La Tradizione divino / apostolica e la polemica antigiudaica dei Padri della Chiesa
Introduzione: I Padri Apostolici, Apologisti Ed Ecclesiastici In Generale
Prologo
Recentemente (15 giugno 2019) la “Civiltà Cattolica” ha pubblicato un articolo titolato “Ebrei ed Ebraismo nell’insegnamento cattolico. Una rivoluzione nell’interpretazione”, a cura del padre gesuita David Neuhaus[1] corrispondente da Israele della Rivista romana dei Gesuiti.
Padre Neuhaus scrive che la svolta del Concilio Vaticano II e specialmente quella del Decreto Nostra aetate (28.X.1965) sui rapporti tra Cristianesimo e religioni non cristiane: Islam e specialmente il Giudaismo postbiblico “è una delle grandi Rivoluzioni del XX secolo. Infatti, nel corso dei secoli, spesso ai Cristiani si è insegnato a collegare le parole Ebrei ed Ebraismo con i regni del peccato, della ribellione, dell’oscurità e del male attraverso una malintesa interpretazione dei testi biblici” (cit., p. 417).
Insomma secondo il gesuita Neuhaus qualcuno, ossia il Magistero della Chiesa[2] e quindi i Papi (ed eventualmente l’Episcopato subordinato a essi) da S. Pietro (v. Discorso di Cefa ai Giudei nel dì di Pentecoste dell’anno 28[3] e il Concilio di Gerusalemme dell’anno 49/50 diretto da Pietro[4]) fino alla vigilia del Concilio Vaticano II (1962-1965) avrebbe insegnato (“spesso si è insegnato ai Cristiani”) a tutti i Cristiani, interpretando malamente la S. Scrittura, (“attraverso una malintesa interpretazione dei testi biblici”[5]) per 1900 anni consecutivamente (“nel corso dei secoli”), ad accostare l’Ebraismo post-biblico al regno del peccato d’incredulità nella divinità e messianicità di Gesù Cristo. Il che è un fatto evidente e storicamente constatato e “contro il fatto non vale l’argomentazione”. Dunque l’unica frase veritiera e di buon senso che il gesuita abbia scritto come ìncipit del suo articolo è che l’insegnamento pastorale del Vaticano II e soprattutto di Nostra aetate “è una delle grandi Rivoluzioni del XX secolo”, come già il padre domenicano Yves Congar, negli anni Sessanta/Settanta, lo aveva paragonato alla Rivoluzione francese e Mons. Suenens a quella bolscevica del 1917.
Ora, sempre secondo il gesuita Neuhaus, sarebbe stato “lo storico francese ebreo Marx Jules Isaac, un sopravvissuto alla shoah” (cit., ivi) “dopo la Seconda guerra mondiale” (ivi) ad aver “documentato lo sviluppo dell’insegnamento del disprezzo” (ivi) da parte della Chiesa, a partire da Gesù e dagli Apostoli sino a Pio XII compreso, verso l’Ebraismo.
Tuttavia, grazie allo “spirito del Vaticano II” l’insegnamento del disprezzo cristiano verso l’Ebraismo si sarebbe trasformato in “insegnamento del rispetto attraverso gli incontri di studiosi ebrei, quali Jules Isaac [facente parte della massoneria ebraica chiamata Bené Berìt, vissuto nel 1907-1972, ndr] e Abraham Joshua Heschel [un rabbino talmudista e cabalista polacco chassidico, vissuto dal 1877 al 1963, ndr][6] con i più alti esponenti del Vaticano” (ivi) soprattutto Giovanni XXIII e il Card. Augustin Bea (ivi).
Il gesuita prosegue e ci insegna che “secondo l’insegnamento del disprezzo” cristiano antiebraico “gli Ebrei erano coloro che non soltanto avevano ucciso Gesù di Nazareth, il Cristo-Messia e il Figlio di Dio, ma avevano anche continuato ostinatamente a rifiutarsi di riconoscerlo dopo la sua risurrezione dai morti” (ivi). Ebbene il fatto che l’Ebraismo talmudico si rifiuti tuttora di credere alla divinità di Cristo è lapalissiano per tutti gli uomini di buon senso tranne che per i kantiani, i neomodernisti, i giudaizzanti e i giudeo/cristiani, che di cristiano hanno solo il nome mentre la sostanza è talmudicamente giudaica.
L’insegnamento del disprezzo, secondo p. Neuhaus, si basava su “alcuni testi tratti dal Nuovo Testamento […], ma anche su passi dell’Antico Testamento […]. I Padri della Chiesa […] avevano aggiunto ulteriori elementi alla visione negativa degli Ebrei e dell’Ebraismo” (cit., p. 418). In breve è tutta la Rivelazione divina (Scrittura e Tradizione patristica) che dipinge negativamente (sbagliandosi, secondo il Neuhaus) l’incredulità giudaica, sino a che la “gloriosa Rivoluzione modernista del Vaticano II”, proseguendo la marcia della Rivoluzione bolscevica, non ha cambiato rotta e ha trasformato il disprezzo in rispetto del Deicidio e dell’incredulità nella divinità di Gesù…
Ma, continua il gesuita, il cambiamento conciliare era stato preceduto dalla riflessione sulla shoah, dopo la Seconda guerra mondiale, quando “i cattolici[7] hanno cominciato a rendersi conto che il loro insegnamento sugli Ebrei, formulato nel corso dei secoli, aveva dato frutti raccapriccianti” (ivi). Quindi la Chiesa per circa duemila anni ha insegnato malamente ed erroneamente e così ha prodotto dei “frutti raccapriccianti”, ossia la shoah. Siccome “l’albero si vede dai suoi frutti” (Mt., VII, 17), se i frutti della Chiesa sono stati raccapriccianti, l’albero ossia la Chiesa - da Gesù al 1945/1962 - è anch’esso “raccapricciante”, ossia “provoca raccapriccio, orrore, turbamento profondo, inorridimento, agghiacciamento” (Nicola Zingarelli, Vocabolario della Lingua Italiana, Bologna, Zanichelli, X ed., 1970, p. 1396, voce “Raccapricciare”). Inoltre non si può non notare l’importanza giocata dalla shoah nella nuova dottrina rivoluzionaria della Tradizione apostolica del Vaticano II. Ancora oggi coloro che trattano il problema di Nostra aetate lo mettono in relazione di effetto con la shoah come sua causa.
Poi il gesuita cita la lunga serie di Documenti vaticani prodotti dalla “Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo”, tra cui spiccano “Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah”, 12 marzo 1998; Id., Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei ed Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, 1985; Id., Orientamenti e Suggerimenti per l’Applicazione della Dichiarazione Conciliare “Nostra aetate” (n. 4), 1° dicembre 1974; Id., “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rom., XI, 29). Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico/ebraiche in occasione del 50° anniversario di “Nostra aetate” (n. 4), 10 dicembre 2015; Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Commissione Biblica, 11 aprile 1997; “Pontificia Commissione Biblica”, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, 2001.
Padre Neuhaus spiega anche che Nostra aetate (d’ora in poi NA) e i testi del Concilio “hanno favorito una nuova comprensione dell’ermeneutica biblica, la riforma liturgica e anche atti simbolici da parte dei Papi” (p. 419). Si pensi alla “Nuova Teologia” condannata da Pio XII nell’Enciclica Humani generis (12 agosto 1950) cui è seguita la “Nuova Esegesi”[8] approvata dal Vaticano II; si pensi ad “Assisi 1986/1996/2006/2016”; alla visita di Giovanni Paolo alla sinagoga di Roma il 13 aprile del 1986 e al Novus Ordo Missae di Paolo VI (1968/69) che tanto sconquasso ha portato in ambiente ecclesiale. A questo proposito non si può non rimarcare il cambiamento della preghiera per la conversione dei Giudei del Venerdì Santo, che sino alla riforma del 1962 suonava così: “Preghiamo anche per i [“perfidi” da “per/fidem”, ossia “fede deviata”, tolto da Giovanni XXIII, ndr] Giudei, affinché il Signore tolga il velo dai loro cuori ed anch’essi riconoscano Gesù Cristo, Signore nostro. […]. Dio onnipotente, […] esaudisci le preghiere che Ti rivolgiamo per questo popolo accecato, affinché riconoscendo la luce della tua verità, che è Cristo, siano strappati alle loro tenebre. Per lo stesso nostro Signore Gesù Cristo”.
Perfidia è sinonimo di infedeltà, ossia “mancanza di fede in chi dovrebbe credere”[9]. “L’infedeltà giudaica è la perfidia”[10]. “San Martino scongiura a più riprese gli Ebrei di rinunziare alla perfidia del loro antico errore e di ricevere alla fine la vera fides”[11]. Gli Ebrei che non hanno creduto nella divinità di Cristo “per Sedulio Scoto […], sono diventati infedeli e perfidi, ossia eguali ai pagani”[12]. Insomma fede e perfidia sono due cose che si escludono. “La perfidia o mancanza di fede, è comune a tutti coloro che non credono a Cristo, musulmani come pagani politeisti. Tuttavia il malum perfidiae […] è per eccellenza il fatto degli Ebrei”[13]. Infatti l’Ebreo postbiblico, “per il fatto stesso [di aver rifiutato Cristo], da fedele diventa perfido. Poiché non ha voluto – come diceva S. Paolo – passare ex fide Veteris Testamenti, in fidem Novi Testamenti, […] ecco che precipita a fide in perfidiam […]. Con questa perfidia egli cessa di essere figlio del Patriarca Abramo […]. In lui avviene una fatale interruzione della corrente profetica”[14]. La mancanza di fede nella gran parte degli Israeliti, col passar del tempo, non si è fatta meno grave, anzi “è un’ ostinazione, un accecamento, […] una notte che cala sull’anima”[15]. Quindi ne segue che mentre “Gli antichi Giudei, sperando che Cristo sarebbe stato il Redentore, erano potenzialmente Cristiani […], necessariamente debbono essere considerati apostati coloro che, non accettando Cristo, sono colpevoli di avere violato la Legge”[16]. E ancora: la conversione “non deve essere ottenuta colla forza, e non bisogna perdere la speranza di portare i perfidi a trovare infine, in Cristo e per mezzo di Cristo, il vero senso delle Scritture”[17]. “È senza alcuna ostilità che la Chiesa dice all’Ebreo che viene a domandarle il Battesimo: Horresce judaicam perfidiam, respue judaicam superstitionem”[18]. Il Venerdì Santo “a maggior ragione, in questa preghiera solenne pro perfidis Judaeis […], non vi è niente che possa evocare l’odio razziale contro gli Ebrei”[19].
