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Psichiatria e guarigione
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«Circa 4 anni fa mi é stata diagnosticata una depressione post-partum curata per un anno con lo zoloft 100. All’interruzione del farmaco sembrava fossi guarita ma la stessa cosa è accaduta alla nascita del secondo bimbo; ho nuovamente effettuato per un anno lo stesso iter farmacologico, dopo qualche mese dall’interruzione (ovvero un mese fa) i disturbi sono ricominciati (in concomitanza del ciclo mestruale) ho cambiato medico per 20 giorni, la terapia é stata il seropram come antidepressivo (gradualmente sono arrivata ad assumerne 10 gocce) prese dopo colazione e lo xanax come ansiolitico. Per 20 giorni la cura sembrava funzionare ma poi tutto é iniziato (sempre con l’arrivo del ciclo). Adesso assumo 15 gocce di seropram e lo stesso quantitativo di xanax ma le cose non sembrano migliorare. Ho paura di restare da sola, soprattutto con i bimbi ed un senso di irrequietezza che non mi abbandona» (1).

La depressione è un termine relativamente recente, almeno nell’accezione maggiormente diffusa nella cultura dominante.
Il male oscuro viene identificato come una sorta di patologia dell’umore in grado di avere ripercussioni su tutta la vita della persona affetta.
In realtà in psicologia si distingue la comune depressione (intesa come passeggero senso di malessere) dalla «depressione clinica», caratterizzata, ad un esame diagnostico, da una maggiore durata temporale e nei confronti della quale, per ciò che attiene l’aspetto terapeutico, è necessario operare sia dal punto di vista psicologico sia da quello farmaceutico.
La testimonianza sopra riportata è tuttavia preoccupante sintomo di quanto non di rado si riscontri a seguito di terapie farmacologiche.

La psichiatria, in particolare, propone (e non soltanto per i casi di «depressione») le proprie «cure» a base di farmaci, bombardando chimicamente il sistema nervoso centrale del malcapitato, il quale, nel migliore dei casi, resterà una specie di «letargo energetico» tale da non consentirgli di percepire il proprio malessere o di divenire «pericoloso» nei casi di nevrosi e manie caratterizzate da forte aggressività.
Ma la psichiatria cura qualcosa?
Possiamo dubitarne.
Interrotti i noti trattamenti, i sintomi riappariranno col passar del tempo; così è molto spesso.

Ma dove e come nasce la psichiatria, che pretese ha?
La stessa capacità diagnostica della psichiatria o della psicologia (anche se accomunare troppo queste discipline potrebbe essere eccessivamente banalizzante) sono da mettere in dubbio.
Leggiamo per esempio quel che scrive l’Associazione di Psicologia Cognitiva a proposito della succitata depressione clinica:    «In generale, chi ha la depressione clinica può soffrire quotidianamente dei seguenti sintomi: umore depresso; perdita di piacere e di interesse per quasi tutte le attività; mancanza di energie, affaticamento, stanchezza; aumento o diminuzione significative dell’appetito e quindi del peso corporeo; disturbi del sonno (dorme di più o di meno o si sveglia spesso durante la notte); rallentamento o agitazione; difficoltà a concentrarsi; sensazione di essere inutile, negativo o continuamente colpevole; pensieri di morte o di suicidio» (2).
Il lettore attento saprà scorgere come in realtà non esista uno solo dei succitati sintomi che non possa scaturire da un qualunque malessere fisico (dall’indigestione alla tenia) assolutamente non assimilabile ad alcuna definita infermità mentale.
E’ un po’ come la storia dell’AIDS; che esista o no, non sta a noi dirlo, certamente però i sintomi che presenta sono accomunabili a quelli di molte altre malattie, senza necessità di codificarne una nuova e specifica.
Che non sia un gioco delle case farmaceutiche per vendere di più l‘antidepressivo di turno?
Chissà!?

Quel che è certo è che la psichiatria, come la psicologia, non è munita di riscontri clinici oggettivi e sperimentabili e di protocolli univoci, che consentano di identificare un certo accadimento (o un complesso di accadimenti) in maniera inequivocabile come una data infermità piuttosto che un’altra (3), ma stabilisce convenzionalmente (e quanto possono pesare le note lobby in tal senso è palese, si ricordi ad esempio il caso dell’omosessualità e quello ancora peggiore della pedofilia!) cosa debba considerarsi malattia o disturbo mentale (questo succede nella classificazione di tali disturbi, come riportati nel DSM, Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), a prescindere da qualunque evidenza sperimentale.

