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Una bella quaresima
31 Marzo 2011
Cari lettori, come molti di voi già sanno ho problemi di salute. A dicembre mi è stato rilevata a Viterbo una neoplasia polmonare, prontamente (fin troppo prontamente) operata a Milano all’Istituto dei Tumori. Un paio di settimane dopo, convalescente dall’operazione polmonare, ho dovuto correre al pronto soccorso dell’ospedale San Carlo di Milano, dove mi è stato trovato un infarto in atto, risolto temporaneamente con l’inserimento di una sonda nell’arteria femorale per l’applicazione d’urgenza di uno stent nell’arteria circonflessa, in attesa di una promessa operazione di by-pass. Sono dunque colpito in contemporanea dalle due patologie che sono, statisticamente, le prime due cause di morte. E’ un fatto di cui esito a parlarvi, cari lettori, per tanti motivi, alcuni di pudore, altri non chiari a me stesso. Questa cosa non riguarda voi, come le altre battaglie e polemiche civili e politiche di cui per anni abbiamo trattato in questo sito; è questa una prova che riguarda solo me, nella radicale solitudine di ciascuno di noi di fronte a Colui che spero e credo (Signore, sostieni la mia debole fede) il Misercordioso. Un rapporto che scopro ambivalente: la paura e il dispiacere di non essere più a breve si mescolano alla gratitudine per la croce ricevuta; mi è stata data la possibilità di ravvedermi e di espiare i miei tanti tradimenti, di accettare la Sua volontà che tanto spesso ho negato in passato. So, e ne sono sicuro, che quel è che si presenta qui come malattia, invece per l’aldilà può essere la medicina, la medicina che mi occorre. L’occasione di espiazione e di intercessione che può rendermi degno della Vita senza-morte. Se anche tutto ciò fosse l’esito di una pulsa denura contro di me, a maggior ragione è l’occasione da cogliere per invocare la salvezza e la conversione dei nemici. Vedete, già si manca di pudore a dire queste parole grosse. E’ per indicare che la teoria la conosco (il cristiano vince sempre, nessuna sofferenza è priva di senso); altra cosa è la pratica, che si dovrà affrontare giorno per giorno, e alla quale mi so terribilmente insufficiente; spero per questo non nelle mie forze, solo nell’aiuto di Gesù, della Vergine e di Giuseppe, nella cui misericordia confido. Vi chiederei di pregare perchè mi soccorrano in questo. D’altra parte, mi domando: questo atteggiamento non pregiudicherà la possibilità di guarigione, non indebolirà la primitiva, elementare volontà di vivere, necessaria a mobilitare le forze psico-organiche di reazione immunitaria? Un medico seguace del dottor Hamer, lui stesso non credente, mi ha ricordato la parola di Gesù, «chiedete e vi sarà dato», per ammonirmi che nulla vien dato a chi non crede. Sto dunque pregando di guarire, sapendo che Dio può tutto; ma naturalmente, col solito problema della debolezza della mia fede, e il dubbio più a fondo: se io merito di guarire. Chiedere di vivere ancora, ha senso se si ha ancora un compito da svolgere, ed io da tempo ormai sentivo che il lavoro informativo che m’ero assegnato (senza probabilmente averne ricevuto il mandato) e che ho svolto in questo sito, non basta a giustificarmi, non è più quello che occorre. Denunciare i poteri forti e le loro manovre, occuparsi di politica e del potere e dell’attualità, significa legarsi troppo a questa «aiuola che ci fa’ tanto feroci», e che in ogni caso dobbiamo tutti lasciare. Significa ostinarsi alla «manutenzione della civiltà» con uno sforzo che comincia ad apparirmi ridicolo, visto che la nostra civiltà greco-romana-cristiana si sgretola sotto i nostri occhi dovunque guardiamo – dalla Libia alle nostre scuole che trasmettono inciviltà e incultura, dalla centrale di Fukushima con la sua gestione incompetente e disonesta, dall’Europa che si disfa alla NATO che si spacca, dal pullulare di gruppi reciprocamente ostili ai comportamenti pubblici e privati dei nostri cosiddetti dirigenti, e agli applausi di massa che tali comportamenti, aberranti, abnormi, buffoneschi, assatanati o satanici riscuotono. Il crollo di una grande civiltà implica che essa verrà sostituita dalla violenza (violenza come prima ratio) e dal nudo sopruso del potere, senza limiti nè regole – il dominio di ciò che i greci chiamavano kràtos e bias. Ma d’altra parte, le civiltà decadono, come ogni altra cosa soggetta all’entropia; e ostinarsi a puntellarle, a ricordare (invano) la grandezza del diritto romano e la cordialità amica dell’uomo dei suoi ordinamenti e delle sue architetture; additare il romanico e il barocco fra cui abitiamo ad abitanti appiattiti sul presente televisivo, e dunque immemori, non è forse più un dovere. E’, temo, una forma di idolatria: nel senso che forse abbiamo (ho) fatto della civiltà il nostro surrogato di eternità, e il nostro sostituto di paradiso. Un sostituto falso, dovuto al fatto che la civiltà supera per durata la vita individuale, e che alimenta in me l’illusione: io non sarò più, ma lascio dietro a me la nostra civiltà. L’illusione sta cadendo, ed è il richiamo ad occuparsi della vera eternità e del vero paradiso, che sono poi le radici da cui le civiltà possono rinascere.
