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L’automobile e il suo ruolo disumanizzante
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Ho scoperto che è molto difficile farsi ascoltare quando si parla di cose con le quali siamo a contatto ogni giorno, cose che crediamo di conoscere perfettamente.
Invece avviene che si venga coinvolti in una serie di luoghi comuni.
Un luogo comune diffuso è quello che ci fa considerare l’automobile uno strumento molto
positivo, addirittura irrinunciabile.
Per alimentarla non si esita a trasformare anche il grano in bio-fuel.
Anzi per molti l’automobile è il prolungamento del proprio corpo.
«Indossata» l’auto il guidatore ne assume il corpo-carrozzeria.
Egli diventa miracolosamente bello e possente come una divinità.
I messaggi pubblicitari sembra proprio che insistano su questo tema.
Peccato che quell’uomo-automobile, come vedremo nel seguito, sia di fatto quasi cieco perché impossibilitato a vedere il mondo che lo circonda e l’architettura, bella o brutta che sia.
Recentemente mi è accaduto, guardando un videoclip (1) sul villaggio di Poundbury, il sogno
realizzato del principe Carlo, di notare che purtroppo l’architettura, che appare prevalente, non è nelle belle case country, ma nelle strade, perfettamente progettate e costruite per le automobili. Queste per il loro numero e per le loro dimensioni mal si adattano alle case ed alle strutture
urbane, progettate per andare a piedi, in bicicletta o al massimo con il calesse.
Nel filmato si vede il villaggio come appare da un’auto che lo attraversa.
Le case diventano piccoli giocattoli dimenticati e muti ai bordi delle strade costruite
impietosamente a regola d’arte per il traffico delle «grandi» automobili moderne.
In questa logica le viuzze, dove si suppone possa passare una sola auto alla volta, sembrano
errori del sistema viario, più che angoli pieni di umanità e di ricordi.

automobile1.jpg
 
Figura 1) Vetture «giganti» parcheggiate davanti ad una piccola, molto umana locanda di campagna (da un blog su Barnaby, l’ispettore le cui imprese sono state ambientate nelle contee inglesi di Berkshire, Buckinghamshire, Hertfordshire, Oxfordshire e Surrey, riassunte nella contea immaginaria di Midsomer)

Il «Progresso» ha instillato nella mente dell’uomo d’oggi la convinzione che tutto sia possibile e tutto sia lecito.
Nei secoli passati la malinconia veniva sopportata come uno stato dell’animo.
Esisteva una letteratura che aveva come sfondo la malinconia.
Oggi è considerata una malattia da curare con appositi psicofarmaci (e con l’uso dell’automobile).
Altrettanto avveniva per la depressione così come per il desiderio insoddisfatto di felicità.
C’è chi ha scritto capolavori letterari trovandosi nella condizione di infelicità.
Ma gli americani sull’argomento preferirono una soluzione radicale, introdussero il diritto alla felicità nella loro costituzione, nel loro patto sociale.
Il risultato è un popolo con la sua infelicità nascosta e perennemente a caccia di felicità con ogni mezzo, compreso il piacere idiota di ammazzare gli orsi polari dall’elicottero.
Sigmund Freud aveva scoperto che l’uso di stupefacenti poteva alleviare certe sindromi depressive gravi.
Solo più tardi si accorse che le droghe creavano assuefazione e distruggevano il cervello oltre che la psiche.
Ma intanto la felicità per via chimica è diventata un fenomeno di massa che alimenta un giro d’affari colossale, avvalendosi proprio delle proibizioni che dovrebbero impedirne la diffusione.
Questo abuso della libertà come mezzo certo per arrivare alla felicità ha le sue influenze anche nell’architettura.
Gli uomini vogliono abitare dove e come gli viene in mente, senza alcun riguardo all’ambiente, alla compatibilità con le forze della natura.
Così in America si continua a vivere in case di legno che vengono spazzate via dagli uragani sempre più frequenti.
Ma siccome i pionieri si facevano le case di legno e tenevano pistola e fucile a portata di mano, loro vogliono continuare a vivere come i pionieri.
Così capita spesso che si sparino per un nonnulla.
Molti anni fa avevo avuto l’incarico di porre rimedio ad una frana che incombeva su un’abitazione.
I proprietari ripetevano questo ritornello: oggi andiamo sulla Luna, è possibile che non si trovi un rimedio ad una piccola frana?
La piccola frana era una montagna della quale alcuni massi avevano deciso di andare un po’ più a valle, passando attraverso la loro casa.
L’unico rimedio possibile erano lunghi tiranti d’acciaio infilati nella montagna ed ancorati nella roccia stabile.
Il lavoro era molto dispendioso e non privo di rischi, ma i proprietari si ostinavano a non credere che fosse così difficile e costoso mettere in sicurezza la loro casa, costruita nel posto sbagliato.