All’obiezione che in questo campo le evidenze non possano pretendersi, come invece succede per il resto della medicina ufficiale, si risponde che è la medesima psichiatria ad aver sdoganato l’uomo dallo spirito, dandone una spiegazione meramente «cosificata», materialistica, collocando la persona fuori da ogni prospettiva trascendente e relegandola al mero campo di impulsi biochimici e di reazioni biologiche ed organiche; l’uomo è un animale, forse un po’ più evoluto, ma nulla più (lo disse Wilhelm Wundt, padre della cosiddetta psicologia sperimentale, che definiva l’anima «uno spreco di energia»)!

Non vorremmo essere fraintesi: non stiamo affermando che non esistono persone malate o malattie specifiche dell’anima e del corpo (mai solo della mente), ma soltanto che forse la loro indagine diagnostica ed il relativo rimedio terapeutico debbano necessariamente superare i confini di una scienza automutilata (perché scientista e materialista), per aprirsi al trascendente, al fine di comprendere con più luce e sapienza non soltanto i perché, ma anche il come intervenire in maniera davvero efficace.
Malauguratamente la psichiatria rifiuta a priori questo approccio, perché (con alterigia) pretende di saperne di più, di essere completamente sufficiente a se stessa.
L’uomo deve essere liberato dalle pastoie di un pensiero arcaico e bigotto e deve librarsi libero nelle voluttà della ragione (non più ragionevole e completamente assoggettata alle correnti coinvolgenti delle proprie pulsioni).

La stessa denominazione assunta, psichiatria (termine coniato da Christian Reil), etimologicamente assume proprio il significato sotteso allo scopo prefisso: curare l’anima scientificamente, prescindendo da ogni riferimento e visione soprannaturale.
Il tentativo neanche nascosto, ma palese, degli psichiatri fu proprio quello di collocare il problema del malessere esistenziale da un piano spirituale ed onnicomprensivo della persona (come fa il cristianesimo) ad uno soltanto (e meramente) materiale e fisico: l’inquietudine esistenziale che sorge fondamentalmente da una vita di peccato diviene malattia mentale; squilibrio di apporti chimici all’interno del cervello.
Del resto anche le recenti ricerche (di cui scrivemmo questa estate) sul determinismo sessuale, pretendono di agire allo stesso modo, dimenticando però, che l’impulso chimico potrebbe essere la manifestazione organica, l’evento causato e non causante di un atteggiamento dello spirito; del resto chi ci dice che non sia così?
Non vi sono prove che possano dimostrare il contrario!
Tutto dipende dal punto di osservazione prescelto.

Ma purtroppo per chi ci accusa di complottismo facciamo notare che le intenzioni dei padri fondatori di questa pseudoscienza ebbero ben chiaro il loro primario obiettivo: demolire la fede nel trascendente, abbattere ogni etica ed ogni valore morale, vera causa delle nevrosi (a loro vedere).
Pavlov, come Freud, padre della psicanalisi (di cui tratteremo un’altra volta) del resto cercheranno di spostare la visione teocentrica del «problema uomo» (tipica di una prospettiva trascendente) ad un riduzionismo (perché necessariamente questo è) antropocentrico; Freud, in particolare, riteneva che la fede potesse essere superata dalla vera conoscenza, dalla cultura che estingue la superstizione: il mondo di oggi conferma la superficialità di tale analisi.

John Dewey, seguace di Wundt, pubblicherà (in duplice edizione, la prima risale al 1933, la seconda al 1973) un Manifesto Umanista, nel quale saranno palesate le idee della psichiatria nei confronti della religione; quest’ultima, additata come un retaggio del passato assolutamente incapace di risolvere «il problema del vivere umano», fonte di infelicità per l’uomo, doveva essere sostituita dalla «via dell’igiene sociale e mentale», cioè la «pulizia» dalle vetustà degli obblighi morali e spirituali.
Non è un caso se la causa del disturbo ossessivo-compulsivo è stata identificata da alcuni studiosi (4) proprio nelle «imposizioni morali» eccessivamente rigorose, che sorgono dall’obbedienza alla fede; come dire: «seguire dei principi etici genera ossessioni patologiche che creano disagi tali da dover essere superati attraverso comportamenti o azioni mentali distonici, irrazionali e ripetitivi che l’individuo si sente obbligato a eseguire per porre un rimedio all’imbarazzo vissuto»!
Tradotto in parole povere: la fede (e la morale che ne discende) è potenziale causa di patologie mentali.

