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Risorgimento?! (parte III)
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Le reali condizioni storiche del Regno delle Due Sicilie

Il Regno delle Due Sicilie non era affatto quella «negazione di Dio» pretesa da Glastone. Era uno Stato con gli stessi problemi degli altri Stati europei dell’epoca. Anzi, per molti versi era più avanti di altri Stati. Sicuramente non era il paese della cuccagna, come un certo revisionismo troppo zelante pretende di far credere, ma era uno Stato con un bassissimo carico fiscale, con i conti pubblici in ordine (cosa che l’accomunava allo Stato della Chiesa e lo differenziava dal Regno di Sardegna, che per le continue guerre, aveva accumulato un enorme debito pubblico che, poi, passò al Regno d’Italia e che continuiamo ancor oggi a portarci dietro), la cui Marina Commerciale era seconda solo a quella inglese, la cui capitale, Napoli, era culturalmente una delle più ricche capitali europee che esportava dalla propria università cattedre di fisica e di economia politica ogni dove, compresa Torino. Il Regno delle Due Sicilie, come è ormai storicamente acclarato, godeva anche di un certo grado, per l’epoca notevole, di sviluppo industriale protetto.

Ferdinando II aveva anche iniziato, pur senza concedere una costituzione, un’opera di riforma dell’amministrazione dello Stato, sulla scorta dell’eredità culturale riformatrice della monarchia illuminata che caratterizzò il secondo settecento napoletano.

Come ha ricordato Pino Aprile, quando i piemontesi giunsero al sud iniziò un vero e proprio saccheggio delle risorse meridionali (1). Le industrie regie furono chiuse ed i macchinari trasferiti al nord, le casse dell’erario e quelle del Banco di Napoli, calcolate attualmente in milioni di euro, furono espropriate dal nuovo governo a saldo parziale del suo debito pubblico che come detto era notevole (2), le terre baronali ed ecclesiastiche non solo non furono distribuite ai contadini, come aveva promesso la propaganda garibaldina, ma furono sgravate dai diritti comunitari, riducendo alla fame più nera le popolazioni rurali, e, ripulite dai pesi comunitari, vendute in parte all’aristocrazia liberale ed alla borghesia nordica ed in gran parte alla borghesia meridionale, composta di notabili, professionisti ed avvocati (i cosiddetti galantuomini) che, in tal modo, diventarono dall’oggi al domani i nuovi padroni, molto più duri di quelli antichi.

«Quando, nel 1860, il Sud venne incorporato nel Regno di Sardegna, il paese era un po avanti agli altri ex Stati (compreso il regno sabaudo) nel campo bancario, commerciale - specialmente nel commercio marittimo, in quanto disponeva di una flotta mercantile seconda solo a quella inglese e a quella statunitense - e nel campo industriale (le Reali Officine di Pietrarsa fornivano locomotive, carrozze ferroviarie, motori marini, e i cantieri di Castellammare navi agli altri ex Stati). Era però alquanto indietro nel settore agricolo, che era al tempo il settore portante di ogni nazione, tranne la Gran Bretagna, dove lindustria già prevaleva sullagricoltura. Gli storici sono spesso riottosi a ricordare il piccolo primato commerciale e industriale dellex Stato borbonico che costituivano il nocciolo della politica borbonica, volto ad offrire un diverso e più moderno tipo di occupazione alle masse diseredate. Insistono invece sul tema dei residui feudali esistenti nelle campagne meridionali al tempo dellunificazione. E lo fanno anche in modo così generico da apparire tendenzioso» (3).

Il Regno delle Due Sicilie, che non aveva ferrovie, salvo la Napoli-Portici, anche perché non sapeva che farsene in quanto era più economica, per una penisola (quasi un’isola) come era il Regno, la comunicazione marittima nella quale esso aveva un primato tra gli Stati italiani, costruiva però locomotive per tutta l’Europa, compresa l’Inghilterra del tempo. Si trattava, certamente, di un nocciolo industriale, erede della politica riformatrice dei Borboni del secolo precedente che con la manifattura di San Leucio avevano dato l’avvio al nascente sviluppo industriale del Regno. Uno sviluppo certamente di tipo regio e protezionista, ossia, come fu all’inizio anche nella stessa Inghilterra, madre della Rivoluzione Industriale, e come è inevitabile per qualsiasi nazione che si avvia verso il proprio slancio industriale, protetto dai dazi doganali e che, quindi, prima o poi avrebbe dovuto aprirsi per poter operare su mercati sempre più vasti. Ma, intanto, si trattava di un complesso industriale all’avanguardia, per i tempi, tale da dare lavoro a migliaia di meridionali e che la politica colonizzatrice piemontese smantellò. Senza dubbio se fossero stati attuati i progetti di unione doganale e di federazione tra gli Stati italiani, anche il nocciolo industriale del Sud avrebbe dovuto intraprendere nuove strade. Sicuramente, però, avrebbe costituito l’altro polo, quello meridionale, dell’industria nazionale alla pari del polo lombardo-piemontese. In tal modo la confederazione non avrebbe visto l’emergere del problema emigratorio sia interno, dal sud verso il nord, sia esterno, dall’Italia verso le Americhe.

Lo storico delle insorgenze Francesco Mario Agnoli, ci informa di come tali realtà storiche siano considerate dagli storici ufficiali. L’Agnoli descrivendo della supponenza di due storici liberali suoi contraddittori durante un convegno, scrive:

«Quanto ai dati in contraddizione con la versione ufficiale dellarretratezza economica e industriale delle Due Sicilie da me molto sommariamente citati (circolazione monetaria, allincirca 5.000 opifici, elevata percentuale di popolazione attiva nel settore industriale), i miei correlatori, dopo aver relegato la Napoli-Portici, prima ferrovia italiana, a semplice capriccio per la comodità del Sovrano e della Corte, hanno passato un colpo di spugna su tutto il resto, tanto che nel successivo dibattito uno dei molti studenti presenti (tutti del Centro-Sud, come oggi usa dire) è intervenuto per ricordare che le locomotive di produzione napoletanaesposte nel Museo ferroviario di Pietrarsa sono la prova migliore del programma ferroviario che linvasione sabauda non consentì di realizzare e che a Mongiana, nella oggi dissestata Calabria, operò per un secolo (dal 1771 al 1881) un grande complesso siderurgico, dove venivano prodotti, oltre alle armi (fucili), le strutture in ferro per le ferrovie e i ponti da realizzare (e in parte realizzati) nel Regno. Ne ho concluso che sui professori cè poco da contare, ma sui giovani probabilmente sì» (4).