C’è chi preferisce la casa tradizionale, tipo country, e c’è chi la vuole estrosa, anzi sempre più estrosa, tipo casa sulla cascata, che recentemente ha richiesto un restauro radicale per non precipitare nel torrente sottostante.
Le formiche si costruiscono i loro formicai secondo le loro particolari esigenze, le api selvatiche si costruiscono gli alveari secondo le esigenze del loro particolare stile di vita.
L’uomo per depredarle del miele le ha addomesticate e imbrogliate preparando alveari modello, attraenti ed areati, ma con incluso il tranello della facile asportabilità del loro sudatissimo miele. Le termiti che sono cieche e che mal sopportano la luce del sole si costruiscono elaboratissimi termitai.
Così i ragni le ragnatele, trappole per la caccia ed abitazione, per non parlare dei castori che mobilitano l’ingegneria idraulica per costruirsi l’ambiente in cui sistemare le loro abitazioni ad ingresso subacqueo.

automobile2.jpg

Figura 2) Sezione di un termitaio. Le dimensioni della costruzione sono gigantesche se paragonate alla dimensione di un termite. Fatte le dovute proporzioni, sarebbe come se gli uomini si costruissero di regola abitazioni alte più di duemila metri.

Gli uccelli si costruiscono abitazioni adatte alla loro facoltà di volare.
L’architettura delle case degli animali è fatta in funzione delle loro capacità di spostarsi e del loro modo di vivere.
Questo era vero anche per gli uomini, che si sono costruiti le case nelle diverse aree del pianeta in ragione delle loro usanze, del clima e dei mezzi di locomozione impiegati.
Ci sono esempi celebri, come i Sassi di Matera, dove le abitazioni, umilissime ma ingegnose ed umane, garantivano l’asilo in condizioni di vita di estrema povertà.
Recentemente ci si è accorti che queste abitazioni, in parte scavate nella roccia, sono bellissime.
L’uomo che usa la bicicletta ha un ripostiglio apposito.
L’uomo che ha il cavallo ed il calesse ha provveduto alla bisogna con un apposito patio, stalla per il cavallo e rimessa per il calesse.
L’influenza sull’architettura è profonda e radicale.
Nel Palazzo Ducale di Urbino le scale di accesso al primo piano hanno una pendenza molto bassa, adatte a permettere l’accesso diretto ai cavalieri a cavallo.
Nel Palazzo Ducale di Parma le stalle per i cavalli hanno le mangiatoie in marmo e sono così belle da essere utilizzate oggi per allestire mostre d’arte.
Ma l’uomo che usa l’automobile è lo stesso uomo che oggi ha diritto alla felicità e può fare tutto quello che gli salta in testa ed è convinto che la tecnica gli fornisca i mezzi per fare qualsiasi  stupidaggine.
Così l’uomo con la grande automobile non sempre si costruisce la casetta con annesso garage. Quando poi se la costruisce crea la città estesa tipo Los Angeles, con un traffico impossibile da gestire.
Qualche volta l’uomo con la grande automobile ha nostalgia dei tempi andati e finge che l’automobile non ci sia o che non abbia le dimensioni mostruose che ha assunto oggi.
Allora esce di casa in bicicletta o a cavallo…

Il parere dei lettori

A commento dell’articolo su Leon Krier (2) un lettore che si firma simpaticamente: Anonimo Parmigiano, scrive tra l’altro: «… sulla questione delle automobili: mi sembra un falso problema. Ma davvero è così difficile immaginare delle automobili sul Nord-Sued Achse di Berlino? O sulle autobahnen ornate dalle statue di Josef Thorak? (3). Penso proprio di no, si trattava di progetti disegnati per le automobili... Eppure nella loro profondità semantica e nella loro bellezza si esprimeva uno spirito non diverso da quello delle architetture di Pericle».
Risponde un altro lettore che si firma caRmeLo: «… Lascerei in pace Pericle. E’ proprio a causa del committente (Hitler?) di Josef Thorak (le cui orride statue non sfigurerebbero in un gay pride) che nel dopoguerra l’architettura razionalista ha potuto sferrare un colpo micidiale al linguaggio classico… Circa il rapporto tra città classica ed automobile, ho notato che un contesto urbano classico o in stile classico si sposa molto bene con il design delle automobili Europee (specie quelle italiane ed inglesi) degli anni 50 e primi 60. Una lancia Aurelia non sfigurerebbe davanti al Pantheon, una MG spider si trova estremamente a proprio agio nelle città d’arte Toscane, una Mercedes 300Sl roadster è di casa a Taormina. Si tratta di auto che, come sagacemente notava, hanno molto in comune con gli antichi calessi. E’ a quel tipo di carrozzeria che bisognerebbe ispirarsi (magari affiancandola ad un motore elettrico) per costruire vetture a misura d’uomo e di città».