La preghiera pro Judaeis del Venerdì Santo, nel Novus Ordo Missae del 1968, non solo non parla più di “perfidia” o infedeltà, ma addirittura recita: “Preghiamo per gli Ebrei: il Signore Dio nostro, che li scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua Parola, li aiuti a progredire sempre nell’amore del suo nome e nella fedeltà alla sua Alleanza. […]. Signore fa che il popolo primogenito della tua Alleanza possa giungere alla pienezza della Redenzione. Per Cristo nostro Signore”. Insomma vi è una “Nuova Teologia/Esegesi/Liturgia”, che con il Vaticano II prende il posto della “Vecchia Teologia”.
La preghiera del NOM afferma, già nel 1968, ciò che disse… “per la prima volta”…, dodici anni dopo, Giovanni Paolo II a Mainz il 17 novembre 1980: “L’antica Alleanza non è stata mai revocata”. Infatti nella prece del 1968 si chiede per l’Ebraismo postbiblico, che ha rifiutato e continua a rifiutare Cristo come Messia e Dio, il progresso nell’amore di Dio, come se non Lo avesse rinnegato e cessato di amare nella Persona divina del Verbo Incarnato; inoltre si domanda che esso continui ad essere fedele all’Alleanza con Dio, come se non l’avesse rotta crocifiggendo Gesù e poi lo si chiama ancora Popolo primogenito dell’Alleanza di Dio, come se stesse ancora in Alleanza con Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; infine si chiede per esso la piena Redenzione, come se fosse già in atto di essere redento e gli mancasse solo la perfezione della Redenzione divina. Dunque il cambiamento rivoluzionario della dottrina cattolica non è iniziato con Giovanni Paolo II e con Francesco o col Sinodo dell’Amazzonia, ma già con Giovanni XXIII (1958-1963) e con il Concilio Vaticano II (1962-1965). Non si può parlare di apostasia solo a partire dal futuro Sinodo sull’Amazzonia che si terrà in Vaticano nell’Autunno del 2019, ma occorre rimontare a papa Roncalli (1958-1963).
Inoltre il Neuhaus ci dà un’informazione molto importante, che ha ripreso dal “Comitato Ebraico Americano” (anno 1965) e da un articolo su la “Civiltà Cattolica” di p. Giovanni Caprile (anno 1983) e poco conosciuta: «In una preghiera molto popolare, pubblicata dopo la morte di Giovanni XXIII (1963) e attribuita a lui, è scritto: “Noi siamo oggi coscienti che nel corso di molti secoli i nostri occhi erano così ciechi che non eravamo più capaci di vedere la bellezza del tuo popolo eletto, né di riconoscere nel tuo Volto i tratti dei nostri fratelli privilegiati. Noi comprendiamo che il segno di Caino è scritto sulla nostra fronte. […]. Perdonaci per la maledizione che abbiamo attribuito ingiustamente al loro nome di Ebrei. Perdonaci per averti una seconda volta crocifisso in essi nella loro carne, perché non sapevamo quello che facevamo”[20]» (p. 422).
In breve, per Giovanni XXIII, la cecità non appartiene all’Ebraismo talmudico che ha rifiutato e continua a rifiutare la messianicità e divinità di Cristo, ma al Cristianesimo che non ha saputo vedere per molti secoli (circa venti) la “bellezza” del Giudaismo infedele a Cristo e che già dal 1958 al 1963 (Pontificato di Giovanni XXIII) era “Fratello privilegiato” del Cristianesimo (senza dover attendere il 1986 con il discorso di Giovanni Paolo II su “gli Ebrei Fratelli Maggiori dei Cristiani nella fede di Abramo”); Cristianesimo che sarebbe marchiato dal segno di Caino: l’uccisore del fratello Abele. Insomma il popolo deicida sarebbe quello Cristiano, che avrebbe crocifisso Gesù una seconda volta nell’insegnare (da Gesù sino a Pio XII) che l’Ebraismo talmudico è disapprovato da Dio. Insomma già con Giovanni XXIII si assisteva alla Rivoluzione teologica che ribaltava completamente i rapporti tra Cristianesimo e Giudaismo postbiblico e “sostituiva” la “Teologia della sostituzione” della Sinagoga accecata da parte della Chiesa di Cristo, con la “contro-teologia” della “sostituzione” della Chiesa da parte della “Sinagoga di Satana” (come la chiama l’Apocalisse, II, 9; III, 9). Quindi non è esatto attribuire tutte le responsabilità dell’apostasia generale oggi trionfante a papa Bergoglio, ma occorre risalire a Giovanni XXIII, che ha aperto il Concilio Vaticano II (11 ottobre 1962). I Pontificati dei Papi “conciliari” dal 1962 ad oggi formano un continuum e non sono assolutamente in discontinuità tra di loro. La rottura c’è, ma solo tra la Chiesa preconciliare e la “Chiesa conciliare”, che ha rovesciato la dottrina cattolica sui rapporti tra Antico e Nuovo Testamento, tra Cristianesimo e Giudaismo talmudico, rigettando la Rivelazione divina (Tradizione e S. Scrittura) interpretata dal Magistero da Gesù sino a Pio XII.
Perciò “si son dovuti sottoporre i testi scritturistici relativi agli Ebrei e all’Ebraismo a processi di reinterpretazione” (ivi). Poi il padre gesuita commenta: “Questo orientamento ha reso possibile respingere le letture tradizionali antiebraiche del testo biblico, anche quando esse erano radicate nei Padri della Chiesa e nella Tradizione successiva” (p. 420). In breve, la Tradizione apostolico/patristica e la S. Scrittura, ossia le due fonti della divina Rivelazione, sono state cambiate, almeno a riguardo dei rapporti tra Cristianesimo e Giudaismo, dopo il Concilio Vaticano II, il quale è in oggettiva rottura con la Rivelazione e non in continuità, come sofisticamente si continua a dire, senza poterlo provare.
Infine padre Neuhaus ci ricorda che il Documento Orientamenti e Suggerimenti per l’Applicazione della Dichiarazione Conciliare “Nostra aetate” (n. 4) della “Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo” del 1° dicembre 1974, arrivava già allora a rivalutare la Tradizione ebraica postbiblica, ossia il Talmud e la Cabala giudaica. Infatti esso recita: “L’Antico Testamento e la Tradizione ebraica su di esso fondata non debbono essere considerati in opposizione al Nuovo Testamento” (Orientamenti, III). Ora secondo la dottrina cattolica tradizionale o preconciliare è pacifico che non c’è opposizione tra Antico e Nuovo Testamento, mentre essa esiste tra il Vecchio e il Nuovo Testamento con la “Tradizione” ebraica postbiblica, ossia con la Cabala e il Talmud, che rappresentano la “tradizione” deviata (dogmatica e morale) del Giudaismo post-biblico[21], ferocemente contraria alla SS. Trinità e alla divinità di Gesù Cristo, annunziate nell’Antico Testamento e realizzate e professate esplicitamente nel Nuovo Testamento. Invece la Dichiarazione postconciliare “Orientamenti” del 1974, promulgata sotto il Pontificato di Paolo VI, ribalta l’insegnamento tradizionale e bimillenario della Chiesa (da Gesù, gli Apostoli e i Padri sino a Pio XII). Infatti Orientamenti (III) continua e insegna che “la storia dell’Ebraismo non si è conclusa con la distruzione del Tempio di Gerusalemme, ma ha continuato a svolgersi sviluppando una Tradizione religiosa, la cui portata, pur assumendo un significato profondamente diverso dopo Cristo, resta tuttavia ricca di valori religiosi”. Insomma la Tradizione ebraica prima di Cristo, ossia il Vecchio Testamento e quella dopo Cristo (il Talmud) pur essendo diverse profondamente, sarebbero egualmente ricche di valore religioso, anche se una è la negazione dell’altra. Infatti il Vecchio Testamento era tutto relativo a Cristo mentre il Talmud è contro Cristo e perciò non è religiosamente ricco, bensì povero, intrinsecamente perverso, blasfemo e anticristico.
Per quanto riguarda Benedetto XVI, che alcuni si ostinano a presentare come il Papa tradizionale o l’anti-Bergoglio, p. Neuhaus ci fa notare che egli è stato il primo Papa a citare il Talmud babilonese (Trattato Yoma, 85b) positivamente in un testo ufficiale della S. Sede (Discorso alla Comunità ebraica di Parigi, 2008), mentre papa Gregorio IX ordinò la confisca del Talmud nel 1239 e nel 1242 fece bruciare a Parigi 24 carri carichi di volumi manoscritti del Talmud davanti a Notre Dame de Paris (p. David Neuhaus, cit., p. 427), che è andata bruciata nel giugno del 2019...
Questa innovazione di Benedetto XVI è stata ripresa il 10 dicembre del 2015, regnante papa Francesco, dalla “Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo”, nel Documento Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50° anniversario di “Nostra aetate” (n. 4), che cita ancora una volta il Talmud (Trattato Pirqe Avot, II, 7), su di essa papa Francesco ha fatto un Discorso ai membri dell’International Council of Christians and Jews (30 giugno 2015) in cui ha detto che se “i Cristiani nella ricerca di Dio, si rivolgono a Cristo”; gli Ebrei invece si rivolgono “all’insegnamento della Torah”. Quindi Gesù non sarebbe più l’unico Mediatore e il Redentore universale dell’Umanità poiché ci si potrebbe salvare anche senza di Lui. Infatti il Catechismo della Chiesa Cattolica (citato dai teoconservatori come il non plus ultra dell’ortodossia cattolica) del 1992, pontificante Giovanni Paolo II, insegna che “il popolo di Dio dell’Antica Alleanza e il nuovo popolo di Dio tendono a fini analoghi: l’attesa della venuta (o del ritorno) del Messia” (CCC, 840). Tuttavia viene spontaneo osservare che la venuta ancora futura del Messia significa la negazione della sua venuta passata nell’Incarnazione del Verbo. Quindi esse sono due vie contrapposte e contraddittorie, non analoghe. Insomma o Gesù (che è già venuto) è Dio e allora il Giudaismo postbiblico è fuori strada oppure non è Dio e allora il Messia/Dio deve ancora venire e perciò il Cristianesimo è un bluff e l’Ebraismo è la verità. Tertium non datur. Tutti e due assieme non possono essere veri. O Cristianesimo o Giudaismo talmudico. Il tentativo dei giudaizzanti neomodernisti di conciliarli è una negazione pratica del principio per sé noto ed evidente di “non-contraddizione”: “sì = sì; no = no; sì ≠ no”, che non può essere messo in dubbio neppure ipoteticamente o indagativamente[22].