Questo l’obiettivo della WFMH (World Federation Mental Health), che pretende di superare le categorie di «giusto e sbagliato», prescindendo da ogni morale oggettiva.
Alcuni psichiatri hanno addirittura additato Gesù stesso come personaggio infermo mentalmente, che avrebbe avuto bisogno dei loro trattamenti (5); siamo al delirio!
Inquietanti in tal senso, furono le dichiarazioni dello psicologo (cattolico) William Coulson, il quale, dopo essersi ravveduto, svelò che (insieme a Carl R. Rogers) riuscì letteralmente a corrompere (negli anni ‘60) molti degli ordini religiosi della costa orientale degli USA sottoposti a psicoterapia (particolarmente danneggiato l’ordine delle suore dell’Immacolato Cuore di Maria, che subì una perdita di vocazioni, nel giro di un anno, pari ad oltre la metà: 300 su 560 chiesero la dispensa a Roma)!

Molti dei temi legati alla psicoterapia vertono infatti sull’educazione sessuale, che, sempre secondo il parere di Coulson a null’altro esito porta se non ad una «maggiore esperienza sessuale».
Pensate il danno morale che ne ricevono studenti giovani e non ancora maturi psicologicamente e perfino seminaristi, che, ahimè!, sono costretti a studiare panzane psicologiche per comprendere meglio, per esempio, la vita di coppia!!!
In questo non poca responsabilità hanno i pastori e coloro che consentirono a tale pessimo costume, dimenticando il dono del discernimento degli spiriti e quello di intelletto, che se impetrati da Dio possono essere concessi convenientemente (insieme alla comunque sufficiente «grazia di stato») per guidare con luce soprannaturale ed infallibile le anime affidate alla pastorale dei sacerdoti.
Non ci si lamenti poi dei «preti pedofili» od «omosessuali»!

Lo studio delle false scienze, secolarizzate e subdole, può far perdere spiritualità autentica e soprattutto il contatto intimo con Dio, fonte di ogni bene e sapienza vera.
Il problema non sarebbe lo «studio» in sé, quanto piuttosto l’importanza e l’evidenza che a tale studio dovesse accordarsi; l’uomo che vive davvero dello spirito saprebbe discernere ciò che è buono da ciò che non lo è, come ciò che è vero da ciò che è falso; lo schiavo delle proprie passioni, invece, si vedrebbe impedito a decidere oggettivamente e liberamente.
Il vero problema quindi è che mancando l’adesione incondizionata alla fede nell’animo delle persone (seminaristi o vescovi che siano), si sviluppa anche una tendenza al rilassamento morale, che può divenire legaccio mortale; e questo indebolimento nella fede, purtroppo c’è stato!
Già l’idea che la Sacra Scrittura e la Santa Tradizione possano essere insufficienti a rispondere ad ogni problematica dell’uomo, ad ogni suo malessere, rappresenta un cedimento forte nella vita dello spirito e la porta aperta alla secolarizzazione!
Cosa può insegnare la scienza umana di uno scienziato deliberatamente e volutamente laico ed ateo?

Le conclusioni che possiamo trarre sono quelle che ci rimandano ad un più serio esame dei contenuti della nostra spiritualità; conoscerla di più (attraverso il Magistero, la Bibbia e la vita e le opere dei Santi) approfondire l’incontro quotidiano con Cristo (attraverso lunghi momenti di preghiera), entrare in «Cristoterapia» (per usare l’espressione del professor Morabito) ci consentirebbe di risolvere tutti (e non esagero!) i problemi esistenziali del nostro quotidiano vivere.
Abituarsi a vincere e dominare le pulsioni del nostro essere, restando signori e mai schiavi delle passioni che si muovono nelle mostre membra; chiedere a Dio il dono di ogni cosa, piccola e grande che sia, per essere veramente completi e felici.

Del resto lo facciamo già tutti i giorni nel «Padre nostro» (ma con quanta fede?): «dacci oggi il nostro pane che ci dà l’essere» (6), il pane quotidiano, sovrasostanziale che è capace di colmare ogni nostra necessità fisica, mentale, spirituale e materiale, Gesù stesso.

Stefano Maria Chiari



1) Da http://www.aipsimed.org/?q=node/2109
2) Da http://www.apc.it/depressione.asp
3) Si veda «La psicologia smitizzata» di Lisa Bazler e «Perché i cristiani non possono credere alla psicologia» di Ed Blukley.
4) K. White, S. Quay, G. Stetekee, «Religion and Guilt in OCD Patients», 1989.
5) Non è uno scherzo; è (parafrasando) quanto affermato da Charles Binet Sangle in «La Follia di Gesù» (1910) e da William Hirsch in «Conclusioni di uno psichiatra» nel 1912, nonchè da William Sargant, che ebbe addirittura a dichiarare che Gesù, sotto trattamento, sarebbe tornato
tranquillamente a fare il falegname! Semplicemente blasfemi!
6) Traduzione possibile dal greco epiousion.


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