La monarchia borbonica, sulla scia di una politica antinobiliare che risaliva al governo spagnolo ed inaugurata dallo stesso Ferdinando il Cattolico, aveva studiato un piano di bonifiche integrali di vaste aree del regno ai cui costi contribuissero innanzitutto i latifondisti ed i possidenti ed i cui benefici, ossia le terre bonificate, fossero devoluti ai contadini. Nell’università di Napoli operavano i migliori ingegneri e geologi dell’epoca. Molti di essi erano costantemente corteggiati dal Politecnico di Torino, viste le loro competenze. L’orografia e la geografia del Mezzogiorno è sicuramente difficile. Tuttavia quei valenti tecnici a servizio dei Borboni avevano, in proporzione delle conoscenze scientifiche dell’epoca, compreso il modo di arginare frane ed alluvioni per guadagnare terreni fertili per l’agricoltura. Avevano compreso che se non era integrale, ossia organicamente realizzata, qualsiasi bonifica non avrebbe resistito nel tempo. Quando, qualche anno fa, l’alluvione colpì il comune di Sarno, nel salernitano, molti si sono meravigliati che solo le opere di bonifica iniziate al tempo dei Borboni avevano resistito alla catastrofe. Il piano reale stabiliva che le somme occorrenti per le bonifiche fossero prevalentemente a carico dei baroni e dei latifondisti.
Non solo, ma il piano prevedeva anche che quante terre si fosse riuscito a bonificare dovevano essere distribuite tra i contadini. Si trattava della prosecuzione della politica antinobiliare ed antifeudale già iniziata dalla Monarchia nel XVIII secolo.

Con un regio decreto del 1855 fu istituito un ente apposito, la Regia Amministrazione Generale per le Bonificazioni. Non appena giunse a Napoli, Garibaldi, il 16 settembre 1860, abolì questo ente nonché l’intera legislazione borbonica sulle bonifiche. Qualche anno dopo, tale legislazione fu sostituita da quella liberale dei Savoia. Quest’ultima, in nome della sacralità della proprietà privata, stabiliva che la bonifica non era un fatto sociale e di interesse comune ma riguardava i singoli proprietari e che solo se costoro avessero voluto potevano provvedere impegnando liberamente i propri capitali. Naturalmente della ripartizione tra i contadini delle terre eventualmente bonifiche non si faceva più parola. Nobiltà e borghesia meridionale odiavano la monarchia borbonica anche per questo suo tipo di politica filo-popolare e naturalmente appoggiarono le mire di conquista dei Savoia non appena, con l’impresa dei Mille, se ne profilò l’occasione.

Garibaldi, dunque, in barba alle sue idee democratiche, si trasformò nel braccio armato dell’egemonia di classe aristocratico-borghese nel Meridione. Del resto egli ben sapeva che doveva molto all’appoggio di tale classe. Una nota interessante: quando il regime fascista iniziò il suo programma di bonifiche integrali trovò negli studi condotti in epoca borbonica già pronta la base dalla quale incominciare (5).

Ma i Borboni non speravano di favorire i contadini solo con la redistribuzione delle terre bonificate. Essi ben si rendevano conto che senza un sostegno economico che permettesse ai contadini di sfuggire dalle grinfie dell’usura, qualsiasi redistribuzione di terre sarebbe alla lunga stata vanificata. Pertanto, impostandola su antichi istituti cristiani, di origine francescana, istituirono una rete di monti frumentari per fornire i contadini delle sementi necessari alla seminagione. Tali monti concedevano agli agricoltori i semi necessari alla seminagione stagionale senza interessi o con interessi minimi. In tal modo i Borboni trovarono l’opposizione di un altro ceto che successivamente inneggiò a Garibaldi e a Vittorio Emanuele, ossia il ceto degli usurai.

Veniamo ora, ai residui di feudalesimo sui quali insistono gli storici liberali. Il problema non era certo del solo Regno delle Due Sicilie. Si trattava di un problema generale dell’Europa del tempo che tuttavia si affrontava con misure assolutamente antisociali nei confronti delle popolazioni rurali. Le quali, se ancora subivano angherie di vario genere, come corveé e decime, alle quali per retaggio feudale erano sottoposti, tuttavia godevano, ed erano per esse essenziali cespiti di sopravvivenza, dei diritti comunitari (usi civici) sulle terre baronali ed ecclesiali e sulle terre comuni del demanio. Le riforme fisiocratiche nell’agricoltura, ad iniziare dal XVIII secolo, tendevano a privatizzare le terre comuni, attraverso recinzioni, ed a negare gli atavici diritti comunitari per poter aumentare la produzione mediante un’agricoltura più moderna e più legata allo scambio di mercato anziché al sostentamento autosufficiente. Naturalmente, questo genere di riforme non teneva per niente conto della sorte dei contadini privati all’improvviso di cespiti di prima necessità e ridotti a braccianti sottopagati oppure scacciati dalle terre abitate e coltivate per secoli. Costi umani della modernizzazione che a nessuno interessava ed ai quali, tuttora, gli storici guardano come a conseguenze inevitabili di trasformazioni che alla lunga avrebbero migliorato i rendimenti terrieri e l’economia generale (6).

In realtà, proprio nel napoletano i riformatori illuminati settecenteschi avevano provato a tener conto della sorte delle popolazioni contadine all’atto dell’introduzione delle riforme fisiocratiche. Essi avevano individuato in un antico istituto giuridico terriero, di origine cristiano-medioevale, ossia l’enfiteusi, un modo per raggiungere l’obiettivo di aumentare la produzione agricolasenza condannare alla fame i contadini, anzi incentivandone, attraverso quella sorta di partecipazione agli utili, l’operosità. Abbiamo già detto come il cardinale Fabrizio Ruffo, studioso di economia di formazione napoletana e gran riformatore al servizio di Pio VI, attuò una riforma del genere, basata sull’enfiteusi, nei feudi pontifici di Castro e di Ronciglione, con notevole successo (la produzione aumentò del 33% soprattutto a beneficio dei contadini).

Invece, al contrario di questi riformatori borbonici, i conquistatori liberali del Nord ed i galantuomini del Sud, loro collaborazionisti, non avevano scrupoli nei riguardi della popolazione contadina. L’annessione del Regno delle Due Sicilie al Piemonte comportò la privatizzazione delle terre feudali, sia laiche che ecclesiastiche, attuate secondo i canoni della più cinica mentalità fisiocratica ossia liberista.

Brigantaggio: una guerra sociale e legittimista di popolo

Quella che subì il Regno borbonico fu, come scrisse l’Alianello, una conquista (7). La rovina delle genti rurali meridionali, insieme alla mancata attuazione promessa da Garibaldi della distribuzione delle terre, fu una delle più potenti cause del brigantaggio, il quale lungi dall’essere veramente tale fu in realtà una guerra di popolo, insieme legittimista e sociale, che si andò ad innestare sul un fenomeno di banditismo preesistente (8). Infatti oltre alle viste motivazioni sociali agivano anche i sentimenti legittimisti nutriti dai meridionali, il cui attaccamento alla dinastia era diventato molto forte proprio a partire dalla politica antibaronale e riformatrice attuata dai Borboni sin dal XVIII secolo e mai dismessa benché trasformatasi, nel XIX secolo, dopo la rottura con l’intellettualità liberale napoletana, in una sorta di paternalismo sociale comunque gradito dai ceti meno abbienti.

Agiva, inoltre, e non come causa secondaria, anzi ricopriva un posto primario nelle motivazioni dei cosiddetti briganti, l’avversione alla politica di scristianizzazione che i liberali del Nord ed i loro collaborazionisti locali portavano avanti. Aggiungasi anche che alle bande di insorgenti, appoggiate dalla popolazione, si unirono anche i soldati sbandati dell’esercito borbonico, almeno quelli che erano riusciti a sfuggire al triste destino di deportazione e morte a Fenestrelle e a San Maurizio (9), ansiosi di prendersi quella rivincita in nome del loro onore militare tradito dai loro ufficiali corrotti.

