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L’azzardo di Obama
31 Marzo 2011
Libia. Dunque vediamo chi è d’accordo: l’ONU, le sinistre mondiali, Obama, gli inglesi, il dohmnè Sarkozy, Bernard Henry Levy, Behndit Coehen. Insomma avete capito. Diciamo i liberal? Contro ci sono Germania, Cina, Russia, Siria, Iran, Turchia e altri. Ah, in Italia, la Lega.
E Israele? Israele è spiazzato e dopo aver tentato di appoggiare Mubarak, gioca al rilancio: bombardate anche l’Iran, perché è lì che è cominciato tutto, un anno e mezzo fa. Per il premier israeliano Benyamin Netanyahu le rivolte in corso in Libia e in diversi Stati della regione non sono cominciate a Tunisi, ma un anno e mezzo fa in Iran quando centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza per chiedere libertà, uguaglianza e diritti. Se il mondo democratico si mobilita per impedire stragi in Libia, ha sottolineato, deve fare lo stesso anche in Iran. Aron Lieberman, ministro degli Esteri israeliano, rincara la dose: «In Siria vorrei vedere gli stessi principi e iniziative usati in Libia dall’Occidente».
Temo che entrambi siano rimasti superati dagli eventi. E’ chiaro a tutti che la primavera di libertà del mondo arabo non è il fiorire di rivolte spontanee e che c’è sicuramente una regia occulta dietro. Tuttavia è innegabile che esse siano anche il momento di raccolta di una vasta semina all’interno di quell’area geografica, ove internet ed i blog, il tam-tam della protesta, sono stati per anni ciò che la stampa fu per le rivolte ottocentesche, la radio per quelle della prima metà del novecento, la musica per il ‘68 e la televisione per l’89 nell’Est europeo. Anche lì il terreno era stato ben preparato dal miraggio dei valori universali, forgiati dal pensiero occidentale.
Tutto ciò che sembra opporsi a questo modello unico, tutto ciò che non è o non è più funzionale, tutto ciò che porta con sé strutture politiche resistenti, refrattarie, obsolete deve essere e viene spazzato via: accadde in Europa con due guerre mondiali, con cui vennero spazzati via dapprima gli imperi centrali e poi i socialismi nazionali. Non importò al nascente nuovo ordine che interi popoli, a partire dalla Russia e poi – dopo il ‘45 – l’intero Est europeo, gemessero sotto la peggiore delle oppressioni: quella comunista. Il comunismo fu lo strumento per strappare l’anima di milioni di persone, che nel radicamento nella propria storia ed identità avevano fatto la ragione stessa delle propria esistenza. Quando poi il comunismo non servì più (anche perché dopo Stalin esso aveva assunto caratteristiche identitarie e nazionali, anzi neoimperiali), anche il comunismo fu lasciato implodere.
In Occidente, dopo l’incidente dei Fascismi, l’ordine democratico che ne seguì fu presto eroso dei suoi residui retaggi tradizionali, allorchè il vento della libertà sospinse dalla West-coast un fremito che incendiò una generazione. Il ‘68 trovò una generazione che già era stata mossa dalla beat revolution e prima ancora dal vento del Concilio. La nazionalizzazione delle masse (sperimentata, secondo l’espressione di Mosse, durante i regimi fascisti) fu seguita dall’internazionalizzazione delle masse e a guidarla non fu – come sembrava – l’internazionalismo proletario, ma il mondialismo cosmopolita di matrice anglosassone: sesso, droga e rock and roll furono gli ingredienti di un cocktail irresistibile, che fece piazza pulita delle ultime propaggini del vecchio mondo. E se la droga non fu di tutti, lo fu – quasi senza eccezione – il sesso: do it e vietato vietare divennero i nuovi comandamenti di genti per le quali le astratte libertà rivoluzionarie divennero più importanti delle vecchie libertà identitarie.
In Medio-Oriente pare stia culturalmente accadendo lo stesso: sopita l’ubriacatura islamica, soprattutto i giovani ed i giovanissimi vedono grazie ad internet il Mondo nuovo coi sui seducenti, irresistibili modelli. L’Occidente rimane un nemico, ma non da distruggere, quanto da prendere, anzi da cui farsi catturare.
