morte di Cristo (per circa trenta-quaranta anni) gli Apostoli hanno continuato a frequentare le sinagoghe, per predicare il Vangelo e hanno rispettato l’autorità del sommo sacerdote, anche se macchiatosi di deicidio, pur rispondendo alla sua ingiunzione di non predicare Gesù crocifisso e risorto: «E’ meglio obbedire a Dio che agli uomini».
Onde l’obiezione non deve essere presentata in maniera totalmente assoluta, ma sfumata e con le eccezioni che confermano la regola. San Paolo stesso, divinamente ispirato, ci ha rivelato: «Se anche io o un angelo, vi rivelasse un altro Vangelo, sia anatema».
Non ha detto di obbedire assolutamente ma neppure di considerare la «sede (paolina o angelica) vacante». Tertium datur. Così nella crisi che travaglia la Chiesa dal 1958 (o dal 1955) sino ad oggi, occorrerebbe il senso delle sfumature e delle distinzioni che spesso manca totalmente, ognuno pretendendo di aver ragione totalmente e assolutamente.
«Ed un Marcèl diventa
ogne villàn che parteggiando viene».
(Purgatorio, VI, 125).
La frase che Sant’ Ignazio da Loyola pone all’inizio degli Esercizi Spirituali «Ogni buon cristiano deve essere più pronto a salvare la proposizione del prossimo che a condannarla» (numero 22), aiuterebbe, se osservata, non poco a mantenersi nel giusto mezzo (di altezza e non di mediocrità), che sa distinguere per unire per poter giungere a una posizione il più possibilmente vicina alla realtà, pur ammettendo la possibilità di sfaccettature e accentuazioni diverse, quanto al modo d’interpretare la crisi attuale.
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