Il risultato fu che il giovane regno d’Italia si trovò a dover affrontare una guerra interna di popolo che andava dimostrando all’intera Europa su quali fragili basi, prive di consenso popolare, esso fosse stato costruito da una consorteria ideologica: una lobby diremmo oggi.

Il modo con cui questa guerra di popolo fu affrontata è degno del peggior colonialismo, perché tale - ossia una colonia - era considerato, con evidente razzismo, il sud dai governanti liberali di Torino. La repressione sfociò, a detta di diversi storici, in un vero e proprio genocidio o perlomeno in una vera e propria pulizia etnica.

Mentre il giovane Francesco II si arrendeva a Cialdini lasciando la fortezza di Gaeta (10), iniziava l’insorgenza popolare che avrebbe impegnato l’esercito invasore per più di un decennio, durante il quale la repressione scrisse pagine di assurda brutalità: paesi rasi al suolo, donne incinte sventrate, vecchi e bambini massacrati, chiese distrutte, preti impiccati (11).

«… la resistenza alloccupazione piemontese… nasce sotto la guida dellultimo re delle Due Sicilie, il giovanissimo Francesco II, che si era asserragliato nella fortezza di Gaeta più per difendere il suo onore, dopo il tradimento dei suoi generali, che per opporre una seria resistenza allinvasore. Il comando borbonico sa di non avere alcuna via duscita, ma intende egualmente combattere fino allultimo. Per contrastare larrivo di altre truppe piemontesi in appoggio a quelle con cui Vittorio Emanuele di Savoia cinge lassedio, chiede ai reparti rimasti fuori le mura di spingersi ai confini del Lazio e ingaggiare contro i rincalzi piemontesi delle azioni di guerriglia. Si ripete lesperienza di sessantanni prima (dellinsorgenza antifrancese del 1796-99 e del 1806-08, nda). Il Brigantaggio napoletano nasce alla partenza come una lotta politica di carattere legittimista e popolare contro i piemontesi. I successivi sviluppi non si allontanano dalloriginario carattere politico, però si connotano ogni giorno anche con il carattere di una guerra sociale, o forse meglio di una guerra civile tra i galantuomini, sostenuti dallinvasore, e i contadini espropriati dei loro antichi diritti. A partire dal 1861, la guerra infiamma tutte le province napoletane. Gli studiosi hanno registrato lattività di ben 388 bande partigiane, di cui alcune parecchio numerose. Lo scontro tra lesercito regolare piemontese e le bande è durissimo, senza esclusione di colpi. I piemontesi risuscitano la tattica dei francesi della terra bruciata; non fanno prigionieri; bruciano e radono al suolo centinaia di villaggi, massacrano i contadini senza molto badare se nemici o amici. La legge marziale viene proclamata ufficialmente nel 1864, ma in effetti era già in atto sin dal 1861. Si tratta, infatti, di orpello legale. Nel corso della guerra contro i cosiddetti briganti lesercito italiano si macchiò di atrocità non minori di quelle commesse durante la conquista della Libia, della Somalia, dellEtiopia. Contemporaneamente alle operazioni repressive, lItalia ufficiale procedeva alla svendita delle terre comuni e ne incassava il prezzo. La sconfitta contadina può essere calcolata a ritroso. Tra il 1808 e il 1875 due milioni e mezzo di ettari di terre comuni furono tolti ai contadini e svenduti alla nascente borghesia redditiera, ovvero illecitamente appropriati dalla stessa attraverso le cariche comunali. Due milioni e cinquecentomila ettari sono pari alla superficie territoriale della Calabria e della Basilicata messe assieme» (12).

Intermezzo cinematografico

Per comprendere il senso predatorio dell’intera operazione della conquista del Sud restano emblematiche due scene del film di Luchino Visconti Il Gattopardo, tratto dall’omonima opera di Tomasi di Lampedusa (13). Nella prima di dette scene il principe di Salina, il gattopardo per via dell’emblema della sua antica famiglia, un aristocratico molto disincantato circa gli avvenimenti che si vanno svolgendo (è sua la famosa espressione gattopardesca: «E necessario che tutto cambi perché tutto resti come è»), chiede, durante una solitaria partita di caccia, al suo fidato guardiacaccia cosa egli pensi del plebiscito che aveva sancito l’annessione del regno borbonico al Piemonte. Il guardiacaccia gli risponde che l’intera faccenda altro non era che una messa in scena organizzata dai liberali e che di questo aveva la prova in quanto i risultati erano stati unanimi a favore dell’annessione quando invece ci sarebbe dovuto essere stato almeno un voto contrario, ossia il suo, quello del guardiacaccia, che aveva votato a favore dei Borbone non dimentico del fatto che se aveva potuto imparare a leggere e scrivere era stato per l’interessamento della regina alla quale sua madre si era rivolta.

In questa scena è magistralmente ritratta la realtà, di cui dicevamo, del paternalismo sociale praticato dai Borbone e ben voluto dai loro sudditi. La stessa scena poi ben descrive l’altra realtà, ben nota agli storici, della falsificazione dei risultati di plebisciti. Plebisciti per modo di dire perché o erano ristretti ad un’oligarchia o, quando ai seggi venivano chiamati anche i cafoni, al voto erano ammessi i soli popolani che sapessero leggere e scrivere, come nel caso ricordato nel romanzo in questione, oppure si organizzava il voto rurale mettendo in fila i contadini guidati dai loro padroni a votare in favore dell’annessione. Per non parlare, inoltre, della circostanza che in molti casi il voto non era affatto segreto e bisognava mettersi in fila davanti a due diverse urne, quella del e quella del no, in modo che i militari piemontesi ed i notabili locali collaborazionisti potessero individuare chi, con coraggio, votava contro l’annessione.

Ancora più emblematica è la seconda scena che è poi quella finale del film: Calogero Sedara, l’antico fattore del principe di Salina, uomo della vendita ossia carbonaro, che con la Rivoluzione aveva scalato la gerarchia sociale fino ad essere ammesso nell’aristocrazia, siede in carrozza avendo di fronte la figlia (Claudia Cardinale) andata in sposa al nipote del Salina. Si odono in lontananza degli spari e la giovane chiede di che si tratta. Il marito le risponde che è l’esercito italiano che sta fucilando i garibaldini che non avevano deposto le armi (perché avrebbero voluto fare la rivoluzione sociale). Allorché il Sedara (Paolo Stoppa), con aria soddisfatta afferma che finalmente in Sicilia si sarebbe potuto stare tranquilli avendo a disposizione un vero esercito, efficace nel reprimere ogni velleità di restaurazione come di rivoluzione.

La morale di tutta la vicenda risorgimentale sta proprio nelle parole del Sedara: mentre gli idealisti dall’una e dall’altra parte si sono illusi, in nome del re Borbone o dell’Italia, di giocare una partita storica, i veri vincitori sono gli uomini come lui, gli astuti, gli speculatori, i galantuomini. Era nata l’Italia dell’affarismo che ancora oggi rappresenta la nostra realtà quotidiana.

