Mosca: USA in crisi di vita o di morte
31 Luglio 2008
«Gli USA sono sull’orlo di una crisi di sopravvivenza, una crisi di massa»: così, secondo Interfax (1),
si sarebbe espressa una «fonte al ministero degli Esteri russo».
L’espressione, nella sua voluta vaghezza, indica probabilmente che la
frase è stata usata dallo stesso ministro, Sergey Lavrov, in una
conversazione informale con i giornalisti, che preferisce non vedersi
attribuire ufficialmente certe valutazioni.
Dunque Mosca si
aspetta una prossima, forse imminente, grave crisi interna americana.
«Gli Stati Uniti sono sulla china di cambiamenti drastici e dolorosi;
tanto per cominciare devono imparare a vivere all’altezza dei loro
mezzi», ha detto la «fonte», aggiungendo che sarebbe utile «una minor
interdipendenza» nelle relazioni fra USA e Russia.
Osservazione
ambigua. La fonte altissima si rincresce per il fatto che le grandi
riserve monetarie russe, denominate in dollari, legano Mosca alla
convenienza di aiutare gli USA a non precipitare nell’abisso? E rendono
la politica russa non abbastanza libera e indipendente di fronte a
Washington?
«Possiamo in futuro raggiungere il momento in cui
saremo capaci di smettere di discutere solo gli argomenti che
interessano la parte americana», ha detto la fonte. Ed ha aggiunto:
«Non siamo nemici degli Stati uniti e purtroppo non siamo ancora amici,
ma stiamo dipendendo sempre meno l’uno dall’altro».
Il fatto che
l’agenzia Interfax abbia riportato una simile chiacchierata con
giornalisti (è avvenuta martedì scorso) sembra indicare che si tratta
ben più di una divagazione: che vi si leggono in filigrana riflessioni, da parte di dirigenti massimi russi, su come prepararsi al
collasso economico americano, come limitarne i danni per la Russia e
come approfittare delle opportunità offerte (2).
Nei
giorni scorsi, in rapida successione, Mosca ha definitivamente sbattuto
fuori la British Petroleum (BP) dalla joint-venture russa TNK, ritenuta
troppo vantaggiosa per gli inglesi e troppo poco per gli interessi
nazionali; il Servizio Federale Antimonopolio ha messo sotto inchiesta
la Evraz Holding (una delle comproprietà del solito Roman Abramovic,
l’oligarca) per abuso di posizione dominante nel settore del coke -
metallurgico; e Putin in persona ha accusato la Mechel (l’altro gigante
del carbone e siderurgico, che con Evraz controlla metà del mercato
russo) di manipolazione dei prezzi e sovraffatturazione per scopi di
evasione tributaria.
Tanto pesano le parole di Putin, anche se
oggi è «solo» primo ministro, che le azioni della Mechel, quotata a New
York, sono precipitate del 38%. Idem per la Evraz, quotata a
Londra; e per la Borsa russa, scesa del 25%>. I capitali
esteri, colti dal panico, si stanno liberando di azioni russe. Come mai
Putin allontana deliberatamente gli «investitori» finanziari
plurinazionali? Che sono così necessari nel mondo globalizzato?, si
domanda il Telegraph (3).
Ecco
appunto: il mondo sta diventando un po’ meno globalizzato, come ha
dimostrato il fallimento della riunione del WTO a Ginevra, e forse lo
diventerà sempre meno. Ciò significa molte cose, ma una in particolare:
che la politica economica interna conterà più che quella globale, e
l’autarchia più che la «interdipendenza».
Questa nuova tendenza
è apparsa chiara a Ginevra: dove il ministro indiano al commercio Kamal
Nath ha resistito come un leone - vittorioso alla fine - per non aprire
le frontiere al «cibo» estero, insommma ai prodotti granari che USA,
Europa, Argentina e Brasile sono disposte a vendere a prezzo «più
conveniente» di quello a cui lo producono i contadini indiani. Quei
contadini sono 600 milioni, e in India pesano: politicamente, ed anche
come problema sociale, perchè nessun governo può abbandonare 600
milioni dei suoi contadini alla miseria che il «libero mercato» fa
cadere su chi non è «competitivo».
I dogmatici del liberismo
globale hanno un bel gridare al protezionismo. Non si sono accorti che
- segno di quanto sia cambiata la situazione globale - questo nuovo
protezionismo non si manifesta solo nè soprattutto in dazi elevati
contro i prodotti esteri a basso prezzo, ma al contrario; tanti Stati
oggi elevano barriere contro le esportazioni dei loro prodotti
all’estero. Lo fa l’Argentina tassando i suoi esportatori di granaglie,
lo fanno il Vietnam e l’India per il riso.
Il cambiamento è
radicale, ed il motivo è ovvio: sta nella percezione che le merci,
materie prime e derrate, hanno assunto un valore che la moneta non paga
più. Specialmente il dollaro, svilito e degradato dalla crisi dei
subprime e dalla «cura» che alla crisi ha portato la FED, consistente
in ulteriore degrado. Il dollaro è la moneta di riserva su cui si basa
la «interdipendenza globale degli scambi». Ma se la moneta con cui il
mondo paga il riso indiano e vietnamita, o il ferro russo, è degradata,
è meglio tenersi la merce.