A ciò si aggiunga che l’immobilismo dei regimi dittatoriali, articolato intorno a monarchie parassitarie o a consunti esponenti dei partiti socialisti nazionali di matrice baath (che poco o nulla a livello di carisma hanno oggi in comune con i vari Duci che governarono l’Europa nel corso del XX secolo, anche a causa di un livello di corruzione e familismo che li fanno assomigliare talvolta a delle vere satrapie) diviene anche un insopportabile freno allo sviluppo delle risorse umane ed un tappo che impedisce una necessaria circolazione delle elitès. Risultato: basta un refolo di libertà e il gioco è fatto.
Naturalmente la libertà è sempre un’eccellente bandiera da innalzare per chi vuole conquistare una nazione: presentarsi come liberatori è un credito da spendere per ricomprare ai popoli quella libertà per cui hanno combattuto. Figuriamoci se poi questi popoli non solo vogliono farsi conquistare, ma addirittura – appena possono – in Occidente ci scappano.
La situazione è dunque complessa: i nordafricani vogliono libertà, lavoro e Occidente e l’Occidente vuole il Nord-Africa, per prendersi l’Africa con le sue ricchezze ed i suoi 733 milioni di ettari di terra agricola e il Medio-Oriente, prima che se la prenda la Cina. Giacchè sullo sfondo entro il 2015 è con l’inarrestabile potenza cinese che occorrerà fare i conti.
In Tunisia tutto è filato liscio. In Egitto c’è voluto un po’ di più. In Libia le cose stanno andando in modo non previsto e dopo l’esaltazione dei primi giorni e la riconquista di Gheddafi, l’Occidente ha deciso per l’intervento armato, mascherato secondo lo stile delle guerre politicamente corrette da intervento umanitario. Come andrà a finire non si sa. Un giorno gli insorti avanzano, un giorno indietreggiano. I francesi vogliono chiudere la partita e dare armi agli insorti, gli anglo-americani sono più prudenti, il governo italano propone a Gheddafi di andare in esilio. Magari ad Arcore con la nipote di Mubarak.
In Siria gli agitatori ci provano, vedremo come andrà a finire. Per ora Assad resiste e cambia il governo.
Nello Yemen la minoranza rivoltosa Huthi, di rito è zaidita, cioè sciita (come l’Iran) e quindi può crepare, oppure è fondamentilista, quindi può crepare due volte, o nella migliore delle ipotesi secessionista. E in quest’ultimo caso, coloro che vorrebbero nuovamente dividere lo Yemen, potrebbero trovare l’appoggio dei signori del petrolio, visto che al sud c’è l’80% delle risorse petrolifere.
Nel Bahrein i rivoltosi sono sostenuti dall’Iran e poiché oltre ai fasti della moto GP qui c’è anche una base USA, il tiranno è buono, così buono che il Kuwait ha inviato alcune navi a sostegno delle forze di sicurezza del Bahrein e che le forze congiunte del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), alleanza politico-economica composta da Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Oman, sono già presenti in Bahrein dal 14 marzo con 1.000 soldati sauditi e 500 poliziotti degli Emirati. Il segretario generale del CCG, Abdul Rahman Al Attiyah, ha dichiarato che non esiste un calendario per la permanenza delle unità del cosiddetto Scudo in Bahrain. Intanto la polizia ha sparato sulla folla e fatto 7 morti, ma siccome qui è l’Iran a soffiare sul fuoco l’America si è limitata a consigliare ad Hamad Ben Issa Al-Khalifa, re del Bahrain, di liberare alcuni prigionieri politici.
Nonostante il bel sorriso e i modi occidentali di Ranja e del re Abdullah anche la Giordania è percorsa da fremiti di rivolta e il 65% della popolazione, che è palestinese, potrebbe innescare una rivolta in grado travolgere la monarchia ashemita. Ma non accadrà, come non accadrà in Arabia Saudita. Nessun aereo occidentale si alzerà in volo contro i sovrani-lacchè dell’Occidente. Cadranno i presidenti dittatori, non i re satrapi, purchè inermi e utili.
Gli USA hanno capito che queste rivolte erano un’opportunità: meglio cavalcarle, che esserne travolti, meglio indirizzarle che subirle. E’ chiaro a tutti che l’operazione Odissea all’alba è un’operazione anglo-americana, in cui Sarkozy, per guadagnare consensi all’interno (i sondaggi lo danno fuori dai ballottaggi presidenziali, escluso addirittura da Marine Le Pen) si è preso il proscenio e l’apparente responsabilità dell’inizio dell’attacco.