Visto che abbiamo parlato del film Il Gattopardo, un cenno va fatto anche ad un altro film, che chi scrive ha avuto la fortuna di vedere in una proiezione privata in quel di Civitella del Tronto, diversi anni fa, interpretato da un cast d’eccezione che va da Lina Sastri a Giorgio Albertazzi fino a Remo Girone. Parliamo della pellicola di Pasquale Squittieri Li chiamarono briganti che racconta la storia del Crocco ex garibaldino diventato, a fronte dello scempio cui fu costretto ad assistere, capo di una banda di resistenti del Sud che operava in Basilicata. Questo film, assolutamente veritiero dal punto di vista storico (14), è stato letteralmente censurato. Non appena uscito nelle sale cinematografiche fu immediatamente ritirato dalla circolazione in quanto - così pare - la Medusa, casa cinematografica editrice, fu costretta, per ovvi motivi politici, a cedere all’esercito italiano, che nel film ne usciva sotto il profilo storico con le ossa rotte, ossia allo Stato italiano, i diritti della pellicola. Che quindi attualmente può essere vista solo se, come nell’occasione nella quale fu vista dallo scrivente, il regista, Squittieri, legittimamente utilizza la propria copia personale per proiezioni riservate (15).

Nella scena finale del film in questione si può vedere una lunga fila di contadini che, sacco in spalla, sono in procinto di emigrare. L’unico tra gli ufficiali italiani (interpretato da Franco Nero) che in qualche modo aveva cercato di fermare i massacri indiscriminati dei suoi commilitoni si avvicina ad uno di questi contadini chiedendo spiegazioni per quell’esodo di massa. La risposta fu «Colonnello, per noi non cè scelta: o briganti o emigranti!».


Questa scena scolpisce in modo eminente quella che fu la tragica stretta nella quale le popolazioni rurali del Sud si trovarono dopo la sconfitta dell’insorgenza post-unitaria. In effetti, prima del 1860-1875, che è il quindicennio del brigantaggio, non si registra alcuna emigrazione di massa dal Regno delle Due Sicilie. Con la nascita del regno d’Italia, e subito dopo la sconfitta della resistenza antipiemontese, le popolazioni meridionali iniziano un drammatico esodo verso, soprattutto, gli Stati Uniti, l’Argentina e l’Uruguay. Segno evidente che un trauma sociale ed epocale era avvenuto nelle loro terre d’origine, sconvolte, nei secolari istituti di vita tradizionale, dalle privatizzazioni delle terre e dall’abolizione degli usi civici, senza alcuna contropartita in termini di distribuzione dei fondi o di industrializzazione (anzi, come si è detto, il nucleo della nascente industria meridionale fu trasferito al Nord).

(fine terza parte di cinque)

Luigi Copertino


Risorgimento?! (parte I)
Risorgimento?! (parte II)
Risorgimento?! (parte IV)
Risorgimento?! (parte V)