Giuste in teoria le osservazioni di Carmelo.
Il fatto è che la Lancia Aurelia si muove ed esige strade, spianando tutto, Pantheon compreso, a meno che questo non sia adibito ad isola spartitraffico.
I guai veri si pongono quando le automobili sono troppe.
Allora non c’è carrozzeria che tenga.
Le automobili, con le strade sempre più larghe per farle correre e le rimesse per ospitarle, stravolgono l’architettura.
Per le argomentazioni, che svolgo ora, la cosa più grave è che i miei lettori sembra non abbiano compreso il ruolo disumanizzante svolto dall’automobile, che non è un oggetto immobile come una statua.
L’automobile richiede molta attenzione per essere guidata ed anche a chi non guida non lascia il tempo per vedere un’architettura diversa da quella del modernismo.
Cioè una serie di scatole di vetro e acciaio, qualche volta con forme bizzarre, ma sempre «comprensibili» con una sola «occhiata», un atto che non deve avere una lunghezza temporale maggiore di qualche secondo.

L’automobile richiede anche una profonda trasformazione non solo delle città ma di tutte le immense aree che sopportano l’esistenza di autostrade o semplicemente di strade veloci, ed oggi tutte le strade, compresi i sentieri di montagna, vengono trasformate per consentire il traffico veloce.
Come ha dimostrato Ivan Illich, l’automobile in realtà va molto piano perché al tempo impiegato per portarci dove desideriamo, si deve sommare il tempo impiegato a lavorare per guadagnare il denaro necessario per ammortizzare la spesa d’acquisto, le spese di manutenzione e il costo del carburante.
Quindi l’automobile sarebbe vantaggiosa solo per chi ha un reddito molto alto.
Per gli altri come mezzo per muoversi è un disastro.
Infatti il fine principale di molte automobili non è quello di essere un mezzo di trasporto, ma uno strumento per esaltare il proprio io, esaltazione alla quale quasi nessuno sa rinunciare.
Il problema non è solo nelle dimensioni intollerabili delle autovetture, degli autocarri e simili.
Il problema è soprattutto nel loro numero: almeno un’automobile per ogni individuo adulto, e quasi nessuno che si sposta a piedi se non per fare footing.
Coloro che sono over sessanta con un piccolo sforzo di memoria ricorderanno come erano
strutturate le città cinquanta anni fa, quando i giovani si alzavano alla notte per vedere passare le vetture della Mille Miglia.
Allora l’automobile si adattava alle strade che erano state costruite ancora per i carri trainati dai cavalli, per qualche lento autocarro, per le biciclette e per gli scooter.
Oggi le strade sono state fatte per l’automobile e transitarci con il calesse neppure pensarci, andarci in bicicletta o a piedi si può fare sfidando qualche rischio.
Persino andarci con una piccola Smart non è proprio l’ottimo in fatto di sicurezza.
Oggi le piazze vengono sventrate per fare grandi parcheggi sotterranei e la cosa non ci fa pensare che stiamo trasformando le città per renderle funzionali all’automobile e sempre meno adatte all’uomo a piedi.
Non solo l’urbanistica e l’architettura (almeno quella non demenziale) si sviluppano in funzione dell’automobile, ma di un’automobile di dimensioni medie sempre maggiori.
L’uomo ha scoperto di avere l’esigenza di spostarsi continuamente, di aver diritto alla mobilità, con il risultato che è costretto a spostarsi ormai solo su un mezzo meccanico, quindi l’architettura sarà adatta agli spostamenti di veicoli di ogni genere ed avrà un aspetto che
corrisponderà a ciò che può vedere un uomo a bordo o alla guida di un mezzo meccanico.