Il 28 ottobre del 1965, poco prima della fine del Concilio Vaticano II (8 dicembre 1965), venne promulgata la Dichiarazione conciliare Nostra aetate (NA) sui rapporti tra Giudaismo postbiblico (ben distinto dal Vecchio Testamento) e Cristianesimo. A partire da essa vi è stata una vera “sovversione” della dottrina cattolica sul problema della religione giudaica/postcristiana. Giovanni Paolo II (1978-2005) ha fatto di NA il “cavallo di battaglia” del suo lungo Pontificato e l’ha diffusa dappertutto. Egli – appena due anni dopo la sua elezione pontificia – ha dichiarato, alla luce di NA, che “l’Antica Alleanza non è stata mai revocata” (Discorso a Magonza, 17 novembre 1980) e, sei anni dopo, che “gli Ebrei sono fratelli maggiori dei Cristiani nella fede di Abramo” (Discorso alla sinagoga Roma, 13 aprile 1986). A partire da queste due asserzioni (contrarie alla fede cattolica) sia Benedetto XVI (2005-2013) sia papa Francesco (2013) non solo hanno ribadito i medesimi errori, ma ne hanno esplicitati dei nuovi, già contenuti virtualmente in esse e in NA.
Infine – nei primi mesi dell’anno 2019 – è stato pubblicato il libro 1°) La Bibbia dell’Amicizia. Brani della Torah/Pentateuco commentati da Ebrei e Cristiani (Cinisello Balsamo, San Paolo) con una “Prefazione” a cura di papa Bergoglio ed un’altra del rabbino Abraham Skorka; e 2°) sùbito dopo – verso la Pasqua del medesimo anno – è uscito un secondo libro sullo stesso tema, titolato Ebrei e Cristiani, redatto dal “papa/emerito” Benedetto XVI (Cinisello Balsamo, San Paolo) in collaborazione col rabbino-capo di Vienna Arie Folger. Padre David Neuhaus nel suo articolo su “Civiltà Cattolica” del 15 giugno 2019 non cita questi libri. Evidentemente il suo articolo è stato composto prima della pubblicazione dei due volumi sopra citati. Comunque se non cronologicamente, almeno dottrinalmente p. Neuhaus li introduce ed apre loro la strada, facilitandone la comprensione al lettore. È per questo motivo che ho parlato prima dell’articolo di p. Neuhaus e ora tratto i libri di papa Bergoglio e Ratzinger, che confuterò più estesamente in un libro che dovrebbe uscire per settembre.
In questi due libri papa Bergoglio e il “papa-emerito” Benedetto XVI spargono numerosi errori, se non eresie materiali, sulla fede nella divinità di Cristo, sulla SS. Trinità, sui rapporti tra Antico e Nuovo Testamento, sulla Redenzione universale di Gesù e sul Dogma “Extra Ecclesiam nulla salus!”. Perciò ho ritenuto doveroso affrontarli, sperando di aiutare i fedeli della Chiesa di Cristo, i quali in questi tristissimi tempi di “grande apostasia universale” (II Tess., II, 3) sono come “pecorelle senza pastore” (Mt., X, 6; XV, 24) e dunque sempre più “smarrite e disperse” (Mt., IX, 36; XIV, 14; Mc., VI, 34; Giov., VI, 5).
Gli errori di papa Ratzinger e Bergoglio riguardano in generale il problema ebraico/talmudico e in maniera specifica 1°) la questione del “Deicidio”; 2°) il problema se i Giudei crocifissori di Gesù sapessero che Egli era Dio; 3°) quale sia l’atteggiamento di Dio nei confronti del Giudaismo religione postbiblica dopo il Deicidio; 4°) il grave problema di fede che la Dichiarazione NA pone alla coscienza dei cattolici fedeli; ed infine – studiando questi quattro quesiti alla luce della Teologia cattolica tradizionale – ci s’imbatte inevitabilmente nella 5°) questione del Giudeo/Cristianesimo e dei Cristiani Giudaizzanti, purtroppo convogliati, “autorizzati” e spinti a giudaizzare da Bergoglio e ancor più da Ratzinger.
Attualità dei “Padri apostolici”
La polemica dei “Padri apostolici” contro il Giudaismo postbiblico
Nella Teologia del “periodo sub-apostolico il tratto particolarmente caratteristico è la polemica col Giudaismo contemporaneo[23]. Alla pretesa del Giudaismo postbiblico di essere ancora il popolo eletto e il solo detentore delle promesse di Dio, da parte cristiana viene contrapposta la dottrina secondo cui, in séguito all’infedeltà del popolo ebraico al Vecchio Patto con Dio, i Cristiani sono il Verus Israel, che ha accolto l’eredità del popolo rigettato da Dio e lo ha soppiantato. Ciò è espresso nel modo più categorico da S. Ignazio d’Antiochia e nella Lettera di Barnaba[24]” (H. Jedin, Storia della Chiesa, Milano, Jaca Book, 1975, vol. I, pp. 183-184).
Per tutti i Padri della Chiesa già dal I secolo sino a S. Agostino (V secolo)[25] la causa efficiente e volontariamente responsabile della morte di Gesù è il Giudaismo farisaico/talmudico in primis tramite i suoi capi e in secundis mediante i semplici fedeli. Nella morte di Cristo è implicata la comunità religiosa dell’Israele post/biblico – che ha rifiutato la divinità e messianicità di Gesù e persevera tuttora nel rifiuto perpetrato dai propri padri – ma non tutta la stirpe fisica. Infatti, un “piccolo resto [reliquiae] d’Israele” (Rom., IX, 27-28) fu fedele a Cristo: i Dodici Apostoli e qualche migliaio di Discepoli: gli Atti degli Apostoli parlano di “circa tremila anime” convertitesi il dì di Pentecoste (Atti, II, 41), anche se la maggior parte del popolo prese parte attiva alla condanna a morte di Gesù.
Nei prossimi articoli vedremo i “Padri apostolici”[26] in maniera dettagliata, poi studieremo i “Padri apologisti”, ma non tratteremo in maniera specifica i “Padri ecclesiastici” (se non in qualche rara eccezione di attualità riguardo al problema del “Giudeo/Cristianesimo” tornato prepotentemente alla ribalta con il Concilio Vaticano II, Dichiarazione Nostra aetate, 28 ottobre 1965) e il postconcilio (soprattutto con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI).
Infatti si conoscono abbastanza bene i Padri della Chiesa dal IV all’VIII secolo[27] (S. Ilario di Poitiers † 366; S. Ambrogio da Milano † 397; S. Girolamo † 419; S. Agostino † 430; S. Gregorio Magno † 604; S. Isidoro di Siviglia † 636; S. Beda il Venerabile † 735, col quale si chiude la Patristica in Occidente, e, S. Giovanni Damasceno † 749, l’ultimo Padre della Chiesa in Oriente[28]), mentre sono meno conosciuti i Padri apostolici e apologisti sui quali, perciò, dovremo insistere.
Una parola a parte merita S. Agostino, ritenuto il più grande dei Padri, che poté studiare quasi tutto il patrimonio della Teologia patristica, assimilarla e fare una sintesi grandiosa di quattrocento anni di elaborazione teologica, specialmente orientale. Di esclusivamente suo abbiamo la dottrina sulla grazia e sul peccato originale, nata dal dover combattere il naturalismo di Pelagio. Secondo Pietro Parente “Agostino è il creatore della Teologia sistematica” (cit., p. XX), da cui nacque la Scolastica. “La Teologia nata con la Patristica ha la sua prima pietra miliare nell’opera di S. Agostino; mentre con la Scolastica, specialmente di S. Tommaso, attinge il vertice sommo della speculazione teologica” (P. Parente, cit., p. XXII[29]).
Da Gesù Agli Apostoli
Le due fonti della Rivelazione divina
I - La “Tradizione divino/apostolica”
Gli Apostoli, prima trasmisero oralmente (Tradizione divino/apostolica) – a partire dalla Pentecoste, nell’anno 28 circa, sino alla morte dell’ultimo dei Dodici, S. Giovanni, avvenuta attorno al 100/117 – quanto avevano ascoltato direttamente da Gesù.
La Tradizione è la parola di Dio, concernente la fede e i costumi, “non-scritta”, ma trasmessa a viva voce da Cristo agli Apostoli (“Tradizione divina”) e dagli Apostoli ai “Padri apostolici” (I-II secolo, “Tradizione divino-apostolica”), per giungere attraverso i “Padri apologisti” (III secolo), i “Padri della Chiesa” (IV-VIII secolo) e i “Dottori scolastici” (X-XX secolo: dalla “Prima Scolastica” alla “Terza Scolastica”) sino a noi. Si dice “non-scritta” per significare che non è scritta “per Ispirazione divina” (come la S. Scrittura), pur potendo essere contenuta nei libri scritti dai Padri greci e latini. Il Concilio di Trento (sess. IV; DB, 738-783) ha definito solennemente, contro il Protestantesimo, che le Fonti della divina Rivelazione sono la S. Scrittura e la Tradizione (divina e divino/apostolica). Questo Dogma è stato ripreso e definito nuovamente dal Concilio Vaticano I (DB, 1787) contro il Razionalismo. Gesù predicò e non scrisse nulla, poi affidò ai Dodici Apostoli la sua Dottrina e la Missione di predicarla (“docete, praedicate”, Mt., XXVIII, 18, Mc., XVI, 15), non di scriverla.
Natura della Patristica
Con la morte dell’ultimo Apostolo ed Evangelista, S. Giovanni nel 110-117 circa, e con la stesura di tutto il Nuovo Testamento (il 96-98 circa per l’Apocalisse; il 100 circa per il Vangelo secondo San Giovanni) si chiude la Rivelazione pubblica e iniziò l’epoca della Teologia.
Il primo periodo della storia della Teologia è quello dei Padri della Chiesa, detto anche epoca della Patristica. I Padri ci hanno trasmesso il contenuto della predicazione degli Apostoli. Durante il corso delle controversie cristologiche e trinitarie del III-V secolo si ricorreva all’insegnamento dei Padri per stabilire l’ortodossia di una dottrina. Infatti “l’accordo o il consenso moralmente unanime dei Padri è una garanzia di ortodossia” (A. Di Berardino diretto da, Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato-Roma, Marietti-Augustinianum, 1983, vol. II, p. 2563, voce “Padre, Padri della Chiesa” a cura di A. Amann). Ancora Amann nel Dictionnaire de Théologie Catholique scrive: “I Padri della Chiesa sono considerati dalla Chiesa stessa come testimoni eminentemente autorevoli nel campo della fede” (vol. XII/1, col. 1192).