1) Confronta P. Aprile, Terroni - tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali, Piemme, Milano, 2010. Si noti che l’autore di quest’opera, che molto scandalo ha suscitato tra i celebratori ufficiali del centocinquantenario dell’Unità d’Italia - ha tra l’altro fatto andare su tutte le furie un Galli Della Loggia che, accomunandolo ad un altro libro di Aa.Vv., LUnità divisa - 1861-2011: parla lItalia reale, Il Cerchio, Rimini, 2010, ha lamentato che certa pubblicistica vuol rovinare le ragioni della festa - molto umilmente afferma di non aver scritto nulla che altri prima di lui, ma ignorati dai media e dalla cultura, non avevano già scritto. In effetti il merito di Aprile, collaboratore di Sergio Zavoli e noto giornalista nazionale, è, in tema di revisionismo sul Risorgimento, lo stesso di Pansa per quanto riguarda il sangue dei vinti in ordine ai crimini, nel dopoguerra, perpetrati da indegni partigiani sui fascisti sconfitti. Sia Aprile che Pansa, con la loro caratura di giornalisti che non si dichiarano, rispettivamente, neoborbonici o fascisti, hanno avuto il merito di aver portato alla ribalta di un più vasto pubblico quanto il misconosciuto revisionismo di tanti ricercatori aveva nei decenni passati appurato senza essere riuscito a rendere noto su più ampia scala perché considerati ricercatori di parte ossia compromessi culturalmente o per simpatia con le vicende che essi studiavano. Circa il meridione italiano post-unitario si veda, tra i titoli recenti, anche Giordano Bruno Guerri Il sangue del Sud, Mondadori, che sin dal titolo riecheggia l’opera di Pansa sul secondo dopoguerra. Si veda, circa la sorte del Meridione in età risorgimentale, anche Antonio Ciano, I Savoia e il Massacro del Sud, Grandmelò, Roma, 1996.
2) Pino Aprile, nell’opera citata, rende noti gli studi di alcuni storici dell’economia che dimostrano l’ammontare stratosferico di questo esproprio rivoluzionario. Giustamente si chiede, nel momento nel quale con l’attuale riforma federalista dello Stato, in fieri, si dovranno fare i conti per ripartire il debito pubblico, se non sia il caso di partire, in detta contabilità, proprio dal maltolto che il Nord ha rubato al Sud. Una domanda che rivolgiamo ai leghisti: volete un onesto federalismo? Ebbene iniziate a restituire il maltolto in modo che il Sud possa ripartire da dove il non richiesto intervento manu militari del Nord ha bloccato il suo sviluppo all’epoca già in atto.
3) Confronta Alle origini del brigantaggio legittimista, in www.duesicilie.info/uominiebriganti.
4) Confronta F. M. Agnoli, La storia mummificata - laccademia dei galantuomini non si arrende allevidenza, L’Alfiere, dicembre 2010, pagina 27.
5) Le notizie circa le bonifiche borboniche la abbiamo tratte da uno studio di Edoardo Vitale, apparso sulla rivista L’Alfiere, che l’autore ci ha gentilmente inviato pro-manuscripto. Riportiamo, a beneficio dei lettori, impossibilitati a reperire facilmente tale scritto, alcune parti salienti dello stesso: «Il primo a intenderlo (il problema delle bonifiche, nda) nella sua ampiezza e complessità è Carlo Afan de Rivera, chiamato nel 1824 alla Direzione Generale dei ponti e strade, al quale si deve la descrizione, rimasta poi fondamentale, della topografia e dellidrografia del Regno di Napoli (…). Di particolare importanza è la progressiva affermazione del principio, secondo il quale i proprietari dei fondi interessati dalle bonifiche devono contribuire ai lavori secondo la spesa e in proporzione dei vantaggi che ritraggono dal risanamento. Con questi criteri, Ferdinando II dà avvio alla bonifica del bacino inferiore del Volturno. I risultati sono ottimi: nel 1846 una commissione di ingegneri nominata dal congresso degli scienziati tenutosi a Napoli esprime grandi lodi per i lavori; lingegnere francese Baumgarten negli Annali dei ponti e delle strade di Parigi pubblica una memoria sulle opere della foce dei Regi Lagni proponendole a modello; Napoleone III invierà, più tardi, a Napoli lingegnere Dauguenet per prendere consiglio dal direttore di quei lavori. Le difficoltà incontrate… in questopera convincono il re dellimpossibilità di conseguire il bonificamento di tutte le contrade paludose senza unattenzione costante, unopera assidua, una vigilanza quotidiana, ed ununiformità di norme e di mezzi dimostrati già dallesperienza utili a raggiungere lo scopo’. Egli decide, così, di promulgare una legge che costituisce la pietra angolare della legislazione borbonica in materia di bonifica’, il Decreto dell11 maggio 1855. Con questa legge Ferdinando II affida a un unico organo di nuova istituzione, lAmministrazione generale della bonificazione, il compito di provvedere al bonificamento di tutte le contrade paludose de nostri reali dominii al di qua del Faro, rimuovere da esse le cagioni di aria malsana che procedono dalla disordinata economia delle acque, favorire lo sviluppo dellindustria agricola, ed aumentare e diffondere per tutti i modi la prosperità e lagiatezza fra i nostri amatissimi sudditi (..). LAmministrazione cura anche la manutenzione delle opere e lesatta osservanza del regolamento di Polizia per la loro conservazione (articolo 4, numero 4), nonché la realizzazione delle strade necessarie alla bonificazione (articolo 18). Deve inoltre stabilire gli affitti delle terre e de demanii comunali, aggregati alle opere perché dichiarati bonificabili, previa sovrana approvazione’ (articolo 4, numero 5). Pur essendo un organo statale, alla dipendenza del ministero e della segreteria dei lavori pubblici, essa opera con i fondi forniti dalle province, dai Comuni e, secondo il criterio già menzionato, dai singoli proprietari compresi entro il perimetro di interessenza, denominato confidenza’ (articoli 8, 17, 18). LAmministrazione Generale ha un proprio consiglio, composto da idonei e probi proprietari’ (articolo 24), che può dar pareri sul merito tecnico dei progetti, sulle condizioni degli appalti e, in genere, sugli atti più importanti della gestione amministrativa e contabile delle confidenze’. La custodia delle opere è affidata a un corpo speciale, i guardalagni (articolo 37). Lincarico di Amministratore Generale delle Bonifiche è affidato dal Sovrano a Giacomo Savarese. Anche se da pochi ricordato, è questi una figura eminente della storia delle Due Sicilie. Nellepoca di profondo rinnovamento economico e produttivo che ebbe luogo durante il governo di Ferdinando II di Borbone, si adopera con costanza e incisività allelevazione dei ceti più poveri, alla diffusione dellassistenza allinfanzia e alleducazione scolastica. Si dedica inoltre allo studio dei problemi agricoli e delle condizioni della sempre più cospicua classe operaia. Nel 1848, il re lo vuole ministro e nel 1855 non solo collaboratore nellelaborazione della legge sulle bonifiche, ma anche supervisore dei relativi interventi. La vastità, la diversità e la difficoltà dei compiti affidati allAmministrazione stanno a dimostrare’, secondo il Ciasca, che scrive nel 1928, ‘che il governo borbonico sera reso conto del legame strettissimo che corre fra i vari problemi della sistemazione idraulica, della bonifica agraria, della bonifica sanitaria, del rímboschimento, del rinsaldamento e della difesa degli abitati, della colonizzazione, e infine dello sviluppo industriale duna regione migliorata. Il governo borbonico comprese che la bonifica andava dalla sistemazione delle acque e delle terre in montagna fino al fondo delle valli e alla costa del mare, dal rimboschimento in alto agli arginamenti in basso, dal consolidamento di frane e di smottamenti alla stabilizzazione e al risanamento del suolo per mezzo del tenace ed ininterrotto lavoro di cultura del terreno liberato dalle acque’. Nei cinque anni scarsi che il nuovo organo ha a disposizione per operare, si dà poderoso impulso alla bonifica del corso inferiore del Sarno, dove si compie un complesso di lavori imponente: rettificato lalveo, reso navigabile nel tratto da Scafati al mare, colmata del vecchio corso, sistemazione della foce, arginamento