Naturalmente, avere il tumore espone in prima persona agli effetti della civiltà decaduta. Non parlo solo della constatazione personale di come sul cancro si sia instaurato un sistema molto lucrativo di aziende del cancro, che consiste nello sfruttamento aziendale dell’angoscia del paziente e della sua domanda di soccorso quasi impossibile (Dottore, mi salvi) facendolo passare attraverso colossali e sofisticatissimi macchinari diagnostici, ovviamente costosissimi e prodotti in USA e Giappone, la cui superfluità è evidente (nè la TAC nè la PET hanno scoperto di più di quel che aveva già scoperto la modesta radiografia effettuata a Viterbo), ma che giustificano enormi finanziamenti ai prestigiosi istituti che se ne dotano, e di cui spero che abbiano, almeno, un effetto-placebo su pazienti impressionabili dalla terminologia tecnologico-atomica (Reparto di medicina nucleare, tomografia computerizzata). Il peggio è che si viene inseriti in una sorta di catena di montaggio pseudo- terapeutica, agìta da curanti che non possono ignorare l’essenziale incurabilità del male, specialmente incurabile coi loro protocolli, ma che tuttavia applicano quei protocolli con totale insensibilità di fronte alle devastazioni organiche che provocano e ai dubbi sempre più esplicitamente avanzati, anche in sedi scientifiche, sulla loro utilità. La filosofia terapeutica vigente che tratta il cancro come una malattia locale da estirpare localmente con ferro, fuoco e veleno (chirurgia, radiazioni atomiche e chemio-tossici) si sospetta da decenni radicalmente sbagliata – un giorno spero di scrivere qualcosa sulla idea d cancro come malattia centrale del grande medico Luigi Oreste Speciani che ho avuto l’onore di conoscere – ma ovviamente è fortemente presidiata da interessi di denaro, di prestigio (leggi: Veronesi) e di lucro delle multinazionali farmaceutiche. La cosa ancora peggiore è scoprire che non si riesce ad uscire dalla catena di montaggio distruttiva. Lo dico una volta per tutte agli amici che mi consigliano il metodo Di Bella o la cura Simoncini od altre alternative. Seguire queste strade significa uscire dalla protezione sociale sanitaria, ossia accollarsi tutte le spese – spesso ragguardevoli, una somatostatina consigliata nel metodo Di Bella costando 1.750 euro a confezione – ma anche più spesso scontrarsi coi medici di base che ovviamente non firmano ricette dei farmaci prescritti dal medico alternativo; si aggiunga la difficoltà pratica di seguire certe terapie che richiedono lunghe infusioni o interventi chirurgici, al di fuori del sistema ospedaliero ufficiale. Come si fa, in pratica? Chi c’è riuscito, ha suggerimenti da darmi? Era peraltro mia ferma intenzione, dopo la resezione polmonare all’Istituto dei Tumori, di rifiutare la chemio prescritta dai protocolli (cisplatino, cortisone immuno-soppressore, eccetera) e l’altrettanto prescritta radiazione della testa (1). Ma ecco cosa mi è accaduto: colpito da infarto, vado al pronto soccorso del San Carlo di Milano, e lì nell’unità coronarica sottoposto al posizionamento dello stent nell’arteria. Sùbito dopo l’intervento, un signore che si presenta come cardiochirurgo a Niguarda mi annuncia che quella operata nella mia arteria circonflessa è solo una soluzione-ponte, che occorrerà sottopormi ad una imponente operazione di by-pass; anzi sarei stato portato immediatamente a Niguarda, se non fosse che il precedente e recente intervento consigliava di lasciar passare un mese. La mia operazione cardiaca viene quindi fissata per il 2 maggio. Senonchè, al San Carlo, sopra il reparto di cardiologia in cui vengo ricoverato per qualche giorno, c’è anche l’oncologia. E la locale oncologa convince i cardiologi che no, che prima dell’operazione a Niguarda, devo essere sottoposto a chemio: sei sedute, un centinaio di giorni che passeranno, al termine dei quali avrò ancora la condizione per subire un intervento chirurgico al cuore? Io cerco di ribellarmi, dico: voglio fare l’operazione al cuore prima della chemio. Il cardiologo ribatte: senza la chemio (secondo loro preventiva), il cardiochirurgo non la opererà (non vale la pena, è il messaggio implicito, su un paziente condannato dal cancro). In pratica, mi accorgo che gli sbandierati diritti del malato si riducono a nulla. Si ha il diritto di fare testamento biologico per consentire -– sostanzialmente – alla propria eutanasia passiva, ma non di rifiutare una chemio comprovatamente dannosa: è il protocollo, non il paziente e l’essere umano, ad avere la priorità del diritto. Se non mi curo il cancro come dicono loro, non avrò nemmeno la cura del cuore. Va da sè che i chemioterapici sono cardiotossici, e possono precipitare un secondo infarto; ma questo non sembra impressionare i cardiologi. Devo fare la cura prescritta. Qui vorrei chiedere a chi ne sa: come posso tutelare il mio diritto del malato? A chi rivolgersi? Dove cercare un avvocato, oltre a un cardiochirurgo disposto ad operarmi? Altrimenti dovrò accettare la chemio. Come una nuova tappa della mia personale via Crucis. Spero che Cristo mi faccia da maestro. Frattanto, dal lato positivo, voglio dire che sto facendo una bella Quaresima – digiuni, mortificazioni della gola, astensione dal bicchiere di vino – che non ho mai avuto la volontà e la forza di fare in passato. Non è male.