L’automobile e la fisiologia della visione giustificano la miseria dell’architettura moderna?
Bisogna partire dall’amara constatazione che l’architettura moderna, se non si tiene conto delle opere eccessive delle arcistar, corrisponde perfettamente ai gusti attuali per almeno due buone ragioni.
La prima è data dal fatto che l’uomo oggi vive in automobile e quindi per poter guidare non ha, e non può avere, la percezione dei particolari in tutto il campo visivo.

automobile3.jpg

Figura 3)
Sezione di un occhio umano

automobile4.jpg
 
Figura 4) Particolare della retina nella zona centrale. Il segmento A_A rappresenta la linea della sezione rappresentata nella figura seguente

automobile5.jpg

Figura 5)
La densità dei sensori ottici (in azzurro i bastoncini, in rosso i coni) viene riportata come numero di sensori per mm2 in funzione dell’angolo (in gradi) misurati dal centro della callotta sferica su cui è distesa la retina.
La sezione della retina, riportata poi in coordinate polari, è condotta lungo la linea A_A.
In corrispondenza dell’area in cui il nervo ottico entra nella retina si ha assenza completa di sensori, area indicata come «blind spot».
Come si vede solo esplorando un’immagine con la parte (meno di 10 gradi di apertura) della retina, con altissima concentrazione di coni (sensibili al colore), detta fovea, se ne ricava il significato.
Il resto della retina ci fornisce la visione quando c’è poca luce e serve a valutare solo le forme (e solo in bianco e nero!).

Infatti per poter percepire e capire il senso di una forma si deve avere il tempo di esplorarne l’immagine con la zona della retina a più alta densità di sensori ottici sensibili ai colori: i coni, raccolti nella macula e più ancora nella fovea.
La seconda ragione è nell’attuale idolatria della libertà di cui si è già detto.
Il luogo comune della libertà come valore assoluto, come negazione a priori di ogni regola, come fonte di felicità e di verità.
Più libertà significherebbe più felicita, più verità, più grandezza dell’opera d’arte.

Dopo aver rimossi vincoli in certo senso superflui, per aver ancora maggior libertà restano da rimuovere i vincoli morali.
Allora uno ad uno via anche quelli.
Della libertà ci siamo ubriacati e nel suo nome abbiamo distrutto anche la realtà oggettiva ed abbiamo dimenticato la responsabilità legata ad ogni atto compiuto.
In nome della libertà senza limiti crediamo sia una vittoria violare anche le leggi della fisica.
Per la libertà ad ogni costo Frank Gehry, l’architetto degli edifici sbilenchi e privi di senso, ha successo.
Per la libertà i giovani si drogano ed hanno un comportamento sessuale sfrenato.
Il decostruttivismo si limita ad interpretare questa scelta scellerata.
Anche la scelta ossessiva di spostarsi continuamente in automobile e con qualsiasi mezzo, purché sia veloce e «moderno», è conseguenza della corsa a conseguire la libertà dai vincoli del tempo e dello spazio.
In questa realtà l’Architettura attuale ha assunto la forma più adatta ad interpretare lo stato di pazzia planetaria nel quale viviamo.
Quindi è impensabile sperare di modificarla in meglio.
Inserire riproduzioni di architetture antiche (4) negli edifici attuali, avrebbe riflessi positivi.
Si determinerebbe almeno un ritorno di interesse a vivere l’architettura antica, non più confinata nelle «città d’arte».

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Figura 6)

Ritorniamo ad esaminare la fisiologia della visione.
Queste due fotografie sono tratte dai lavori del fisico e psichiatra russo Yarbus (5) e risalgono agli anni ‘50.
La fotografia sulla destra mostra la traccia del punto di osservazione (il percorso della fovea) di un soggetto che esplora il ritratto mostrato nella fotografia di sinistra.
Yarbus dimostrò che per vedere, come ci mostrano queste immagini, non osserviamo una scena con una scansione regolare a righe.
Invece i nostri occhi compiono «salti» noti come saccadici («saccadi» dal francese per indicare movimenti a scatti), tra diversi punti interessanti, sui quali ci fermiamo per un breve tempo. Quindi non usiamo i movimenti saccadici  per disegnare una rappresentazione completa di una scena visiva.

Alcuni esperimenti suggeriscono che noi invece ci appoggiamo a concetti esterni per registrare l’informazione e ricordiamo solo la localizzazione dei punti importanti di una immagine.
Noi ripetiamo i movimenti saccadici anche per recuperare le informazioni visive.
E’ interessante notare che i bambini, che sappiano solo scarabocchiare, di solito lasciano su un’immagine segni che assomigliano a quelli scoperti da Yarbus.
Agli occhi di chi guida potrebbe presentarsi, ad esempio, un’immagine simile alla famosa città radiosa di Le Corbusier.
Allora ci chiediamo: quanto tempo è necessario per «vedere» questa prospettiva?

