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Due vite
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In occasionali riletture estive ho ritrovato gli atti di due personalità, la cui memoria è cancellata o ignorata. Due vite diverse, entrambi impareggiabili. Su cui mi piacerebbe qualcuno sapesse scrivere una biografia, o realizzare un film.

Alessandro Csoma di Koros, fondatore della tibetologia

Oggi sappiamo che la lingua ungherese appartiene al gruppo ugro-finnico, con il turco e il finlandese; nell’800,  la sua origine era un mistero. Il giovane studente ungherese Alessanndro Csoma, nato in Transilvania, si propose di scoprire la fonte della sua lingua in Asia. Senza mezzi, a piedi, viaggiò verso oriente. Cinque anni dopo, sulla fine del 1823, era in Tibet. Venne accolto nel monastero lamaista di Zanskar, dove si iniziò allo studio della lingua, sconosciuta in Europa (1).
Quindici mesi più tardi un giovane rattoppato e macilento bussa alla porta della Asiatic Society a Calcutta, Bengala: è Alessandro Csoma,  giunto lì come sempre a piedi, che mostra agli studiosi britannici i materiali preparatori per comporre una grammatica e un dizionario anglo-tibetano (potrà pubblicare entrambi nel 1834). Gli viene assegnata una modestissima pensione, contro l’impegno di trasmettere tutti i manoscritti alla Asiatic Society of  Bengal.

Alessandro torna in Tibet, dove resterà, salvo brevi ritorni in India, per quasi vent’anni, fino alla morte.Vent’anni spesi in ritiro in una povera capanna ad oltre 3 mila metri d’altezza, spesso senza fuoco d’inverno e senza candele la notte, occupato  senza sosta a copiare e trascrivere i volumi manoscritti che i lama gli prestavano uno alla volta.

 Chi lo vide racconta che lavorava «seduto su un tappeto steso sul piancito dove stava tutto il giorno, leggendo, scrivendo, mangiando e dormendo senza svestirsi», con «casse di libri ai quattro angoli, a portata di mano». Alcuni lama, colpiti da questo «cuore invincibile» da cui «non è mai uscito un lamento», lo aiutano nelle sue ricerche.

Il lama Sairorgyas-fun-chogs compila per lui diverse memorie illustrative del lamaismo; poi lo accompagna in diversi monasteri. Nel monastero di Rjon-khul si fa presentare all’abate, il venerato Kan-ga’ chislegs, che, per rispondere alle sue domande, stende per lui un compendio del buddhismo tibetano: amplissimo studio in tre parti, sulle sei specie di esseri, i tre Gioielli, la leggenda del Buddha, e una storia del buddhismo in Tibet; tutti argomenti allora completamente sconosciuti all’Occidente. Una copia di questo studio teologico si trova a Budapest; è intitolato  Skan-dhar bhig-gi dri-lan, ossia «Questioni di Alessandro».

Perchè Alessandro Csoma, risparmiando sulla sua pensione, era riuscito a raggranellare tanto da fondare due borse di studio per tibetanisti nella sua patria, che non rivedrà mai più.

Quando tornava a Calcutta, faceva vita ancor più ritirata. Non  beveva nè fumava. Ma era in instancabile contatto epistolare con molti studiosi in tutto il mondo; fra gli altri, con B.H. Hodgson, il residente inglese in Nepal che, da sanscritista, era riuscito a rintracciare tutti i libri del buddhismo nepalese, scritti - caso unico - in sanscrito.

Nel 1836 Alessandro Csoma di Koros pubblica sul ventesimo volume di Recherches Asiatiques la prima analisi sistematica del Kandjur e del Tadjur, le due grandi collezioni teologiche lamaiste che, nella edizione tibetana (1731) constano di 300 volumi.

La morte lo coglie il 6 aprile del 1892 mentre è in cammino verso il Tibet orientale, inesplorato per ogni occidentale.

Marie Tete-de-bois, giacobina

Prima per combattere i re nemici della Liberté, poi per diffondere l’ideologia della rivoluzione in Europa, la Convenzione proclama nel 1793 qualcosa di mai prima udito: la mobilitazione totale. «Da questo momento», si legge nel proclama fatto affiggere a tutti i villaggi, «tutti i francesi sono requisiti per il servizio dell’esercito. I giovani a combattere, gli uomini sposati a forgiare le armi e trasportare i generi di sussistenza, le donne faranno tende ed abiti e cureranno i feriti,  i vecchi si faranno portare sulle pubbliche piazze per incitare i guerrieri al coraggio, predicare l’odio contro i re e l’unità della République».

La leva di massa - altro fatto senza precedenti - non fu facile da attuare; bisognò applicare il Terrore militare, creare squadre di sanculotti sanguinari che andarono a  caccia dei renitenti nei villaggi e fin nelle foreste. Ma alla fine, l’armata rivoluzionaria francese potè contare su un milione di uomini: mai nessuno, nemmeno Gengis Khan, aveva avuto una simile forza  al suo comando.

Un gran numero di donne seguirono quella immensa truppa; molte perchè disperate in quanto l’arruolamento del marito le aveva lasciate senza mezzi di sussistenza;  altre per seguire un amante o un fidanzato; altre ancora per convinzione ideologica: una petizione con 304 firme femminili aveva chiesto all’Assemblea, senza esito,  la formazione di battaglioni di donne.