San Vincenzo di Lerino (prima metà del V secolo) ha elaborato la definizione classica e definitivamente perfetta del concetto di Padre ecclesiastico. Nel suo Commonitorium (che è un manuale di “metodologia teologica” per aiutare a distinguere la fede cattolica ortodossa da quella ereticale) insegna che “Padre ecclesiastico è solo colui il quale visse e insegnò santamente e saggiamente, rimase stabile nella fede e nella comunione cattolica”. Inoltre specifica: “Ciò che tutti o la maggior parte di essi hanno affermato chiaramente, unanimemente, frequentemente e costantemente (“manifeste eodem sensu, frequenter, perseveranter”) come maestri concordi - ricevendolo, conservandolo e tramandandolo - deve essere ritenuto indubitabilmente certo e vero” (Commonitorium, cap. 28). Questa definizione deve essere integrata con quella di “Tradizione”, che San Vincenzo da Lerino aveva posto all’inizio della medesima opera (Commonitorium, cap. 2), ossia: “Ciò che è stato creduto e insegnato dappertutto, sempre e da tutti (“quod ubique, quod semper, quod ab omnibus”) è certamente e veramente cattolico e ortodosso, poiché segue l’universalità, l’antichità e il consenso unanimemente generale (“universalitatem, antiquitatem, consensionem”)”. Tuttavia egli non esclude un progresso soggettivo, estrinseco ed omogeneo del Dogma. Infatti prosegue: “Cresca l’intelligenza o la conoscenza della Tradizione, da parte dei fedeli, venendo approfondita e meglio spiegata, ma sempre (“in suo genere, in eodem dogmate, eodem sensu, eaque sententia”) nel medesimo genere, ossia nell’ambito dello stesso Dogma, conservando il medesimo significato e il medesimo concetto” (cap. 23). Questa definizione del lerinense di poco anteriore all’anno 450 è stata ripresa nel 1870 dal Concilio Vaticano I (DB, 1800), da S. Pio X (Enciclica Pascendi, 1907; Decreto Lamentabili, 1907: DB, 2026 e 2079 ss.) e da Pio XII (Enciclica Humani generis, 12 agosto 1950) per condannare l’evoluzione oggettiva, intrinseca ed eterogenea del Dogma[30].
Padre Battista Mondin afferma che queste due definizioni di S. Vincenzo da Lerino “si completano a vicenda e si richiamano a vicenda perché ciò che è creduto ovunque, sempre e da tutti è ciò di cui rendono testimonianza i Padri. Essi sono i garanti della Tradizione, essendone stati contemporaneamente protagonisti e testimoni; alcuni di essi sono stati testimoni della Tradizione apostolica, fonte da cui la Tradizione tutta trae origine, specialmente quelli dei primi secoli, i Padri apostolici e apologisti, possono considerarsi autori ed esponenti della Tradizione, che li rende inconfondibili rispetto agli altri protagonisti della storia della Chiesa” (B. Mondin, Storia della Teologia, Bologna, ESD, 1996, vol. I, pp. 49-50).
Quindi i requisiti per essere Padre ecclesiastico sono quattro: 1°) antichità (dal II all’VIII secolo); 2°) eccellenza della dottrina, che deve emergere per la qualità e la profondità dell’insegnamento; 3°) perfetta ortodossia, che non deve contenere teorie condannate dalla Chiesa; 4°) santità di vita. Quest’ultimo requisito esclude dalla cerchia dei Padri ecclesiastici molti “Scrittori ecclesiastici” (per esempio: Tertulliano, Origene, Eusebio da Cesarea, Lattanzio…) dell’epoca patristica, che tuttavia hanno contribuito, in maniera negativa, alla nostra conoscenza della Teologia dell’era patristica, facendoci scorgere gli errori combattuti dai Padri nel loro tempo.
Il Mabillon, commentando le opere di San Bernardo di Chiaravalle, condensa in due righe i requisiti costitutivi dei Padri ecclesiastici: “Doctrina eminent, sanctitate florent, antiquitate vigent et gaudent Ecclesia designatione / Eminenti nella dottrina, santi nella vita, forniti di antichità, riconosciuti dalla Chiesa” (Praefatio ad Opera S. Bernardi, § 2, n. 23).
Coloro che son forniti soltanto di “dottrina e antichità”, ma non hanno “la santità e l’approvazione della Chiesa” sono solamente “Scrittori ecclesiastici”.
“Il consenso moralmente unanime dei Padri in materia di fede e di morale è una testimonianza irrefragabile di Tradizione divina” (A. Piolanti, Dizionario di Teologia Dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, p. 299, voce “Padri della Chiesa”; rist. Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2019). Ossia, il consenso moralmente unanime dei Padri su un problema in materia di fede e di morale è segno certo o inconfutabile che la loro dottrina su quella questione è conforme alla “Rivelazione o Parola di Dio trasmessa da Cristo agli Apostoli e da questi ai loro Discepoli sino a noi” (A. Piolanti, cit., p. 411, voce “Tradizione”).
Caratteristiche della Patristica
La Patristica fu un’epoca di fermentazione fervorosa e di crescita teologicamente amorosa; invece la Scolastica fu un’era di sintesi – sistematica, speculativamente teoretica e raziocinativa – dei Dogmi, in cui venne accentuato l’uso della ragione e della filosofia nell’approfondimento, spiegazione e difesa della fede.
La Teologia dei Padri è una riflessione amorosa sulla Rivelazione divina, che si nutre, contempla, i misteri rivelati da Dio e contenuti nella Tradizione e nella Scrittura. Inoltre essa polemizza, dibatte, disputa con la teologia pagana e giudaica postbiblica per dimostrare la credibilità del Dogma cristiano. Molte opere di Padri iniziano con l’avverbio “Contra / Adversus (Haereses, Marcionem, Judaeos, Arianos, Pelagium, Manicheos, Nestorium…)”.
La Teologia dei Padri è scritta con amore soprannaturale, con devozione, con sana passione sottomessa alla ragione e alla volontà, è espressa col “cuore” (inteso come volontà e sentimento ad essa subordinato, mai come sentimentalismo esagerato) oltre che con la mente. È cristocentrica, trinitaria (con S. Agostino affronta anche il problema della grazia di Dio e del peccato originale e attuale), si avvale della filosofia platonica là ove essa è compatibile con la dottrina cristiana. È tendenzialmente contemplativa, ossia simile a uno sguardo amorosamente conoscitivo.
Per concludere, la Patristica è il primo anello che riceve – dalla fonte degli Apostoli – e trasmette – ai primi fedeli – la Rivelazione cristiana. Essa quindi è fondamentale, come il primo piano di un palazzo, crollato il quale crolla tutto l’edificio che posa su di esso. Per cui nessun Papa, Cardinale, Vescovo, teologo e nessun fedele deve e può perdere il contatto con essa. Si separerebbe dal “Canale” (Patristica) che gli porta l’“Acqua” (Verità di fede) dalla “Fonte” (Rivelazione: Tradizione e S. Scrittura), controllata ed esaminata nel suo contenuto “batteriologicamente puro” dal “Laboratorio chimico” (Magistero).
I “Luoghi Teologici”
La Tradizione è la “Fonte” e il “Canale” che trasmette la parola Rivelata da Dio, assieme alla S. Scrittura (cfr. S. Ireneo di Lione, Adversus haereses, I, 3, c. 4, n. 1; Tertulliano, De praescriptione haereticorum).
I principali “Strumenti” in cui si trova ed è rimasta conservata la Tradizione divina sono: 1°) i Simboli o Professioni della fede, 2°) la Liturgia, 3°) gli Scritti dei Padri, 4°) gli Atti dei Martiri, 5°) la storia della Chiesa primitiva, 6°) i Monumenti archeologici paleocristiani e 7°) la Pratica della Chiesa. Questi “Strumenti” sono stati chiamati da Melchior Cano († 1560) “Luoghi Teologici”. Infatti, la Teologia si fonda sulla 1°) divina Rivelazione – contenuta nella 2°) Tradizione e nella 3°) S. Scrittura – la cui retta interpretazione è stata affidata da Gesù 4°) al “Magistero vivente” della Chiesa, il quale si manifesta nelle 5°) Decisioni dei Papi, 6°) dei Concili (il Papa regnante più l’Episcopato subordinato al Papa), ed inoltre 7°) nell’Insegnamento moralmente unanime (o comune) dei Padri della Chiesa, dei Dottori scolastici e dei Teologi ricevuti e approvati dalla Chiesa.
Melchior Cano (De Locis Theologicis, Ed. Cucchi, Roma, 1900, lib. I, cap. 3) oltre a questi 7 Luoghi Teologici “Propri” (“Luoghi, siti o dimore di tutti gli argomenti della Teologia, dai quali i teologi traggono tutte le loro argomentazioni per fare Teologia”[31], che sono necessariamente connessi con la Teologia “in senso stretto” e che derivano immancabilmente dall’essenza della Teologia); ne aggiunse altri 3 detti “Impropri” o “Annessi” (Luoghi – in cui si trovano gli argomenti teologici “in senso largo” – che sono contingenti, ossia che potrebbero non esservi e non cambierebbero la natura della Teologia). I Luoghi Teologici “Impropri” sono: 1°) la retta Ragione umana, 2°) la Filosofia, che eleva a scienza la Ragione naturale e 3°) la Storia. Infine l’«Organo» di retta interpretazione del significato della Tradizione (e della S. Scrittura) è il “Magistero vivente” della Chiesa, nella persona del Papa regnante e, se il Pontefice vuole, dei Vescovi a lui subordinati.
Riassumendo: la Fonte e il Canale che contengono e ci trasmettono la Rivelazione sono la Tradizione e la S. Scrittura. Gli Strumenti o Luoghi in cui si trova la Tradizione sono i Decreti dei Papi, dei Concili, gli scritti dei Padri ecclesiastici, dei Dottori scolastici e dei Teologi approvati. L’Organo che interpreta il vero significato della Rivelazione (Tradizione e Scrittura) è il Magistero vivente della Chiesa.
