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La vera bomba islamica
28 Febbraio 2011
Un emirato a Bengasi? Al Qaeda in marcia? Biblica invasione islamica? Pericolo fondamentalista? Quante chiacchiere. La vera bomba caricata in Maghreb e nel mondo arabo si chiama disoccupazione giovanile.
Esiste un ente chiamato Arab Labour Organisation, secondo cui i Paesi arabi soffrono del più alto tasso di disoccupazione al mondo: rispetto ad una percentuale mondiale del 5,7%, gli arabi disoccupati sono il 14,5%. Questo, se si vuol credere alle cifre ufficiali della Arab Labour Organisation. Altre cifre vengono dalle agenzie di analisi economiche, finanziate dalla speculazione finanziaria per valutare il rischio-Paese – entità che evidentemente hanno sostituito l’intelligence politica nella comprensione degli eventi.
Per esempio, gli specialitsi di Global Risk scrivono: «Il 65% della popolazione della Lega Araba ha meno di 30 anni. La disoccupazione giovanile è straordinariamente alta, fino al 75% in Paesi come l’Algeria. L’economia informale fornisce in certa misura un rimedio, ma non fornisce la sicurezza. Non va dimenticato che la rivoluzione dei gelsomini in Tunisia è stata innescata dall’auto immolazione di un giovane disoccupato, Mohamed Bouazizi, a cui la Polizia aveva sequestrato la bancarella con cui vendeva frutta e verdura». (Enter you email address and zip code to set up customized email alerts. Email Zip The Price Of Oil, Food Crisis, Arab Revolutions, And Thinking About The 21st Century Arab Awakening)
Il 75% dei giovani sono senza lavoro in Algeria: non stupisce che il regime abbia imposto lo stato d’emergenza da 19 anni.
Il gruppo bancario nipponico Nomura ha commissionato un’analisi ad un esperto del Council on Foreign Relations, Steven Cook: anche lui sottolinea il gonfiamento (bulging) della popolazione giovanile e la conseguente disoccupazione o sottoccupazione come causa delle rivolte che hanno rovesciato i regimi in Egitto e Tunisia. Nomura pubblica una interessante tabella dove si vede, per esempio, che oltre il 40% della popolazione ha meno di 15 anni in Paesi come Iraq e Yemen, 34% in Siria e Giordania, oltre il 30% in Libia, Egitto, Arabia. E l’età mediana, ossia dell’arabo-tipo, è in tutti i Paesi attorno ai 20-26 anni. (After Mubarak, What Next?) L’Economist del 9 febbraio 2011 ha stilato una tabella in cui soppesa l’indice di rivolta di vari Paesi musulmani. In questo indice, la percentuale di giovani sotto i 25 anni pesa il 35%, e il numero assoluto dei giovani sotto i 25 un altro 10%. Gli altri fattori – anni in cui il regime è al potere, corruzione, PIL pro-capite, restrizioni alla libertà – pesano meno.
Va notato che la disoccupazione giovanile è in crescita impetuosa dovunque, non solo nei Paesi arabi, come conseguenza della globalizzazione (delocalizzazioni) e della crisi finanziaria trasformatasi in depressione economica globale. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro valuta che la disoccupazione giovanile è salita dall’11,9 % del 2007 al 13% del 2009, e continuerà a crescere negli anni a venire. In Spagna (dove la disoccupazione fra i giovani supera il 40%), Gran Bretagna e Italia, si è creata una fascia giovanile che ha rinunciato a cercare il lavoro: la cosiddetta «generazione perduta», che non acquisterà mai più le competenze e le qualificazioni necessarie per trovare lavoro, e che solo nei posti di lavoro si acquistano (specie quando la scuola è come la nostra). Anche negli Stati Uniti la disoccupazione giovanile è enorme, specie fra i negri: 34,5% secondo le edulcorate statistiche del lavoro americane.
Nei Paesi musulmani, la questione del rincaro dei generi alimentari – conseguenza diretta della moltiplicazione dei dollari (quantitative easing) operata dalla Federal Reserve per salvare gli speculatori e le sue banche – ha assunto un ruolo cruciale nelle rivolte. Per noi, che dedichiamo al cibo il 21% del nostro reddito (e gli americani solo il 15%), è difficile capire cosa significhi il rincaro del pane per un egiziano, che spende per mangiare quasi il 50% del suo reddito, o per un marocchino che spende il 63%. E in Egitto, il cibo è rincarato del 17% solo nell’ultimo anno.
Ha scritto il giornale Gulf News del Dubai: « Il tunisino Mohammad Bouazizi non s’è dato fuoco perchè non poteva votare o dire la sua su un blog. La gente si dà fuoco quando vede la sua famiglia minacciata della fredda, nuda morte per fame». Si può aggiungere: algerini, tunisini, libici, egiziani non hanno affrontato le mitragliatrici dei loro dittatori per affermare l’integralismo islamico e creare emirati e califfati. E’ che, semplicemente, vogliono vivere: un bisogno elementare e giusto, che probabilmente nessun regime, democratico o no – potrà esaudire.
Una gioventù numerosa, affamata, che vuol vivere e conquistarsi il futuro è da sempre il furioso potente motore della storia, delle guerre, delle invasioni, dei mutamenti epocali. Noi vecchi europei senza figli, chiusi nel nostro egoismo, l’abbiamo dimenticato. A nostro danno.
Il che non vuol dire che, comunque, non potevamo farci nulla. Una cosa poteva fare il governo italiano: mandare qualche centinaio di parà della Folgore a Bengasi, con navi d’appoggio ed aerei, per proteggere gli interessi nazionali, armare ed organizzare gli insorti della Cirenaica, onde prepararsi l’amicizia e la gratitudine del nuovo regime che succederà a Gheddafi. Ma questo suppone qualche elemento: i nostri soldati validi non in Afghanistan o in Libano a fare interposizione a servizio di Usrael, alcuni nostri agenti d’intelligence parlanti arabo ed esperti di senussi.
Ne avevamo. Ma l’ultimo, il colonnello Giovannone, oscuro eroe della Beirut di Fatah e dei falangisti, morì nel 1985 degradato, perseguito in innumerevoli processi dalla nostra eccellente magistratura decisa a far pulizia anche negli angoli necessariamente bui della ragion di Stato. Dopo, non abbiamo avuto che i Pollari e gli agenti Betulla.
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