a nord di Scafati del fiume e di alcuni affluenti, tre ponti in ferro e uno in muratura per il passaggio di tubi per acqua di irrigazione. Si dà, poi, inizio alla bonifica del lago di Averno e si proseguono quella del lago Salpi in Capitanata, del lago di Bidona e della piana di Rosarno in Calabria, del lago di Fucino. Soprattutto, si avvia una vasta opera di studio, di progettazione, di equa suddivisione fra Stato, Comuni e privati dei contributi indispensabili per lattuazione dellimmenso disegno di bonifica. Comincia a funzionare uno strumento fondamentale per la rinascita e lo sviluppo sociale ed economico del Sud, che trae la sua efficacia dalla competenza e dallimpegno di legioni di tecnici e operatori qualificati. Il problema della bonifica viene inteso con acume e lungimiranza, al punto che il fascismo, quando intraprende i suoi vasti progetti di risanamento territoriale, torna esplicitamente al concetto borbonico della bonifica integrale. Il saggio progetto dei sovrani di Napoli incontra, però, tenaci opposizioni. Gran parte dei possidenti e delle amministrazioni locali, generalmente da loro controllate, di mala voglia si decide ad adempiere quello che Savarese segnala come un fondamentale dovere verso la comunità. I ceti emergenti agrario-mercantili, da sempre attivamente interessati al sovvertimento della struttura sociale tradizionale e costantemente in lotta con il Sovrano (che si rende garante delle condizioni di vita del popolo tenendo bassi i prezzi delle derrate alimentari e delle sementi, calmierando gli affitti dei fondi rustici, ostacolando laccaparramento delle terre da parte degli speculatori), prima tentano in ogni modo di boicottare la politica di risanamento territoriale promossa dalla dinastia borbonica, poi trovano nellinvasione piemontese lo strumento per sbarazzarsi dello Stato napoletano, che ne teneva a freno gli egoismi. Questo aiuta dunque a comprendere perché, in unagitata domenica di settembre del 1860, il dittatore nizzardo si preoccupa di assestare un colpo di maglio demolitore allAmministrazione generale delle bonificazioni. Quante avide mani devono averlo sospinto ad apporre la sua firma in calce allinqualificabile decreto! Nel 1864, ad annessione consolidata, lo Stato colonizzatore ratifica formalmente il decreto di abolizione. Con la legge sabauda del 20 marzo 1865 numero 2.248, poi, si introduce il concetto sorpassato e angusto che le bonificazioni, per quanto vaste siano, sono opere di esclusivo interesse locale, per le quali non si ha diritto di reclamare lazione diretta dello Stato. Le terre depresse del Sud e le loro popolazioni sono lasciate al loro destino, o meglio, alla mercé dei latifondisti. Con immaginabile compiacimento i proprietari terrieri prendono atto di non essere contemplati fra i soggetti tenuti a contribuire alle spese di bonifica e manutenzione. Con la legge Baccarini del 25 giugno 1882 (numero 869) si modella lattività di bonifica sulle esigenze del Nord, assegnando, fra laltro, un ruolo essenziale nellattività di bonifica ai consorzi, nellItalia meridionale e nelle isole pressocché inesistenti soprattutto per la limitata estensione dei terreni uniformi. Il risultato di questo dissennato stravolgimento è che nel Mezzogiorno ha il sopravvento labbandono e cresce rovinosamente il disordine idraulico. Lo Stato resta inerte anche di fronte alla rovina di interi paesi. Per di più, con un generalizzato atteggiamento di alterigia, i colonizzatori disconoscono la professionalità, lefficienza e lonestà dei tecnici meridionali. Si veda laccorata (ma prudentemente anonima) protesta di un gruppo di ispettori generali e dingegneri del corpo reale del Genio civile di Napoli’, i quali lamentano di essere sostituiti da ingegneri del Nord che nulla sanno della morfologia e delle peculiarità dei luoghi e degli insediamenti umani di cui devono occuparsi! Le cifre parlano di un disastro spaventoso, di una clamorosa ingiustizia: mentre nellItalia settentrionale dal 1882 al 1924 sono bonificati 328.669 ettari, nel Sud lo Stato patrigno ne bonifica poco più di 4.000 (in Calabria appena 13 ettari!). Alla tutela amorevole del territorio, allo studio serio e scrupoloso dellambiente, allo slancio risanatore coraggioso e tenace, allattenzione e al rispetto verso gli uomini, i loro diritti e le loro tradizioni, subentra, nella nostra sventurata patria, linerzia più stagnante, la sprezzante noncuranza, la sfacciata ingiustizia, il cinico asservimento delle esigenze della comunità agli interessi di pochi».
6) Si noti che questo è lo stesso linguaggio che oggi gli economisti liberisti usano per affermare che le costose conseguenze, in termini umani, delle delocalizzazioni comportate dalla globalizzazione produrranno alla lunga benefici per tutti: ma per chi oggi, qui ed adesso, perde il lavoro si tratta di una ben magra consolazione!
7) Confronta Carlo Alianello La conquista del Sud, Rusconi, Milano, 1994. Abbiamo di recente trovato su un quotidiano abruzzese, Il Centro del 1 aprile 2011, solitamente fazioso nei suoi giudizi essendo legato alla catena editoriale di Repubblica e di De Benedetti, questa lettera/intervento, a firma di Bruno Dante, forse a compenso di un inserto sul 150nario, pubblicato il giorno prima, con contributi di storici ufficiali locali a dir poco di una evidente partigianeria camuffata da scienza storica. L’importanza del taglio non cloroformizzato di questa lettera ci induce, sempre a beneficio dei nostri lettori, a riportarla integralmente: «Abbiamo fatto lItalia - disse Massimo D’Azeglio - ora si tratta di fare gli italiani. Ma volevano per davvero i piemontesi fare gli italiani, per unificarli in una sola nazione, non solo sotto laspetto territoriale e politico, ma anche sotto quello economico, sociale e culturale? Oppure volevano semplicemente allargare i confini del loro angusto regno ed estendere la supremazia sabauda su tutta lItalia? A me pare che, più che italianizzare la nostra penisola, il nuovo governo volesse piemontizzarla. Perché in questa direzione vanno tutti gli atti che si sono succeduti dal 17 marzo 1861 in poi. Infatti, laprimalegislatura del nuovo Regno dItalia diventa l’‘ottava’, in quanto segue lasettimadel regno sabaudo. La numerazione dinastica del primo Re dItalia rimane sempre la stessa del Regno di Sardegna. ‘Per non commettere ingratitudine verso i miei gloriosi aviebbe a giustificarsi Vittorio Emanuele II. Ma per il siciliano Mariano Stabile, questa fu unaminchioneriache la diceva lunga sulle reali intenzioni del governo. Lo statuto Albertino viene esteso allinterno territorio nazionale, reintroducendo la pena di morte anche in quegli Stati che lavevano abolita. Le capitali degli Stati preunitari vengono declassificate al regno di province. Tutto il territorio nazionale viene suddiviso in 59 prefetture, il cui titolare era di nomina regia. Su 59 prefetti nominati, ben 43 sono piemontesi ed  16 rimanenti emiliani o toscani. Per non parlare della toponomastica. Tutte le località, grandi e piccole, vengono obbligate a dedicare ai monarchi savoiardi le loro vie e piazze più importanti. La prima fu Venafro, nel Molise, che il 12 febbraio 1861 inauguròPiazza Milano’, in memoria di un battaglione mobile formato da milanesi. Viene riorganizzato lesercito con lintroduzione della leva obbligatoria dai 20 ai 25 anni. Ai piemontesi sono riservati gli alti comandi e la gran parte dei posti da ufficiali. Ai contadini meridionali vengono rubati cinque anni di lavoro agricolo nel fiore della gioventù. Nelle scuole, così come nei tribunali e negli altri uffici pubblici, quasi tutto il personale viene dal Piemonte. Ma non arrivano i migliori. Anzi, arrivano proprio i peggiori, i più tracotanti e spocchiosi. Come scriveva Gustavo Rinaldi: ‘Gli invasori occupano tutto, ma proprio tutto, come se volessero confiscare le istituzioni dello Stato per farne cosa loro’. E lo storico inglese Dennis Mack Smith aggiungeva: ‘Lincursione del Nord sembrava una nuova invasione barbarica’. E comprensibile, allora, che molti italiani più che unificati in una patria comune si sentisseroconquistati’. Anche se quella conquista veniva fatta nel nome della libertà dal gioco straniero, quella libertà aveva per loro un sapore amaro. Nella celebre poesiaO Luciano d’‘o Re’, il poeta napoletano Ferdinando Russo, dopo aver ricordato i tempi passati, quando nella Napoli borbonica la gente viveva una vita tranquilla e felice, scriveva: ‘Mo che nce resta, pé nce sazzia?