II - La “S. Scrittura” (il Nuovo Testamento)
Gli Apostoli e alcuni Discepoli (per esempio S. Luca), dopo la Tradizione orale, misero anche per iscritto (S. Scrittura), una certa parte di ciò che era stato rivelato loro da Cristo, assistiti infallibilmente da Dio (v. Inerranza e Ispirazione biblica[32]) a partire dal 42 circa col Vangelo secondo San Matteo sino al 96/98 circa coll’Apocalisse di San Giovanni ed infine col Vangelo secondo Giovanni ritenuto comunemente posteriore all’Apocalisse e composto attorno al 100 e che prima avevano insegnato essi stessi a viva voce (Tradizione divino/apostolica) ai loro Discepoli e fedeli.
La Tradizione divino/apostolica e la Scrittura sono le due fonti della divina Rivelazione come hanno definito il Concilio di Trento (DB, 738, 783) e il Concilio Vaticano I (DB, 1787)[33].
Dagli Apostoli Ai “Padri apostolici”
Gli Apostoli e i “Padri apostolici”
Dopo la morte di S. Giovanni (l’ultimo Apostolo), attorno al 110/117, i primissimi Discepoli diretti degli Apostoli, ossia i “Padri apostolici”[34] si sentirono ineguali di fronte a coloro che avrebbero dovuto sostituire (i Dodici Apostoli). Tuttavia anche i “Padri apostolici” hanno un’autorità di tutto rispetto nella Chiesa di Cristo. Essi, infatti, hanno appreso direttamente dalla bocca degli Apostoli la “Buona Novella”, ossia la dottrina evangelica o Nuovo Testamento e l’hanno trasmessa oralmente e per iscritto (ma senza “Ispirazione divina” come hanno invece fatto gli Autori dei Libri sacri della Bibbia) ai loro Discepoli: i primi Cristiani, Diaconi, Presbìteri e Vescovi (dal 50 circa[35] al 155 c.ca, quando alcuni Apostoli erano ancora vivi e non tutto il Nuovo Testamento era stato messo per iscritto: dal 42 al 100 c.ca).
Basti pensare che l’Evangelista San Luca (un medico pagano di Antiochia in Siria) non ha conosciuto direttamente Gesù, essendosi convertito dal Paganesimo dopo la morte di S. Stefano, che fu martirizzato circa 2/3 anni dopo la morte di Cristo. Perciò egli ha appreso la vita e la dottrina di Gesù dalla bocca dell’Apostolo San Paolo, durante la prigionia di quest’ultimo a Cesarea in Palestina (dal 58 al 60) e, “divinamente ispirato”, l’ha trascritta nel 60 circa (Vangelo secondo Luca) e dopo, nel 61/63 (Atti degli Apostoli), durante la prima “prigionia” di Paolo a Roma, ha scritto la prima “Storia della Chiesa” dalla Pentecoste sino al viaggio di S. Paolo a Roma e alla sua prigionia nell’Urbe (anno 61-63), narratagli dallo stesso Apostolo delle Genti (cfr. Atti degli Apostoli, XXVII, 1-9; XXVIII, 16-19; 30-31) sino alla vigilia della sua morte (anno 67). Quindi anche se lui non ha conosciuto direttamente Gesù, ma solo attraverso i suoi Apostoli, tuttavia ha scritto sotto “Ispirazione e Assistenza divina”, mentre i “Padri apostolici” non sono stati Ispirati e Assistiti divinamente nei loro scritti. Tuttavia il loro insegnamento dogmatico/morale, sia orale che scritto, se moralmente unanime è segno di dottrina infallibilmente vera e conforme alla Rivelazione divina.
Dai Padri apostolici ai Padri apologisti e ai Padri ecclesiastici
L’Epoca Patristica si suddivide in tre periodi:
1°) durante il I Secolo (dal 50 al 155 circa), abbiamo i “Padri Apostolici”[36] (S. Clemente Romano †101 circa; S. Ignazio d’Antiochia †107 circa, Vescovo di Antiochia a partire dal 70; S. Policarpo di Smirne †155[37]; Pseudo-Barnaba † 130/140 circa; Erma † 140/150 circa[38]; la “Didachè” o la “Dottrina degli Apostoli” composta probabilmente tra il 50 e il 150[39]; Papìa di Geràpoli † post 130; la “Lettera a Diognèto” scritta verso il 150), essi furono soprattutto degli “espositori” della dottrina del Cristianesimo, che conobbero personalmente gli Apostoli e ne “condensarono gli insegnamenti, sulle verità dommatico/morali Rivelate, in formule concrete, con stile semplicemente espositivo” (P. Parente, Dizionario di Teologia Dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, “Schema di Storia della Teologia Dommatica”, p. XIX; ristampa, Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2019).
2°) Durante il II Secolo (grosso modo dalla fine del 100 alla fine del 200), vi sono i “Padri Apologisti”[40] (S. Giustino † 165; S. Ireneo da Smirne e Vescovo di Lione † 200; Tertulliano † 220, che è soltanto uno “Scrittore ecclesiastico” e non un “Padre”…), essi furono soprattutto dei “polemisti”, che confrontarono le formule dommatiche e morali – insegnate in maniera semplicemente espositiva dai “Padri apostolici” – con il Giudaismo postbiblico, la filosofia e la religione pagana e polemizzarono con esse.
3°) Infine, durante il III-V Secolo, abbiamo i grandi “Padri Ecclesiastici”, che elaborarono con metodo scientifico ed esposero filosoficamente – grazie alla metafisica greca/antica (soprattutto Platone/Aristotele) – le verità divinamente Rivelate e tramandate dai “Padri apostolici/apologisti”, approfondendo sempre più la conoscenza e migliorando costantemente l’esposizione delle verità di fede (“Fides quaerens intellectum et intellectus quaerens fidem”). L’era della “Grande o III Patristica” ebbe due centri principali: a) la Scuola Alessandrina[41], ad Alessandria d’Egitto, “ispirata al Neoplatonismo e quindi aperta al misticismo e al simbolismo” (P. Parente, cit., ivi); b) la Scuola Antiochena[42], in Antiochia di Siria “aderente al pensiero aristotelico e perciò amante della concretezza e del realismo anche in materia di fede” (P. Parente, ivi).
Da queste due Scuole “uscirono i grandi geni del pensiero ristiano ortodosso, ma anche i più famosi eterici. Gran parte della Teologia patristica, specialmente orientale, è connessa con le vicende di queste due Scuole” (P. Parente, ivi).
- a) La Scuola Alessandrina
La Scuola Alessandrina brilla per l’insegnamento e gli scritti di S. Clemente d’Alessandria † 211; Origene † 255; S. Atanasio † 373; S. Cirillo d’Alessandria † 444. Questi ultimi due combatterono vigorosamente contro le due grandi eresie cristologiche, di origine antiochena: l’Arianesimo (che negava la divinità di Cristo), combattuto da S. Atanasio e il Nestorianesimo (secondo in Gesù vi sarebbero due Soggetti: l’uomo e, separatamente, Dio. Dunque la Madonna non sarebbe “Madre di Dio”, ma solo madre dell’uomo Gesù), combattuto da S. Cirillo. Alla Scuola Alessandrina si ricollegano i tre grandi Padri Cappadoci: S. Basilio di Cesarea in Cappadocia (l’attuale Anatolia in Turchia occidentale) † 379; S. Gregorio di Nissa, nato il 335 a Cesarea di Cappadocia e morto a Nissa il 394; S. Gregorio di Nazianzio in Cappadocia † 390. Tuttavia dalla medesima Scuola Alessandrina ebbero origine le eresie cristologiche dell’Apollinarismo del IV secolo (in Gesù vi è sia l’uomo che Iddio, ma la natura umana di Cristo è composta solo dal corpo e dall’anima sensitiva, mentre è il Verbo divino che funge da anima razionale, la quale non è di per sé presente in Cristo), del Monofisismo o Eutichianesimo (risalenti al V-VI secolo, secondo esse in Cristo non vi sono due nature, divina e umana, ma una sola natura mista di umanità e divinità) e del Monotelismo (l’ultima grande eresia cristologica del VI-VII secolo, che pone in Cristo la sola ed unica Volontà divina, negando il Lui quella umana[43]).
- b) La Scuola Antiochena
Tra la fine del IV secolo e durante il V secolo, ad Antiochia in Siria, vi furono alcuni Scrittori e Padri ecclesiastici tra i quali ne spiccano quattro: Diodoro di Tarso † 394; Teodoro di Mopsuestia † 428; S. Giovanni Crisostomo † 407; Teodoreto di Ciro † 460.
Essa si oppose sia al Platonismo della Scuola Alessandrina sia all’Allegorismo esegetico. Dunque fu caratterizzata da un’Esegesi storica e non allegorica, intesa a ricercare il contenuto morale nel Libro Sacro; in Cristologia insisté molto sulla vera natura umana di Cristo, la quale senza diminuire quella divina ne fu anzi consacrata (“non minuit, sed ab Ea sacrata fuit”). Infine nell’opera della Redenzione insisté molto sulle buone opere e la libera cooperazione dell’uomo alla grazia di Dio.
L’eresia e la conseguente controversia nestoriana (errore cristologico del V secolo, secondo cui il Verbo divino e Cristo uomo sono due Soggetti sostanzialmente compiuti e separati, ma uniti solo accidentalmente e moralmente come il re e il suo Ambasciatore) portò alla morte la Scuola Antiochena, dopo la condanna di Teodoro di Mopsuestia e di Teodoreto di Ciro in quanto filo-nestoriani.
Diodoro di Tarso fu il primo esponente della Scuola di Antiochia. Nacque probabilmente ad Antiochia stessa, ma siccome fu condannato postumo per eresia tutte le sue opere vennero distrutte. Nel 378 fu consacrato Vescovo di Tarso (la città di S. Paolo) e come tale prese parte al Concilio di Costantinopoli (anno 381). Fu amico stretto di S. Giovanni Crisostomo. Morì attorno al 394. Nel 499 un Sinodo o Concilio particolare riunito a Costantinopoli lo condannò come nestoriano, in séguito alla denuncia fatta da S. Cirillo di Alessandria attorno al 430 delle sue teorie come cristologicamente nestoriane (in Cristo il Verbo divino e l’uomo Gesù sono due Persone separate e distinte, unite solo moralmente o accidentalmente). Fu così che le sue opere vennero bruciate quasi interamente. In realtà da quel che dicono gli studiosi di Patrologia, Diodoro accentuerebbe la distinzione tra Dio e uomo in Cristo, inaugurando la via che avrebbe portato a negare l’unità della Persona divina nel Verbo Incarnato, ma non sarebbe formalmente nestoriano. “Comunque lo stato frammentario della documentazione a riguardo impedisce di trarre conclusioni nette” (cfr. B. Mondin, Storia della Teologia, cit., p. 310; F. Righetti, La teoria esegetica veterotestamentaria di Diodoro di Tarso e di Teodoro di Mopsuestia, Roma, 1991).