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Figura 7) Prospettiva della Città Radiosa di Le Corbusier

Essendo un’architettura scarna, priva di ornamenti, occorre circa un minuto o poco di più, se guardiamo l’immagine riprodotta su un foglio.
Nella realtà tridimensionale almeno 3 minuti.
Ma l’osservatore si muove a bordo di un’auto che corre almeno a 60 km/ora, quindi un chilometro al minuto.
Quando ha finito di vedere ha percorso 3 chilometri.
In questi 3 minuti il campo di osservazione è mutato mentre l’osservatore alla guida di un’automobile deve tener d’occhio le altre macchine che lo precedono e che lo seguono.
In realtà per vedere la prospettiva della città radiosa egli può utilizzare la fovea in «time sharing» con il controllo del traffico.
Il risultato è che se il guidatore, a rischio suo e degli altri, vuol guardare la «meraviglia» di Le Corbusier, dovrà accontentarsi di una visione molto approssimativa.
Molto peggio sarebbe se si trattasse di un’architettura del XIX secolo con archi, colonne e capitelli.
Se poi si viaggia lungo un’arteria a scorrimento veloce la velocità è almeno di 120 km/ora, che equivale a 2 chilometri al minuto.
Il guidatore non può distrarre l’occhio dalla strada, i passeggeri avranno solo immagini molto fugaci e approssimative.
Ecco allora perché l’architettura moderna viene in soccorso grazie alla sua generale banalità ed alla sua ripetitività con conseguente noia che ci esonera nella maggioranza dei casi dal fare lo sforzo di guardare.
Per non molestare chi guida sono stati aboliti anche i cartelli pubblicitari lungo strade ed autostrade, cartelli che o non venivano visti, oppure provocavano incidenti.

Conlusioni

Oggi sembra che, sia pure inconsciamente, ci si stia adattando al fatto che l’architettura, vista da chi si sposta a piedi, è radicalmente diversa da quella vista da chi si muove in automobile.
Le aree pedonali nelle città si arricchiscono di edifici antichi restaurati, edifici che, guarda caso, possono essere apprezzati solo nelle aree pedonali.
Le cure meticolose nei restauri e nei recuperi di edifici costruiti prima che esistesse l’automobile, hanno senso se quegli edifici sono inclusi entro un’area pedonale, altrimenti è fatica sprecata. Anzi i graffitari percepiscono l’estraneità degli edifici antichi in zone di traffico automobilistico e si accaniscono senza pietà.

Professor Raffaele Giovanelli



1) Filmato in Yutube di una visita in automobile del villaggio di Poundbury. www.fulminiesaette.it/modules/news/article.php?storyid=826
2) R. Giovanelli, «Leon Krier, i suoi legami con Portoghesi, Palladio e Dorfles» , 04 luglio 2008.
3) Le statue di Thorak sono orribili. E pensare che c’è qualcuno che sostiene che l’arte italiana negli anni del fascismo si sarebbe ispirata a quella tedesca nazista.
4) R. Giovanelli, «Recupero dell’antico con le copie» , 08 aprile 2008.
5) «Yarbus demonstrated that human beings, as these pictures show us, do not scan a scene in a raster-like fashion. They rather perform ‘jumps’, known as saccades, between the different points of interest, on which fixation is maintained for a short period. We do not use saccades to paint a complete internal representation of a visual scene. A few experiments suggest that we rather rely on the external word for storing information and only remember ‘pointers’ to
relevant locations in the scene. We then make use of saccades to retrieve the information as we need it. Therefore, ‘saccades constitute a way to select task relevant information’. This is
confirmed by the fact that, as Yarbus already noticed, the saccadic pattern depends on the
cognitive task to be performed.  In these images we remark that most of the time is spent looking at the eyes and the mouth. Other studies show that these are the regions we mostly rely on for face recognition. We therefore focus on those regions for our Facial Features detection and Face Authentication algorithms».
http://diwww.epfl.ch/lami/team/smeraldi/saccadic/yarbus.html

Occhio e fotocamere Davide Dassio
www.nadir.it/pandora/occhio-e-fotocamere/dassio.htm
Leonardo e la visione maculare
www.fondazionemacula.it/pagine/dettaglio_scienza.php?id=1
Macula and Fovea
http://depts.washington.edu/ophthweb/maculapic.html
The eye and its part
www.99main.com/~charlief/Blindness.htm


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