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A che serve la Borsa?
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La Borsa risale, e tutti i media contenti: forse siamo fuori dalla crisi.

Citazione: «Al 12 ottobre, il Dow Jones Industrial Index, su cui si misurano i ritorni di molti investimenti, chiuse al livello nominale di 14.693. I media, ovviamente, lo salutarono come un buon auspicio. Il 23 maggio 2008, il Dow ha chiuso a 12.480, solo il 15% di ribasso sul suo record. Non tanto male dopo la crisi dei supbrime e lo scoppio della bolla, almeno a prima vista. Tuttavia, se messo in relazione all’indice ufficiale dei prezzi che dal gennaio 2000 dà un’inflazione del 4% (che è molto sotto la vera inflazione provata dai veri esseri umani), il Dow valeva, al maggio 2008, solo  9.856. E ciò prendendo per buone le cifre d’inflazione ufficiali, che sono ridicolmente ottimistiche».

Cosa significa nel mondo reale?

«Immaginate di aver investito 11.723 dollari il 14 gennaio 2000, quando il Dow era a 11.723. Lo stesso denaro, allora, poteva comprare circa 460 barili di greggio, 40 once d’oro, il 9%  di una media casa familiare. Otto anni più tardi, i soldi che avreste messo nel Dow sarebbero cresciuti a 12.480 dollari, con un guadagno nominale di 757 dollari, il 6,4%. Ma con quel denaro accresciuto oggi comprate solo 105 barili di greggio, ossia 355 in meno (-77 %), 27 once d’oro in meno (-66%) e, nonostante in grande calo dei prezzi immobiliari del 15,8%, soltanto il 6% di una casa media familiare (-33 %). Insomma, l’investitore del 2000 ha diritto a dirsi derubato in termini reali, nonostante l’aumento nominale del Dow del 6,4%» (1).

Ma la Borsa serve a finanziare l’economia, dicono i media.

Altra citazione: «Nell’insieme dei mercati finanziari europei l’emissione netta di azioni, ossia il valore lordo di tutte le azioni emesse, al netto dei riscatti (riacquisti di azioni proprie da parte delle imprese) e dei dividendi versati agli azionisti, è negativa da parecchi anni. I dividendi raggiungono un valore vicino a quello delle emissioni di azioni, vale a dire che le società emettono azioni per renumerare i propri azionisti» (Dominque Plion su Le Monde Diplomatique, 9 febbraio 1999).

Ma ciò perché in Europa i «mercati» sono arretrati ed asfittici, dice 24 Ore: guardate invece in America, dove la Borsa è la più grande e libera del mondo.

Guardiamo: «A parte il breve periodo 1991-94, durante il quale l’emissione di azioni netta è stata di 50 miliardi di dollari l’anno, ossia poco o nulla, la Borsa ha distrutto capitale. Ne ritira più di quanto ne ha emesso. Nel 2001, ad esempio, il volume delle azioni emesse è stato più che compensato da quello delle azioni distrutte (con l’acquisto di azioni proprie), cosicchè il totale delle emissioni nette di capitale è risultato negativo per circa 330 miliardi di dollari» (2).

In Italia la schiacciante maggioranza delle imprese private, quelle che forniscono il 90% dei posti di lavoro, hanno meno di 100 dipendenti e non sono certo quotate in Borsa. Il capitale, lo raccolgono dall’indebitamento o dall’auto-finanziamento. Dovunque nel mondo, i «mercati» borsistici «pesano» per meno del 10% cento del capitale delle rispettive nazioni.

Conclusione provvisoria: smettiamo di preoccuparci della Borsa. Negli anni del boom italiano, la Borsa vivacchiava, e l’Italia reale cresceva.

Ma in Borsa c’è chi ha fatto guadagni favolosi, dicono i media. Questo è vero. Pochi hanno fatto soldi, essenzialmente, a spese dei milioni che nel 2000 hanno investito in Borsa 11.723 dei loro sudati dollari, anzichè comprarci 460 barili di greggio o 40 once d’oro.

Quelli cioè che hanno creduto che «i mercati» siano ciò che predicano Giavazzi e 24 Ore: che là vi sia «la concorrenza» perfetta, la «trasparenza» assoluta, e tutti gli altri miti del liberismo. Insomma, quelli che credono che il gioco sia  leale. Quei pochi, in realtà, hanno guadagnato perchè avevano informazioni che a quei milioni (detti «parco buoi») sono state taciute: tanti saluti alla «trasparenza».