/Ah!… Me scurdavo o meglio!… ‘A libbertà!/ ‘A libbertà! Chesta Mmalora nera/ca nce ha arredutte senza pellencuolle!’. La libertà, questa malora nera, che ci ha ridotto senza pelle addosso! Più avanti, dopo aver ricordato di Garibaldi, dei garibaldinisenza neanche la camiciae dei tanti tradimenti che hanno consentito loro di entrare a Napoli, conclude con la descrizione delle condizioni di vita in cui è costretto il popolo post-unitario: ‘Ccà stammo tutte quante int’‘o spitale!/Tenimmo tuttea stessa malattia!/Simmo rummasse tutte mmiezoe scale,/fora a lucanna d’‘a Pezzenteria!/Che me vuò dì? Ca simmo liberale?/A addò lappuoie, sta sbafantaria?/Quanno figlieto chiagne e vò magnà/cerca int’‘a sacca e dallelibbertà!». Lo spirito del popolo sa cogliere poeticamente molto meglio degli storici ufficiali la drammaticità degli eventi di quella che fu senza dubbio una conquista di stampo coloniale del mezzogiorno italiano, per nascondere la quale ancora agli inizi del XX secolo i reduci dell’impresa dei Mille, allo scopo di far passare la loro spedizione come lotta contro lo straniero, e non invece per quello che fu ossia conquista e, se si vuole, guerra civile tra italiani (perché tali erano anche i soldati borbonici e la popolazione meridionale), nelle loro memorie parlavano, riferendosi ai loro antagonisti sui campi di battaglia, di bavaresi sul presupposto che nell’esercito borbonico vi erano arruolati, su 60.000 soldati napoletani, circa 3.000 tedeschi.
8) Nonostante diversi studi abbiamo dimostrato che la tesi del banditismo, anche nella sua versione di banditismo sociale, non spiega a sufficienza il cosiddetto brigantaggio post-unitario, certi storici ufficiali persistono nel presentare l’insurrezione popolare antipiemontese, che era contestualmente una insurrezione contro il notabilato meridionale, come epifenomeno dell’atavico brigantaggio delle terre del Centro e del Sud Italia. Ad esempio, Umberto Dante, docente di Storia Contemporanea dell’Università dell’Aquila nonché presidente dell’Istituto per lo studio della Resistenza in Abruzzo, nell’inserto del quotidiano (Il Centro, del 31 marzo 2011) al quale accennavamo nella nota precedente, afferma: «Per me è comprensibile, ma non costruttivo e segno di sottocultura, trovare oggi tanta simpatia per i briganti. Certo, alla sinistra radicale piace vedere dei Robin Hood, dei banditi sociali’, dei nemici dello Stato. La destra estrema ama il brigante perché lo immagina come un tradizionalista. Non ci si rende conto che si tratta di un episodio occasionale, congiunturale, in parte derivato dal clima di dopoguerra che genera sempre forme di banditismo e di illegalità. E che il mestiere di brigante era a quei tempi unoccupazione sempre possibile nella vita di un contadino. Bastava una passatella finita a coltellate e ci si ritrova alla macchia. Lo storico non può gingillarsi con le favole e le approssimazioni. Deve capire che in quella parte della società meridionale, in quel nugolo di schegge marginali, del tutto inconsapevoli del mondo in cui vivono, non esiste futuro e neppure un qualche tipo di cultura». Orbene, le affermazioni del Dante sono indicative del tipo di pre-opzione filosofica che presiede a questo genere di esegesi storiografica. E’ la stessa pre-opzione, moralmente iniqua, che portava gli inglesi a ritenere sub-uomini gli irlandesi e gli indiani. E’ la spocchia dell’uomo liberale ed occidentale, laico, senza più remore di tipo culturale o religioso, che si ritiene evoluto e si vede come il massimo prodotto dello sviluppo unidirezionale del mondo moderno. E che, pertanto, dall’alto di questa sua ostentata superiorità guarda al primitivo, al rozzo cafone meridionale, persino negandogli la dignità antropologica di essere detentore, custode ed elaboratore di una cultura popolare, nel senso antropologico del temine. Questa è la visione imposta dai ceti superiori, per conquista militare o per egemonia cultural-economica, di cui certi storici, magari inconsapevolmente, si sentono depositari e che difendono contro ogni tentativo di revisionismo. Però - ed è triste che esimi docenti universitari non se ne avvedano o lo nascondano - quel modo di raccontare la storia, sempre e comunque dalla parte dei vincitori, è sovente l’eredità della stessa propaganda ottocentesca che giustificava, in nome del progresso, la sottomissione dei popoli più deboli, spesso perpetrata fino genocidio. Infatti, quest’ultimo può essere, nella meno cruenta delle ipotesi, di tipo culturale (abbiamo di fronte dei selvaggi da civilizzare: esattamente come Cialdini relazionava a Torino circa la popolazione meridionale affermando che si trattava di africani) o, nella peggiore, un vero e proprio sterminio. Il Meridione d’Italia ha conosciuto entrambe queste forme di genocidio. Emblematico, poi, che a detta del Dante avere simpatia per i briganti sarebbe sinonimo di sotto cultura. Affermazione nella quale il senso di superiorità liberale, di cui sopra, si mescola a quello del cattedratico ufficiale. Da notare, infine, che nella stessa intervista, Umberto Dante, mentre fa la sua bella reprimenda verso chi troppo idealizza il brigantaggio (e se possiamo dargli in parte ragione quando in effetti lo si idealizza, non possiamo affatto dargliene quando, come fa lui, si brutalizza la memoria storica), si lascia poi andare ad un panegirico, per l’appunto, idealizzante su Chiaffredo Bergia, un saluzzese che fu ufficiale dei carabinieri in Abruzzo e che sgominò varie bande di briganti. Ora, il fatto che la resistenza antipiemontese si esprimesse soprattutto nelle forme ataviche del brigantaggio, andando a innestarsi sul già esistente antico banditismo, non legittima una lettura del fenomeno nel senso voluto da Umberto Dante. Infatti, le bande di presunti briganti agivano con l’appoggio della popolazione ed è per questo - e non, come dice ancora il Dante, per una errata percezione dell’esercito piemontese il quale, sbagliando, così credeva - che la repressione, feroce e tremenda, investì non solo i briganti, i quali spesso erano soldati borbonici o persino, come nel caso di Carmine Crocco, in Basilicata, ex garibaldini disillusi, ma anche la popolazione, come dimostrano i casi non isolati di Casalduni e Pontelandolfo. Pino Aprile, a proposito dei massacri avvenuti in tali località del mezzogiorno, che ripetiamo non furono casi isolati, cita, nel suo libro, la canzone Fiume Sand Creek di Fabrizio De André ricordando che l’eccidio di pellerossa, in prevalenza donne, vecchi e bambini, essendo i guerrieri lontani dal villaggio per la caccia, perpetrato da quel criminale del colonnello Custer e dal suo Settimo Cavalleggeri, avvenne solo tre anni dopo quelli compiuti nelle citate località dai piemontesi, fece lo stesso numero di vittime e fu compiuta in base alle stesse motivazioni ossia in nome del progresso che imponeva lo stermino degli straccioni e dei selvaggi che gli si opponevano. Lungi da noi la visione del mondo anarchica, pertanto individualista ed in fin dei conti borghese, del noto cantautore, però è necessario dire che, qualunque siano state le sue motivazioni nello scrivere quel testo, quella sua canzone, l’unica tra le sue, si inscrive perfettamente in una visione tradizionale e cristiana.