Teodoro di Mopsuestia (nacque ad Antiochia nel 350 c.ca e morì a Mopsuestia nel 428). Fu il Vescovo di Mopsuestia in Cilicia (oggi in Turchia) a partire dal 392. Stimato all’inizio, purtroppo si lasciò coinvolgere dall’errore nestoriano e venne condannato post mortem nel 553. Infatti egli negava che Maria fosse la “Theotokòs” o la “Madre di Dio”, poiché riteneva che le due nature (umana e divina) di Cristo fossero talmente compiute da formare quasi due Persone, tendenza che fu esplicitata più tardi da Nestorio (381-451). Nestorio fu condannato nel 430 da papa Celestino e nel 431 nel Concilio di Efeso, ove fu destituito da Patriarca di Costantinopoli (428-431). Per quel che riguarda la questione della grazia soprannaturale Teodoro ebbe una posizione teologica che lo avvicinava al Pelagianesimo (eresia naturalista del V secolo, diffusa soprattutto in Occidente dal monaco bretone Pelagio verso il 400, combattuta da S. Agostino e condannata nel 416 e 418 dai papi Innocenzo I e Zosimo ed infine nel Concilio di Efeso nel 431 e nel II Concilio di Orange nel 529). Cfr. M. Simonetti, Profilo storico dell’esegesi patristica, Roma, 1981, p. 69.
Teodoreto di Ciro in Siria fu educato negli ambienti monastici siriani. Probabilmente fu discepolo di S. Giovanni Crisostomo e di Teodoro di Mopsuetia. Nel 423 fu nominato Vescovo di Ciro, una piccola città presso Antiochia, si mise sùbito all’opera per debellare il Marcionismo e l’Arianesimo. Purtroppo nel 430 si schierò a favore di Nestorio e contro S. Cirillo d’Alessandria. Inoltre nel 431 attaccò anche le decisioni del Concilio di Efeso, venendo così deposto nel 449 dalla sua sede episcopale che poi gli fu restituita dal Concilio di Calcedonia nel 451 poiché accettò di sottoscrivere una condanna di Nestorio pur non condividendola pienamente, ma venne nuovamente condannato dal V Concilio ecumenico di Costantinopoli nel 553. I suoi scritti sono andati perduti. Tuttavia S. Cirillo polemizzando con lui ci ha fatto pervenire una sintesi accurata del suo pensiero (cfr., B. Mondin, cit., p. 318).
Epifanio di Salamina pur non essendo di Antiochia condivise le posizioni della Scuola Antiochena: l’avversione per Origene e dell’eccessivo allegorismo biblico. Egli nacque tra il 310/315 in un piccolo villaggio della Palestina vicino a Eleuteropoli. Fu educato dai monaci egiziani. Nel 366 fu consacrato e nominato Vescovo di Costanza, l’antica Salamina, oggi Famagosta nell’isola di Cipro (a 65 km circa dalle coste della Turchia). Nel 403 a Costantinopoli partecipò alla deposizione di S. Giovanni Crisostomo ritenuto erroneamente origenista. Morì a Cipro nel 402. Ci ha lasciato un trattato di storia e confutazione delle eresie titolato Panarion. Esso è molto istruttivo per la conoscenza delle dottrine manichee, ariane, gnostiche, sabelliane, ma il suo stile eccessivamente polemico, aggressivo, battagliero spesso trascende nell’invettiva sgarbata e greve (B. Mondin, cit., p. 319; C. Riggi, Introduzione a Epifanio, L’Àncora della Fede, Roma, 1977, pp. 7-30).
S. Giovanni Crisostomo fu ordinato Sacerdote nel 386 e venne incaricato della predicazione in Antiochia. Successivamente venne consacrato Vescovo e nominato Patriarca di Costantinopoli nel 397 il 26 febbraio 398. Fu uno dei più grandi oratori ecclesiastici, ma sul piano speculativo non fu altrettanto eccellente. Tuttavia mantenne sempre un grande equilibrio nella correttezza del suo pensiero teologico. Cadde in disgrazia presso l’Imperatore di Costantinopoli, attaccato dagli Ariani, contrastato dai confratelli nell’Episcopato, venne esiliato da Costantinopoli e privato della sua sede episcopale. Nel 407 l’Imperatore lo fece deportare dall’Armenia al Caucaso, ma morì consunto dalla fatica a Comana a 58 anni. Le sue opere si possono dividere in Trattati e Omelie (G. Bosio – E. Dal Covolo – M. Maritano, Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli III e IV, Torino, 1993, pp. 394 ss.). I “Trattati” vertono soprattutto sulla vita ascetica. Il De Sacerdotio è l’opera ascetica più famosa del Crisostomo. Le “Omelie” sono di carattere “esegetico” e “liturgico”. Le “Omelie esegetiche” sono per lo più Commenti alla S. Scrittura, i più famosi sono quelli sul Vangelo di Matteo, gli Atti degli Apostoli e l’Epistola ai Romani. Le “Omelie liturgiche” riguardano le grandi solennità dell’Anno liturgico: Natale, Epifania, Venerdì Santo, Pasqua, Ascensione e Pentecoste.
Per temperamento e formazione intellettuale il Crisostomo era portato alle riflessioni d’indole ascetica, morale e spirituale più che alle speculazioni metafisiche o dogmatiche. Come tutti i Padri egli si sofferma sulle applicazioni pratiche ascetico/morali del Dogma più che sul lato razionale e teoretico della Rivelazione divina. Inoltre è molto attento a non allontanarsi dalla dottrina definita dalla Chiesa. Si basa, quindi, sui Concili di Nicea I (anno 325) e di Costantinopoli I (anno 381) per la Cristologia e il Dogma trinitario e non si allontana mai dal Magistero pontificio. Il Crisostomo difende, adora e illustra il Mistero rivelato, non specula teologicamente su di esso. Per esempio, sul Verbo Incarnato afferma l’unicità della Persona divina e le due nature (umana e divina) sussistenti in Essa. Afferma e sottolinea la perfetta umanità e la perfetta divinità di Gesù, senza ragionare sul mistero di due nature infinitamente distanti l’una dall’altra, che si ritrovano unite nella unica Persona del Verbo divino. Tuttavia nel campo della Teologia sacramentaria e di quella ascetica illustra il significato cristologico ed ecclesiologico dei Sacramenti e indica con precisione la scala gerarchica che occupano la vita attiva e quella contemplativa (Cfr. B. Mondin, cit., p. 314). Per quanto riguarda la polemica con il Giudaismo postbiblico sono famose le sue Homiliae contra Judaeos (tr. it., Verrua Savoia – Torino, CLS, 1996).
Conclusione
Con la Patristica il Cristianesimo si è dato una forma teologica completa. La Teologia dei Padri rappresenta il frutto del felice matrimonio tra la filosofia greca classica (Platone/Aristotele) e il messaggio del Nuovo Testamento. Infatti i Padri hanno gettato un ponte tra la Rivelazione evangelica e la retta ragione naturale elevata a metafisica da Platone e Aristotele, i quali misero a disposizione dei Padri 1°) le definizioni precise ed esatte di alcuni termini (per esempio: persona, natura e sostanza), di cui questi si servirono per esporre e difendere meglio la portata di alcuni concetti che si trovano nella Rivelazione divina (specialmente quanto ai Dogmi dell’Incarnazione del Verbo e della SS. Trinità…); 2°) le regole dell’arte di ben ragionare (la Logica aristotelica) che vennero impiegate dai Padri per il procedimento teologico, che partendo dalla Rivelazione mediante la filosofia e la Logica arriva a delle “conclusioni teologiche”.
Il procedimento del lavoro teologico si fa «raccogliendo le Verità rivelate – contenute nel Depositum Fidei o Dato Rivelato (Tradizione e Scrittura) in quanto oggetto di indagine e ricerca – lette alla luce del Magistero della Chiesa, il quale definisce e ci propone a credere queste medesime Verità» (Reginaldo Garrigou-Lagrange, La Sintesi tomistica, Brescia, Queriniana, 1953, p. 72). Infatti la Teologia è la scienza che mediante la ragione illuminata dalla Fede, fondandosi sulle due fonti della Rivelazione (Tradizione e S. Scrittura), sotto la direzione interpretativa del Magistero ecclesiastico, tratta di Dio e delle creature in rapporto a Dio. La ragione filosofica sviluppa tutta la fecondità della Rivelazione, giungendo a delle “conclusioni teologiche”[44].
I Padri ecclesiastici hanno fondato la scienza teologica basandosi sul “Dato rivelato” ossia la Rivelazione divina (contenuta nella Tradizione e nella S. Scrittura), custodita e interpretata dal Magistero vivente della Chiesa. L’oggetto della Teologia, fondata dai Padri e perfezionata dalla Scolastica, è Dio in sé e il mondo creato (specialmente l’uomo) in quanto dice rapporto a Dio. Il lavoro teologico iniziato dai Padri è consistito, dunque, nel ricavare delle “conclusioni teologiche” a partire dalla Rivelazione divina, mediante dei ragionamenti logico/filosofici illuminati dalla fede, esplicitando, irradiando e approfondendo il Dogma. Perciò i Padri hanno parlato di Dio e del creato in rapporto a Dio, ossia hanno fatto Teologia, mediante il lume della Rivelazione divina e della retta ragione naturale (filosofia). La Teologia, perciò, è una scienza soprannaturale, che comporta la Rivelazione fatta da Dio, la fede da parte dell’uomo e il lavorio filosofico da parte del teologo. La Teologia parte da princìpi che essa attinge dalla due fonti della Rivelazione (Tradizione e Scrittura), interpretate dal Magistero vivo della Chiesa, poi li analizza e li studia mediante la luce della retta ragione naturale (filosofia) e ne sviluppa (mediante la Logica) tutta la fecondità e virtualità in “conclusioni teologiche”[45].
Il grande merito dei Padri è stato quello di aver creato la scienza teologica, che sarà ultimata da S. Tommaso d’Aquino “oltre il quale c’è soltanto la Visione Beatifica”, come dicono comunemente i teologi.