Quanto alla «concorrenza» e al gioco «leale», per confronto, andate nel vero mercato, quello della frutta e verdura che nelle grandi città si tiene un giorno alla settimana in ogni quartiere. Lì dove dozzine di bancarelle vendono «valori» fisici, di cui avete bisogno e di cui sapete valutare la bontà: pomodori e lattughe, mica derivati e obbligazioni thailandesi o argentine. Dove non avete bisogno che Standard & Poors vi dica quanto valgono le albicocche come vi dice quanto valgono le obbligazioni sub-prime, perchè il fruttivendolo è disposto a farvene assaggiare una e potete giudicare da soli.

Domandatevi: come mai tutte queste bancarelle si mettono lì l’una a fianco all’altra, ad offrirvi gli stessi pomodori, lattughe e albicocche, con variazioni di prezzo minime? Non hanno paura della «concorrenza»? Non temono che qualcuno di loro fallisca, incapace di reggere «la competizione»? Non sarebbe meglio, per i profitti, che ciascuno piazzasse la sua bancarella da sola, in quartieri diversi?

No. I bancarellari si ammassano tutti insieme perchè è la loro concentrazione ad attirare in folla le casalinghe clienti. Le bancarelle solitarie - a volte se ne vede qualcuna - sono malinconicamente disertate. Dunque, ad aumentare i fatturati delle bancarelle è il loro accordo più che la «competizione» intesa come lotta di tutti contro tutti, più l’armonia che la «concorrenza».

Ciò si chiama «capitale sociale», ed è qualcosa di impalpabile - di culturale - che il liberismo economico disprezza totalmente, perchè non è vendibile. O prova ad appropriarsene per renderlo vendibile, come la Monsanto quando brevetta una qualità di riso che gli indiani coltivano da secoli, e i colossi degli OGM brevettano pezzi di DNA di qualche essere umano.

Molto significativamente, appena gli economisti di Chicago hanno potuto far passare la Russia dal socialismo al «mercato», hanno cominciato col lasciar andare in rovina il grande capitale sociale ereditato dal collettivismo: dall’altissimo livello di istruzione, alla scienza, alla sanità pubblica.

Ho conosciuto personalmente una primaria di oncologia pediatrica (ero a Chernobyl) che guadagnava 300 euro al mese; molti suoi colleghi medici specialisti erano andati a fare i taxisti, prendevano sette volte di più.

Dissipazione di qualità umane e di relazioni sociali essenziali, ecco a cosa s’è ridotto il capitalismo di «Borsa».

Io stesso fui tentato di assumerla come badante per la vecchia mamma: 900 euro mensili, che ne dice? Ma l’avrei sottratta a quei bambini con la testa pelata e le occhiaie, le ossa piene di Stronzio 90. Che lei curava praticamente gratis, al massimo delle sue capacità scientifiche.

Ecco perchè in Borsa alcuni guadagnano: sono quelli che giocano per se stessi, nella sicurezza che gli altri, i più, giochino per la collettività: facciano degnamente il loro mestiere mentre vengono derubati di salario e risparmi, mantengano le relazioni sociali e i patrimoni comuni gratuiti, che fanno crescere la società intera. E’ lo stesso che gettare i rifiuti nei fiumi, perchè i fiumi sono collettivi, ossia di nessuno.

Il fatto è che ogggi siamo tutti «capitalisti», tutti abbiamo imparato la lezione del «mercato» terminale: tutti tendiamo a giocare per noi stessi, contro la società e il suo bene. Forse per questo i guadagni di Borsa non sono più quelli di un tempo. Ormai non ci sono più patrimoni sociali, cultura alta, onestà, civismo, orgoglio del lavoro ben fatto, patriottismo da consumare.

Ognuno da parte, con la sua bancarella, lontano dagli altri, sperando di vendere i pomodori un po’ marci. Il risultato è l’impoverimento generale. Meritatissimo.




1) John Browne, «Set to soar - or swoon», Asia Times, 15 agosto 2008.
2) Bernard Maris, «Antimanuale di economia», Tropea Edizioni, 2005.


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