1) Qualche citazione fra le tante possibili. «Il professor Vittorio Staudacher, membro del Comitato Etico dell’Istituto Nazionale dei Tumori, già chirurgo e clinico all’Università di Milano e membro del Consiglio direttivo della Scuola Europea di Oncologia, ha affermato sul Corriere della sera: ‘La chemioterapia, con l’eccezione delle leucemie e dei linfomi, è incapace di guarire i tumori. E mette l’inferno in corpo ai malati’ ». Quanto al noto farmacologo Silvio Garattini, ha ammesso, sulla rivista Le Scienze: «Nonostante la mole di ricerche e i conseguenti impegni economici, si deve riconoscere che i risultati nel trattamento del cancro sono ancora relativamente modesti. Il miglior trattamento, quando sia possibile, rimane ancora la chirurgia, mentre tutto l’insieme dei trattamenti antitumorali (chemioterapia, immunologici e radianti) arriva a malapena a determinare una guarigione (più di cinque anni di sopravvivenza) in circa il 10% dei pazienti trattati». Una valutazione ancor troppo ottimista, secondo un lavoro scientifico australiano pubblicato nel 2004, che prende in esame dieci anni di statistiche mediche australiane e americane (gennaio 1994-gennaio 2004) sui risultati della chemio nella cura del cancro. I risultati sono catastrofici: solo il 2% dei pazienti sottoposti alla chemio risulta essere ancora vivo dopo 5 anni dall’inizio del trattamento terapeutico. The contribution of cytotoxic chemotherapy to 5-year survival in adult malignancies - Dicembre 2004, Morgan G., Ward R., Barton M. Department of Radiation Oncology, Northern Sydney Cancer Centre, Royal North Shore Hospital, Sydney, NSW, Australia. gmorgan1@bigpond.net.au Comment in Clin Oncol (R Coll Radiol). 2005 Jun;17 (4): 294. Abstract AIMS: The debate on the funding and availability of cytotoxic drugs raises questions about the contribution of curative or adjuvant cytotoxic chemotherapy to survival in adult cancer patients. Materials and methods: We undertook a literature search for randomised clinical trials reporting a 5-year survival benefit attributable solely to cytotoxic chemotherapy in adult malignancies. The total number of newly diagnosed cancer patients for 22 major adult malignancies was determined from cancer registry data in Australia and from the Surveillance Epidemiology and End Results data in the USA for 1998. For each malignancy, the absolute number to benefit was the product of (a) the total number of persons with that malignancy; (b) the proportion or subgroup (s) of that malignancy showing a benefit; and (c) the percentage increase in 5-year survival due solely to cytotoxic chemotherapy. The overall contribution was the sum total of the absolute numbers showing a 5-year survival benefit expressed as a percentage of the total number for the 22 malignancies. Results: The overall contribution of curative and adjuvant cytotoxic chemotherapy to 5-year survival in adults was estimated to be 2.3% in Australia and 2.1% in the USA. Conclusion: As the 5-year relative survival rate for cancer in Australia is now over 60%, it is clear that cytotoxic chemotherapy only makes a minor contribution to cancer survival. To justify the continued funding and availability of drugs used in cytotoxic chemotherapy, a rigorous evaluation of the cost-effectiveness and impact on quality of life is urgently required. PMID: 15630849 (PubMed - indexed for MEDLINE).
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