È quello che fa chiaramente la
Russia. Spaventa e fa scappare gli «investitori esteri»? Poco male, a
scappare sono dollari e che presto varranno pochissimo, e la Russia ne
ha già anche troppi. Evraz e Mechel sono due colossi del settore
minerario-industriale, del carbone e acciaio. Oggi valgono meno in
Borsa a New York? Niente di male, il carbone e il minerale ferroso che
le due aziende estraggono in Siberia, da miniere di loro proprietà,
può restare sottoterra: mica deperisce. Il dollaro e le altre monete di
conto, invece, deperiscono. Carbone-acciaio sono beni-rifugio, e sono
beni strategici. In tempi di crisi globale, è meglio averli che averli
venduti.
Probabilmente Mosca, spaventando i capitali esteri
speculativi, pone le basi per scongiurare una replica del grande
saccheggio dell’era Eltsin, quando giovanotti ebraico-russi, con denari
a loro prestati dai Rotschild o dai Goldman Sachs, si accaparrarono
interi patrimoni minerari, come la Yukos, per un centesimo del valore.
Anche
quando Putin si riprese la Yukos, sbattendo in galera il suo
padroncino Khodorkovki, i «mercati» voltarono le spalle alla Russia
che non rispettava i diritti di proprterà, e anche allora «gli
investitori occidentali» minacciarono di far mancare i loro capitali al Paese. Quelli che lo fecero davvero si mordono ancora le mani: hanno
mancato i rialzi del 300% della Borsa moscovita.
Quindi
Putin ha ragione a non preoccuparsi. Il denaro va, il denaro viene e -
soprattutto - il denaro si crea dal nulla, al contrario di petrolio,
carbone, acciaio e granaglie.
È istruttiva la dichiarazione alla stampa con cui Putin ha fatto crollare il titolo della Mechel:
«Abbiamo
una ditta rispettata qui... a proposito, abbiamo invitato il
proprietario Igor Vladimirovic Zyusin (il socio di maggioranza della
Mechel, miliardario) all’incontro di oggi, ma d’improvviso si è
ammalato. Intanto, è noto che nel primo trimestre di quest’anno la
ditta (Mechel) ha esportato materie prime all’estero ad un prezzo che è
la metà di quello internazionale, e di quello che pratica all’interno.
E dove sono finite le tasse di margine per lo Stato?».
Poi ha
aggiunto: «Naturalmente la malattia è malattia. Ma Igor Vladimirovic
deve rimettersi il prima possibile, altrimenti gli dobbiamo mandare un
dottore».
Detta da un ex colonnello del KGB fiero di esserlo,
quest’ultima frase avrà fatto scendere lungo la schiena del miliardario
Zyusin brividi più potenti di qualunque influenza. E' chiaro il sospetto
di Putin: vendite a prezzo dimezzato di ferro e carbone, che sui mercati stanno rincarando, non sono solo evasione fiscale, può essere
anche la nuova tattica per replicare il grande saccheggio degli anni '90.
Preoccupa il governo di Mosca anche l’inflazione interna,
oggi al 15%, che minaccia la pace sociale e la popolarità del
sistema. La JP Morgan, che s’è premurata di abbassare la sua
valutazione sui titoli russi (fatto comico, visto come le grandi banche
USA hanno valutato i titoli sub-prime), ha citato come ragione «il
rischio che per controllare l’inflazione vengano usati sistemi
non-convenzionali».
Come come? I metodi «convenzionali» per il
controllo dell’inflazione sono il rialzo dei tassi d’interesse: così fa
Trichet, la Banca Centrale Europea. Non riesce a contrastare nessuna
inflazione; ma quello è il solo sistema che, secondo il dogma
liberista, «non interferisce con le forze del mercato», con la mano
invisibile.
Anzi no, c’è un altro sistema «convenzionale» ossia
ammesso: la moderazione salariale. Impedire che i salari rincorrano
l’inflazione, quindi riducendo il potere d’acquisto dei lavoratori.
I
sistemi «non-convenzionali» sono quelli che interferiscono con le forze
di mercato, e sono quindi eretici e intrinsecamente malvagi per JP
Morgan. Putin li ha già usati, per esempio congelando i prezzi durante
l’inverno (allora si può!). Al bisogno, quel malvagio potrebbe persino
«mettere l’economia russa sotto il controllo diretto della Stato».
Eresia eresia. Ma magari, fra qualche mese, la Russia ci sarà ancora e JP Morgan sarà sparita nel gorgo.
1) «US is on brink of survival crisis, according to Moscow», Interfax, 29 luglio 2008.
2)
Si veda per esempio Fred Weir, «Russia’s plan to avert secondo cold
war», Christian Science Monitor, 29 luglio 2008. Il riferimento è
alla proposta di Dimitri Medvedev, il presidente, di ridisegnare il
sistema di sicurezza euro-atlantico, sostituendo la NATO con
un’alleanza a cui parteciperebbe la Russia come partner fondatore,
alla pari. Medvedev ha lamentato che alla Russia non sia lasciata
alcuna parte nel contribuire a disegnare la sicurezza gobale.
3) Ambrose Evans-Pritchard, «Kremlin’s heavy hand triggers foreign exodus», Telegraph, 31 luglio 2008.
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