Marie si arruolò perchè era sanculotta e giacobina, e da popolana aveva partecipato alla rivoluzione fin dal principio. Non ne sappiamo il cognome, solo il nomignolo che si guadagnò fra la truppa: «Maria Testa di Legno».

La dicono brutta, naso rincagnato, labbra spesse, occhi a capocchia di spillo.   Nonostante ciò, trova un soldato che la sposa. Da allora, partecipa a tutte le 27  campagne belliche, prima della rivoluzione poi di Napoleone; per lei come per i sanculotti, l’imperatore è il giacobinismo armato. Si aggrega ai battaglioni dei Grenadiers à Pied e marcia con loro, combattendo continuamente nelle campagne d’Italia.

Unica eccezione: nella giornata di Marengo, 14 giugno 1800, Maire Tete-de-bois non può prendere il fucile perchè quel giorno partorisce sul campo, fra i pezzi d’artiglieria. Che fine abbia fatto quel figlio, non si sa; si sa che Marie continua la marcia; fra i suoi soldati della Garde; prima di ogni battaglia, distribuisce tabacco e cognac che ha sempre, non si sa come, a disposizione: «Mi pagherai più tardi», dice a tutti, sapendo che molti non sarebbero tornati a pagare. Partecipa a tutti i combattimenti,  marcia nel fango, nella pioggia e nella polvere, e col cognac soccorre i feriti.

Parte confusa fra il mezzo milione di soldati imperiali che, marciando a piedi  attraverso l’Europa, vanno alla campagna di Russia; giunge alle porte di Mosca in fiamme; torna illesa fra i meno di centomila superstiti  che hanno lasciati i quattro quinti dei loro compagni nelle nevi sarmatiche.

Marie Tete de bois segue la stella calante dell’Imperatore; combatte nella campagna di Germania; quando Napoleone fugge dall’Elba, è ancora con lui, fra le migliaia di soldati che lo acclamano e sono pronti a marciare di nuovo. Ma ormai la guerra è sulla terra di Francia, incalzata da tutti gli eserciti europei; nel 1814, Marie  è ferita. Ma non va in congedo.

Muore a Waterlo,  la sera della domenica del 15 giugno 1815, con il gruppo decimato della Guardia a cui è stata offerta la resa e che l’ha rifiutata; anche lei attendendo l’ultima scarica della fucileria prussiana e inglese che la circonda da ogni lato, con le baionette inastate e in formazione quadrata;  il «carrè des braves», il quadrato dei valorosi (2).  




1) In realtà, un gesuita italiano aveva già compiuto, un secolo prima, il lavoro Csoma: padre Ippolito Desideri da Pistoia, altra vita impareggiabile e dimenticata. Penetrato nel Tibet dal Ladakh nel 1716, padre Ippolito è il primo europeo ad arrivare a Lhasa.  Il re gli consente di predicare il Vangelo; a questo scopo, Desideri studia accanitamente la difficilissima lingua e otto mesi dopo il suo arrivo, è in grado di comporre una descrizione della fede cattolica in tibetano. Lo studio suscita l’interesse di molti lama di alto rango, che gli consentono di accedere all’università lamista di Sera, presso Lhasa, dove affluiscono monaci non solo da tutto il Tibet, ma dalla Cina e dalla Mongolia. Desideri ha compreso che la complessità del lamaismo richiede, da parte sua, uno studio non superficiale. Mentre studia i testi, discorre a lungo con gli insegnanti tibetani, che gli danno libero accesso alla sterminata biblioteca dell’università, e gli consentono di celebrare la Messa in un oratorio privato. Il Tibet viene invaso dai tartari; il re protettore del gesuita è ucciso, ma padre Desideri – fra immense difficoltà – può comporre una apologia del cristianesimo in tibetano, in tre volumi, che manda al suo antico maestro di lingua, e che riceve molta attenzione negli ambienti lamaisti. Ma poi gli arriva dall’Ordine il comando di tornare a Roma: vi giunge nel 1728, dalla Francia, dove ha incontrato il re Luigi XV. Ha con sè molti manoscritti. Stende, su richiesta insistente, una memoria sulle sue conoscenze del Tibet: tre volumi, il primo studio completo del lamaismo, basato sulla profonda conoscenza della lingua, sullo studio paziente dei libri religiosi buddhisti, e sui colloqui cordiali e confidenziali che ha intrattenuto coi lama. Quando Desideri muore nel 1733, l’opera è completa. Purtroppo, padre Desideri  scriveva in italiano e non, come Csoma, in inglese; il manoscritto restò dunque dimenticato in qualche archivio e fu riscoperto solo nel 1904. Una traduzione inglese dell’opera è apparsa  solo nel 1932. 
2) «La Vecchia Guardia muore, non si arrende», è la famosa frase che il generale Cambronne, a capo di uno dei quadrati,  avrebbe urlato più volte agli inglesi,  prima i generali poi i soldati, che imploravano: «Arrendetevi granatieri, granatieri basta!».   Alla fine, come noto, il generale Pierre Jacques Etienne, visconte di Cambronne, rispose con l’imprecazione  passata alla storia.  Ferito gravemente, Cambronne sopravvisse. Non ammise mai di aver pronunciato nè la frase, nè la nota parola.


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