I modernisti accusano i Padri di aver ellenizzato e tradito la purezza del Vangelo. Invece “la Teologia dei Padri è stata la più valida ancella del Magistero ecclesiastico nella difesa, nella salvaguardia e nello sviluppo omogeneo della Tradizione. Nell’epoca patristica c’è sempre stata la più feconda collaborazione tra Teologia e Magistero nel preservare, trasmettere e illustrare la verità divinamente Rivelata. I Concili ecumenici hanno raccolto i frutti del lavoro dei Padri, che rappresenta la fatica di quasi un millennio di ricerche, dibattiti, conquiste” (B. Mondin, Storia della Teologia, cit., p. 505).
Si pensi 1°) al Concilio di Nicea I (anno 325) sotto papa S. Silvestro I (314-335), che condannò l’Arianesimo e definì che il Verbo è vero Figlio di Dio, della stessa sostanza del Padre (“consustanziale/omousios”) e perciò veramente Dio; 2°) al Concilio di Costantinopoli I (anno 381) sotto papa S. Damaso I (366-384), che condannò i Macedoniani (che negavano la divinità dello Spirito Santo, ritenuto una creatura del Figlio) detti anche i Pneumatomachi (nemici dello Spirito [Santo]) e definì che lo Spirito Santo è veramente Dio come il Figlio e il Padre; 3°) al Concilio di Efeso (anno 431) sotto papa S. Celestino I (422-432), che condannò il Nestorianesimo e il Pelagianesimo e definì che Cristo, vero Dio e vero uomo, è una sola Persona, che l’Unione ipostatica tra divinità e umanità nella Persona del Verbo è sostanziale e non accidentale, è fisica e non solo morale; 4°) al Concilio di Calcedonia (anno 451) sotto papa S. Leone I detto Magno (440-461), che condannò l’Eutichianismo (Monofisismo radicale, che parla di una sola natura in Gesù, risultante da una mescolanza di divinità e umanità o di assorbimento della umanità nella divinità oppure di unione formale, come quella dell’anima col corpo, tra le due nature del Verbo) e il Monofisismo (in Cristo non ci sono due nature, ma una sola natura, mista di divinità e umanità) e definì che le due nature (umana e divina) in Cristo sono unite ipostaticamente o personalmente nella Persona del Verbo, ma non sono confuse né mutate o anche solo alterate; 5°) al Concilio di Costantinopoli II (anno 553) sotto papa Vigilio (537-555), che confermò le condanne delle eresie antitrinitarie e anti-cristologiche emanate dai Concili precedenti, ridefinì i Dogmi fondamentali sul Verbo Incarnato e sulla SS. Trinità. Inoltre condannò l’Origenismo e il filo-nestorianesimo di Teodoro di Mopsuestia e di Teodoreto di Ciro (v. sopra); infine 6°) al Concilio di Costantinopoli III (anno 680-681) sotto papa S. Agatone (678-681), che condannò il Monotelismo (l’ultima delle grandi eresie cristologiche del VI-VII secolo, che poneva in Cristo una sola volontà: quella divina) e definì che in Cristo ci sono due volontà (divina e umana) come ci sono due nature, pur essendo una sola la Persona, quella divina del Verbo. Inoltre S. Agatone nel 680 durante il primo anno del Concilio Costantinopolitano III condannò con anatema papa Onorio I (625-638), ma l’anno successivo papa S. Leone II (681-683), chiudendo il Concilio, precisò che Onorio aveva favorito o tollerato per imprudenza l’eresia monotelita e deplorò il caso, ma non anatemizzò più papa Onorio, che non aveva parlato di una sola volontà in senso fisico in Cristo, ma soltanto morale (DB, 262 ss. e 289 ss.). Perciò Onorio non venne più scomunicato come eretico dal Concilio Costantinopolitano III, approvato e chiuso da papa Leone II, ma venne solo ripreso per la sua imprudente tolleranza di un errore che favoriva il Monotelismo, ammettendo l’unità morale delle due volontà di Cristo, pur restando Onorio nel terreno ortodosso delle due volontà in Cristo (cfr. P. Parente, Dizionario di Teologia Dommatica, cit., p. 280, voce “Monotelismo”; ristampa, Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2019).
Nella seconda parte dell’articolo studieremo i “Padri apostolici” (I-II secolo) in maniera specifica e approfondita, poi sarà la volta dei “Padri apologisti” (IIII secolo) ed infine tratteremo solamente il tema della polemica antigiudaica portata avanti dai “Padri della Chiesa” dal IV all’VIII secolo, poiché ognuno di essi meriterebbe un libro a parte tanto vasta e profonda è stata la loro produzione teologica.
Fine Prima Parte
Continua
d. Curzio Nitoglia
[1] “Neu” in ebraico/germanico e in yddish significa “nuovo/a”; “Haus” sempre in ebraico/askenazita significa “casa”. Il cognome del padre gesuita è doppiamente talmudico e corrisponde al nostro “Casa/nuova” (cfr. Claude Mazrahi, Les secrets des noms de famille juifs, Parigi, Edition Agency Juive Presse, 2001, p. 123 e 183).
[2] Poiché solo la Chiesa docente ha l’ufficio d’insegnare ai Cristiani della Chiesa universale tramite il “Magistero pontificio” (il solo Papa), “conciliare” (Papa più Episcopato riuniti in Concilio) o “Ordinario Universale” (Papa e Vescovi sparsi nel mondo ciascuno nella sua Diocesi, ma sottomessi al Papa e associati pro tempore da lui a se stesso). Invece i Vescovi da soli possono insegnare (non infallibilmente) solo nelle loro rispettive Diocesi e non a tutti i Cristiani di tutta la Chiesa cattolica.
[3] Atti degli Apostoli, II, 14-36.
[4] Atti degli Apostoli, XV, 1-34.
[5] Invece il ruolo del Magistero è quello di interpretare correttamente il vero significato della Rivelazione divina, contenuta nella Tradizione e nella S. Scrittura, come è stato definito infallibilmente di fede divina e rivelata dal Concilio Vaticano I (sessione IV, cap. 4; DB, 1832).
[6] Cfr. Geoffrey Wigoder (diretto da), Dictionnaire Encyclopédique du Judaisme, Parigi, Cerf/Laffont, 1996, pp. 467-469, voce «Heschel, Abraham Joshua»; Id., pp. 494-495, voce “Isaac, Jules Marx”.
[7] Padre Neuhaus cita soprattutto Maritain e de Lubac (p. 419) e spiega che il Card. Bea “convocò un gruppo di teologi ed esegeti, che comprendeva un numero non piccolo di Ebrei ‘convertiti’ [le virgolette sono le mie] al Cattolicesimo, e i frutti di tale iniziativa si possono notare ancora oggi” (ivi). Naturalmente il padre gesuita sottintende che i frutti del Vaticano II non sono “raccapriccianti” come quelli prodotti dalla Chiesa a partire da Gesù sino a Pio XII, ma sono “piacevoli, soavi, amabili, splendidi, magnifici, incantevoli, meravigliosi, belli e buoni” (Pasquale Stoppelli diretto da, Dizionario dei Sinonimi e dei Contrari, Milano, Garzanti, 1991, p. 579, voce “Raccapricciante/contrario”).
[8] Cfr. F. Spadafora, La “Nuova Esegesi”, Sion (Svizzera), Ed. Amis de Saint François de Sales, 1996.
[9] H. de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, Milano, Jaca Book, 3° vol., 1996, p. 211.
[10] Esegesi medievale, ivi.
[16] Ib. , p. 229, nota 179.
[20] Questa preghiera è stata pubblicata, nel gennaio 1965, nell’American Commentary, Organo dell’American Jewish Commitee. Cfr. Giovanni Caprile, «Giovanni XXIII e una “preghiera per gli Ebrei”», in “Civiltà Cattolica”, 1983, n. II, pp. 565-569.
[21] Cfr. Julio Mieinvielle, Dalla Cabala al Progressismo, Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2019.
[22] Per fare un esempio, San Tommaso d’Aquino si chiede indagativamente e ipoteticamente “se Dio esista” (S. Th., I, q. 2, a. 1). Egli mette fittiziamente in dubbio l’esistenza di Dio per poi dimostrare che esiste realmente. Ora siccome l’esistenza di Dio non è per sé nota ed evidente, ma deve essere dimostrata a partire dai suoi effetti (creazione) risalendo alla Causa (Creatore), ci si può porre la domanda: “Dio esiste?”. Invece per quanto riguarda i primi princìpi per sé noti, siccome sono evidenti e si mostrano, ma non si dimostrano; non è lecito porli in forse neppure ipoteticamente o come metodo d’indagine. Non si può dire “se il sì sia eguale al no, se il bianco sia nero”, neppure come pura ipotesi, poiché ciò è evidentemente falso. Quindi la Teologia giudaizzante del Concilio Vaticano II riposa su una contraddizione nei termini, che equipara il Giudaismo postbiblico (negatore di Cristo) al Cristianesimo (cultore di Cristo), il sì al no, il bianco al nero, il cerchio al quadrato. Invece Gesù ci ha insegnato: “Il vostro parlare sia: sì sì no no, quello che è di più viene dal Maligno” (Mt., V, 37), mentre il modernismo insegna: “sì = no, no = sì; sì ≠ sì, no ≠ no”. Dunque esso “viene dal Maligno”.
[23] Nel periodo “conciliare” andava di moda parlare di “ritorno alle origini della Chiesa primitiva e pre-costantiniana”, tuttavia soprattutto la Dichiarazione del Concilio Vaticano II Nostra aetate (28. X. 1965) si allontana radicalmente dalla dottrina della Chiesa delle origini sul Giudaismo, come è espressa nella «Tradizione apostolica», ossia la dottrina insegnata da Gesù agli Apostoli e trasmessa da questi ai loro diretti Discepoli e successori: i “Padri apostolici”, i quali hanno polemizzato fortemente col Giudaismo talmudico, sostenendo la dottrina della “sostituzione” della Sinagoga da parte della Chiesa, negata invece, chiaramente ed esplicitamente, dalla Dichiarazione NA del Concilio Vaticano II, che – almeno in ciò – è in flagrante “rottura” con la “Tradizione apostolica”. Cfr. Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Frigento, Casa Mariana Editrice, 2009; Id., Concilio Vaticano II. Il discorso mancato, Torino, Lindau, 2011.