9) Si tratta di veri e propri campi di rieducazione, che anticiparono quelli del novecento totalitario, siti sulle Alpi piemontesi dove soldati borbonici, raggiunti più tardi dagli zuavi pontifici, furono deportati per essere sottoposti a rieducazione forzata o a morire di freddo e di inedia. Lasciati a pane ed acqua, furono anche privati di ricovero dal freddo perché alle finestre vi erano solo le inferriate senza alcuna chiusura per riparo. Ben si può immaginare a quale atroce morte furono destinati questi poveri cristi provenienti da terre molto più calde e temperate di quelle latitudini ed altezze. Su questo crimine piemontese si veda Fulvio Izzo, I lager dei Savoia - Storia infame del Risorgimento nei campi di concentramento per meridionali, Controcorrente, 1999.
10) A Gaeta furono scritte pagine eroiche da parte dell’esercito napoletano resistente. Tra le figure che emersero prepotentemente durante l’assedio vi fu quella della giovane e bella regina Maria Sofia, che era sorella di Elisabetta Imperatrice d’Austria (la Sissi idealizzata da un noto fumettone cinematografico, riproposto in versione aggiornata di recente). La giovane sovrana si adoperò a rischio della sua stessa vita assistendo i feriti sugli spalti e vivendo tra i soldati ai quali cercava di dare tutto il suo sostegno. Si manifestò uno strano fenomeno che forse solo gli psicologi potrebbero spiegare: in pratica l’eroismo della regina fu uno degli sproni più intensi per gli assediati, che lasciarono ai posteri poesie e canzoni dedicate alla sovrana dalle quali traspaiono una venerazione quasi religiosa nonché veri sentimenti d’amore stilnovistico. Anche Francesco II, titubante per inesperienza e complessato da una educazione materna eccessivamente rigorista, durante l’assedio, a detta degli storici, dimostrò, forse per l’unica volta nella sua vita, doti di comando insospettabili in chi ne conosceva le debolezze psicologiche: quasi che nel momento estremo una grazia speciale gli fosse stata concessa affinché rimanesse indelebile il ricordo di una sconfitta subita con onore e coraggio. Cialdini, invece, si rivelò per quel che era ossia un criminale di guerra. Con disprezzo ideologico verso gli avversari, che, in barba all’etica militare, considerava non combattenti alla pari dei suoi ma nemici senza diritti, continuò, senza alcun rispetto per le leggi internazionali di guerra, a bombardare la fortezza anche durante i momenti di tregua che accompagnavano le trattative tra i contendenti. L’ammiraglio Persano, dal par suo, bombardava dal mare la città di Gaeta senza nessun conto della popolazione civile, salvo, quando gli assediati iniziarono a rispondere, allontanarsi a debita distanza. Persano sarà colui che, durante la Terza Guerra di Indipendenza, porterà la responsabilità della sconfitta navale di Lissa, quando la flotta italiana (che era in realtà costituta dal naviglio sequestrato alla eccellente Marina napoletana) fu ignominiosamente battuta dai marinai dell’Impero asburgico al grido di… Viva san Marco!. Infatti si trattava non di gente di lingua tedesca ma dei marinai della Serenissima Repubblica di Venezia, quindi di italiani fieri di essere sudditi di Francesco Giuseppe, da un secolo arruolati felicemente nella Imperiale Marina Asburgica, e che di diventare piemontesi non avevano alcuna voglia. Su Francesco II e l’assedio di Gaeta si veda il bel libro di Pier Giusto Jaeger, Francesco II di Borbone - lultimo Re di Napoli, Mondadori, Milano, 1982.
11) «Le prime rivolte esplosero in Abruzzo. Fu proprio in quella regione che Francesco II, ancora a Gaeta, spedì le truppe irregolari di Klitsche de la Grange e Luvarà, per creare disturbo dietro le linee piemontesi, con lappoggio dei contadini. A loro si unì anche il conte alsaziano Emile de Christen. Le condizioni logistiche aiutavano quel piano: in Abruzzo la fortezza borbonica di Civitella del Tronto resisteva ancora alle truppe piemontesi. Proprio come avveniva a Gaeta e a Messina. Nellottobre 1860, si intravvedevano già tutte le premesse militari e sociali per la successiva guerra definita del brigantaggio postunitario’. Avezzano e Castel di Sangro con tutta la Marsica erano una miccia pronta a esplodere. Il colonnello Klitsche de la Grange, rispettando le istruzioni ricevute, riuscì a riconquistare, strappandole ai volontari garibaldini, Pontecorvo, Teano, Sora, Venafro, Piedimonte dAfile e Isernia. I suoi uomini prevalsero anche a Civitella Roveto contro i Cacciatori del Vesuvio guidati dal colonnello Teodoro Pateras. Contro i focolai di rivolta si organizzarono i latifondisti: reclutarono gente decisa, pronta ad arruolarsi tra le camicie rosse per difendersi dai moti sociali contadini dagli esisti ancora imprevedibili. Oltre ai Cacciatori del Vesuvio’, si formarono i Volontari del Matese’, al comando di Francesco De Feo, e gli Uomini del Molise’, guidati dal tenente colonnello Giuseppe Fanelli con la Legione Ungherese di Stefano Türr. La situazione rimase incerta per lintero mese di ottobre, con decine di piccoli centri, tra Abruzzo e Molise, in preda alla rivolta antigaribaldina. Poi, arrivò linvasione delle truppe regolari piemontesi, lo scontro del Macerone, laffrettato plebiscito. E i proprietari terrieri si rincuorarono. Gli episodi più cruenti si registrarono a Isernia e a Pettorano, dove furono trucidate decine di garibaldini. Cominciava una spietata guerra civile, fatta anche di risentimenti personali e contrasti locali. Il tam tam della ribellione si diffuse. Ad Ariano Irpino, in provincia di Avellino, furono massacrati 140 liberali e guardie nazionali. A Montemiletto e in altri sei paesi vennero uccisi i notabili locali. Al centro dei contrasti cera lannoso problema dei cosiddetti usi civici’, la possibilità di sfruttare aree di pascolo, o di usufruire delle fonti dacqua sulle terre demaniali. Proprio i terreni pubblici da oltre cinquanta anni rappresentavano la ricchezza nuova su cui avevano messo gli occhi i ricchi di sempre: i proprietari terrieri. E poi allorizzonte si profilavano le opportunità di acquisizione delle proprietà ecclesiastiche requisite dai garibaldini, che i latifondisti, in possesso dei capitali necessari, potevano accaparrarsi con facilità. I contadini, nonostante le promesse garibaldine in cui tanti avevano creduto, restavano esclusi dalla suddivisione delle ricchezze favorita dal rimescolamento degli equilibri di potere. I borbonici divennero così la speranza cui si aggrapparono i cafoni contro i ricchi galantuomini’. Irpinia, Lucania, Calabria le zone pronte ad accendersi. In Abruzzo continuava lattività dei corpi militari irregolari voluti da Francesco II. La situazione era così instabile e pericolosa per i governi locali appoggiati dai garibaldini, che larrivo delle truppe regolari piemontesi fu accolto come unancora di salvezza». Confronta Gigi Di Fiore, Controstoria dellUnità dItalia - fatti e misfatti del Risorgimento, Rizzoli, Milano, 2010, pagine 190-191.
12) Confronta Alle origini del brigantaggio legittimista, in www.duesicilie.info/uominiebriganti citato.
13) Sia il romanzo del Tommasi di Lampedusa che il film di Visconti sono opere squisitamente reazionarie. Fu proprio per questo, perché ne intuirono il forte senso di dramma storico che solo uno scrittore reazionario è capace di cogliere, e quindi la grande potenzialità di far presa e di successo dell’opera, che Feltrinelli, l’imprenditore/editore comunista, non esitò ad impadronirsi dei diritti editoriali del libro (facendo uno dei più grandi investimenti della sua vita) e Luchino Visconti, aristocratico regista per il quale il comunismo era appunto un vezzo elitario, a trarne un film diventato poi un classico della cinematografia del novecento.
14) L’unico neo è nel personaggio di un cardinale doppiogiochista, interpretato da Giorgio Albertazzi: non perché cardinali del genere non fossero all’epoca presenti ma perché si tratta, a nostro giudizio, del - come dire? - tocco di anticlericalismo che un regista come Squittieri, ex deputato di AN, e un attore come Albertazzi, ex repubblichino, si sono dovuti concedere.
15) Comunque, per chi fosse interessato, il film in questione di Squittieri è attualmente disponibile, e scaricabile, su youtube. La sua visione via web, infatti, non viola i diritti acquistati dallo Stato perché si tratta di visione privata e non pubblica.


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