L’azzardo di Obama, che ha voluto evitare all’America di essere nuovamente scavalcata dagli eventi, come accadde a Teheran con la rivoluzione khomeinista, disegna per il Medio Oriente scenari nuovi. Per governare l’Africa e contrastare la penetrazione cinese occorrono nuovi partner ed anche in Medio Oriente, per andarsene davvero dall’Iraq e da una guerra dispendiosissima, la partnership con Israele non è sufficiente: anzi alla lunga potrebbe diventare un ostacolo alla normalizzazione e al controllo dell’area.
L’operazione Iraqi freedom (a proposito, oggi a Tikrit ci sono stati 50 morti in un attentato) è lì a dimostrare che la politica muscolare è un enorme dispendio di risorse che alla fine produce risultati peggiori di quelli del tradizionale soft power americano: insomma basta con l’esportazione manu militari della democrazia, è tempo di indurre i popoli alla democrazia per contagio della libertà. Agit prop, ONG e altre sigle di copertura possono consentire alla CIA di fare al coperto quello che i marines non riescono più a fare, tanto più se tra i ribelli per la libertà si riescono ad infiltrare propri agenti ed anche agenti provocatori: come fece Bush per le rivoluzioni colorate, questa è la strategia di Obama.
E tuttavia se le rivoluzioni avranno successo bisogna tenere conto di tutte le opposizioni, sicchè (su questo la preoccupazione di Fiamma Nirenstein dal suo punto di vista è fondata) alla lunga soprattutto l’Egitto non potrà non tenere conto della Fratellanza Mussulmana, che essa in futuro abbia o meno direttamente il potere e delle forti presenze jahidiste.
La caduta di Mubarak o di Gheddafi non significa affatto la trasformazione dell’Egitto o della Libia che dir si voglia in una democrazia di stampo occidentale, quanto piuttosto in un sistema politico in cui la rappresentanza islamica – l’unica in possesso (oltre a quella tribale) di una autentica base sociale e culturale - potrà influenzare la politica, al di là delle intenzioni dell’Occidente.
E poi come finiranno le altre rivoluzioni? Che farà Bashar Assad? E come si comporterà Ahmadinejad? Bombardare la Libia è stato relativamente semplice. Ma Damasco e Teheran sono una cosa assai più complessa: già si è visto la scorsa estate che l’Onda verde si è macchiata di sangue senza riuscire a rovesciare gli equilibri politici. E per evitare sorprese ieri i due leader dell’opposizione iraniana, Mehdi Karroubi e Mir-Hossein Mousavi, sarebbero stati rinchiusi in carcere. Forse è solo propaganda, ma certo non è prevedibile che aerei occidentali decidano di colpire la capitale iraniana.
L’azzardo di Obama potrebbe costargli caro, sia che riesca, sia che non riesca. Nel secondo caso le conseguenze sono facilmente immaginabili. La destabilizzazione dell’area e la necessità di rafforzare ulteriormente i legami USA con Israele. Nel primo caso, ove cioè riesca a condurre in porto le rivoluzioni, il risultato sarebbe quello di poter contare su una pluralità di Paesi con cui condividere non solo strategicamente, ma prima di tutto culturalmente il governo di quelle regioni del mondo.
E certamente molti a Gerusalemme, che quelle rivoluzioni, una volta scoppiate, vorrebbero travolgessero con un intervento armato anche Damasco e Teheran, non saranno contenti, anche perché stando al sito filoisraeliano DEBKA, Obama starebbe pensando ad una stabilizzazione della regione anche mediante l’accettazione del nucleare iraniano (www.debka.com/article/20747/). Un incubo per Israele.
Sicchè qualcuno potrebbe tramare affinché quelle rivoluzioni destabilizzino sì, ma non vincano o non vincano completamente. O potrebbe addirittura pensare di raffreddare l’eccesso di entusiasmo di Obama. Con le buone o con le cattive. Incolpare poi agli occhi dell’opinione pubblica Gheddafi o Al Qaeda sarebbe in questo caso un gioco da ragazzi…
Domenico Savino
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