[24] La Lettera di Barnaba fu attribuita, erroneamente, da S. Clemente d’Alessandria († 212 c.ca) e da Origene († 254) all’Apostolo Barnaba, il compagno di S. Paolo († 67), che si separò dall’Apostolo delle Genti attorno al 54 quando Paolo, predicando nella Siria e nella Cilìcia (oggi Turchia del sud), non volle prendere con sé l’Evangelista Marco (non ritenendolo affidabile… anche tra grandi santi possono sorgere delle grandi incomprensioni) ed allora Barnaba andò con Marco da Antiochia a Cipro a circa 65 km dalle coste della Turchia (Atti degli Apostoli, XV, 35-39). Secondo gli studi patristici più recenti La Lettera di Barnaba fu composta probabilmente attorno al 96-98, certamente non oltre il 140. L’Epistola di Barnaba è caratterizzata da una forte vis polemica verso il Giudaismo. Essa fa parte della dottrina dei “Padri Apostolici”, che si chiude verso il 155 con il Martirio di S. Policarpo, arso vivo a 86 anni, Vescovo di Smirne e discepolo dell’Evangelista S. Giovanni. Cfr. B. Altaner, Patrologia, Casale Monferrato, Marietti, 1976, pp. 43-97; A. Fliche – V. Martin diretta da, Storia della Chiesa, Cinisello Balsamo, San Paolo, III ed., 1958, vol. I, La Chiesa primitiva, cap. X, G. Lebreton a cura di, I Padri apostolici e la loro epoca, pp. 399-471; M. Simonetti – E. Prinzivalli, Storia della Letteratura Cristiana Antica, Casale Monferrato, Piemme, 1999, pp. 30-39.
[25] Da S. Ignazio d’Antiochia († 107) sino a S. Agostino († 430) e S. Cirillo d’Alessandria († 444). Come si vede si tratta di oltre 300 anni d’insegnamento patristico di origine apostolica. L’Epistolario scritto da S. Ignazio, terzo Vescovo d’Antiochia – a partire dal 70, dopo S. Pietro e S. Evòdio, morto sotto Traiano come S. Giovanni l’Evangelista – è incluso nella collezione dei “Padri apostolici, un gruppo di scrittori che hanno avuto rapporti con gli Apostoli, i cui scritti hanno un valore straordinario, quali Documenti dello spirito della Chiesa primitiva e Testimoni più remoti della Tradizione apostolica. Essi sono il primo anello della catena di trasmissione del Messaggio evangelico dopo la scomparsa degli Apostoli, sono perciò i primi organi della Tradizione apostolica. Il loro obiettivo principale fu quello di trasmettere fedelmente l’insegnamento ricevuto dagli Apostoli” (A. Casamassa, I Padri Apostolici, Roma, 1938). Quest’insegnamento totalmente unanime e dunque infallibile di Padri, è stato contraddetto diametralmente 1°) dalla Dichiarazione pastorale Nostra aetate (1965), che non ha voluto definire e quindi essere assistita infallibilmente da Dio, come pure 2°) dai Documenti e pronunciamenti postconciliari – parimenti “pastorali”, che pur essi come il Vaticano II non vogliono definire – sino ai due libri del 2019 di Bergoglio e Ratzinger citati sopra. Perciò la neo/dottrina giudaizzante del Vaticano II può contenere degli errori, senza ledere la prerogativa dell’Infallibilità del Papa e della Chiesa, sia perché non ha voluto definire – per esplicita volontà di Giovanni XXIII e Paolo VI, come ha riconosciuto lo stesso Ratzinger: «Il Concilio Vaticano II si è imposto di non definire» (Card. J. Ratzinger, Discorso alla Conferenza Episcopale Cilena, Santiago del Cile, 13 luglio 1988) – sia perché contraddice la Tradizione divino/apostolica, il Magistero ordinario costante e tradizionale della Chiesa da S. Pietro (anno 49/50, Concilio di Gerusalemme) sino a Pio XI, Enciclica Mit brennender Sorge, 14 marzo 1937.
[26] Cfr. A. Quacquarelli, I Padri apostolici, Roma, 1976.
[27] U. Mannucci – A. Casamassa, Istituzioni di Patrologia, 2 voll., Roma, 1942.
[28] Nel 1033 nacque in Aosta S. Anselmo, che morì a Canterbury nel 1109. Egli apre l’epoca della prima Scolastica, della quale fu il primo Dottore della Chiesa, che avrà in S. Tommaso d’Aquino (1225-1274) il massimo rappresentante e il Dottore Comune o Ufficiale della Chiesa. Tuttavia per S. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) si fa un’eccezione ed egli viene annoverato tra i Padri della Chiesa (pur essendo fuori tempo massimo di circa 450 anni dall’VIII secolo, che normalmente segna la fine dell’era Patristica). Infatti S. Bernardo “per la fluidità del suo latino, permeato di idee e di frasi bibliche, per la tenerezza del suo amore, per la soavità del suo stile” può essere posto – dottrinalmente – tra gli Autori della Teologia positiva della Patristica piuttosto che - cronologicamente - tra quelli della Teologia speculativa della Scolastica” (A. Piolanti, Dizionario di Teologia Dommatica, Roma, Studium, IV ed., 1957, pp. 52-53, voce “Bernardo di Chiaravalle - Santo”; rist., Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2019).
[29] Cfr. M. Grabmann, Storia della Teologia cattolica, Milano, 1937; B. Mondin, Storia della Teologia, Bologna, ESD, 4 voll., 1996-1999; M. Simonetti, Profilo storico dell’esegesi patristica, Roma, 1981; Id., Cristianesimo antico e cultura greca, Roma, 1983; C. Tresmontant, La métaphysique du christianisme et la naissance de la philosophie chrétienne, Parigi, 1961.
[30] Cfr. R. Garrigou-Lagrange, Il senso comune, la filosofia dell’essere e le formule dogmatiche, 1909, tr. it., Roma, Edizioni Leonardo da Vinci, 2013 a cura di A. Livi; Francisco Marìn Sola, L’évolution homogène du dogme catholique, 2 voll., Friburgo-Parigi, 1924.
[31] M. Cano, De Locis Theologicis, lib. I, cap. 3.
[32] Cfr. F. Spadafora, Dizionario biblico, Roma, Studium, III ed., 1963, pp. 347-354, voce “Ispirazione”; Ch. Pesch, De Inspiratione Scripturae, Friburgo (Belgio), 1906 con il “Supplementum” del 1926; G. Perrella, Introduzione generale alla S. Bibbia, Torino, II ed., 1952, nn. 14-100; E. Florit, Ispirazione biblica, Roma, 1951; Id., Institutiones biblicae, I vol., Roma, VI ed., 1951, nn. 1-111.
[33] Cfr. P. Parente, Theologia Fundamentalis. De Revelatione, De Ecclesia et De Fontibus Revelationis, Roma-Torino, Marietti, 1943; G. Mazzella, De Ecclesia, Roma, 1892, n. 342 ss.; A. Tanquerey, De vera religione, de Ecclesia, de Fontibus Revelationis, ed. XIV, Roma, 1941; J. V. Bainvel, De vera religione et apologetica, Parigi, 1914; R. Garrigou-Lagrange, De Revelatione, 2 voll., Roma, 1914; A. Lang, Compendio di Apologetica, Proceno – Viterbo, Effedieffe, II ed., 2019.
[34] Cfr. l’edizione critica a cura di F. X. Funk, Patres Apostolici, Tubinga, 1901; l’ottima traduzione in italiano di G. Bosio, Gli scritti dei Padri apostolici, 3 voll., Torino, 1940-1945; l’interessante studio di A. Casamassa, I Padri apostolici, Roma, 1938.
[35] Secondo gli studiosi di Patrologia, Policarpo sarebbe nato tra il 55 e il 69 ed Erma avrebbe scritto il suo Trattato titolato “Il Pastore” tra il 50 e non oltre il 160. Cfr. U. Padovani (diretta da), Grande Antologia Filosofica, Milano, Marzorati, 1989, vol. III, La Patrologia pre-agostiniana, a cura di E. Rapisarda, p. 104 e 112.
[36] G. Bosio – E. Dal Covolo – M. Maritano, Introduzione ai Padri della Chiesa, Secoli I e II, Torino, I vol., 1980; Id., Introduzione ai Padri della Chiesa, Secoli II e III, Torino, 1991; Id., Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli III e IV, Torino, 1993.
[37] Secondo gli studiosi di Patrologia, Policarpo nacque verso il 55 o al massimo verso il 69; S. Ignazio d’Antiochia, che fu Vescovo a partire dal 70, sarebbe nato probabilmente anche prima del 50. Cfr. U. Padovani (diretta da), Grande Antologia Filosofica, Milano, Marzorati, 1989, vol. III, p. 112, La Patrologia pre-agostiniana, a cura di E. Rapisarda.
[38] Erma scrisse il Trattato “Il Pastore” sulla penitenza. Egli era fratello di papa S. Pio I (140-155) nato ad Aquileia presso Udine.
[39] Cfr. U. Padovani (diretta da), Grande Antologia Filosofica, cit., p. 104. Erma avrebbe scritto il suo Trattato “Il Pastore” tra il 50 e il 160.
[40] G. Bosio – E. Dal Covolo – M. Maritano, Introduzione ai Padri della Chiesa, Secoli II e III, Torino, 1991.
[41] P. Brezzi, La gnosi cristiana di Alessandria, Roma, 1950.
[42] Cfr. A. Di Berardino (diretto da), Dizionario patristico e di antichità cristiane, Casale Monferrato-Roma, Marietti-Augustinianum, 1983, vol. I, p. 241 ss., voce “Antiochia /Scuola”, a cura di M. Simonetti; Id., “Alessandria/Scuola”, p. 117 ss., a cura di M. Simonetti.
[43] Per lo studio della dottrina cattolica sul Verbo Incarnato e delle eresie cristologiche cfr. P. Parente, L’Io di Cristo, III ed., Rovigo, Istituto Padano di Arti Grafiche, 1981; ristampa Proceno – Viterbo, Effedieffe, 2019.
[44] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, S. Th., I, q. 1; G. M. Roschini, Introductio in Sacram Theologiam, Roma, 1947; P. Parente, Teologia, Roma, 1953; A. Gardeil, Le donne revélé et la théologie, Juvisy, 1932; A. Stolz, Introductio in sacram Theologiam, Friburgo, 1941.
[45] Cfr. A. Oddone, La luce della ragione nei problemi religiosi, Como, 1938; C. Krieg, Enciclopedia scientifica e Metodologia delle scienze teologiche, Roma, 1913.