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Anti-acidi ed altre avventure
23 Maggio 2011
Come i lettori più affezionati sanno, 16 giorni dopo la mia operazione per tumore polmonare ho subìto un infarto, rimediato nella unità coronarica dell’ospedale San Carlo di Milano: un rimedio temporaneo, mi annunciò il cardiochirurgo presente, perchè in realtà ho bisogno di un vero by-pass. Lo stesso cardiochirurgo mi aveva messo in lista per l’imponente operazione a Niguarda di lì a un mese. Salvo poi a cambiare idea: «Prima deve fare la chemio», ossia sei mesi di trattamento cardiotossico nefrotossico con Cisplatino e cortisone, radiazioni alla testa e tutto il protocollo.
Nel frattempo, al San Carlo mi dimettono con l’obbligo di assumere sette farmaci cardiologici, dai torvi nomi: Atorvastatina, Clopdigrel, Ramipril, Isosorbide Mononitrato, più il Cardirene (che è aspirina, antico e comprovato fluidificante del sangue) e l’esomeprazolo, che è l’anti-acido necessario per scongiurare ulcere gastriche da aspirina. La farmacia va presa in vari orari, mattina, sera, alle 13, il pomeriggio. E’ abbastanza per farti sentire un malato gravissimo che tiene ansiosamente in tasca la scatoletta delle pasticche, che raggiunge con mano tremante, spaventato se se ne dimentica una all’ora dovuta.
Questo è l’antefatto. Su indicazione di un amico, mi faccio visitare privatamente da un cardiologo (dottor Alivia) che non schifa certe cure naturali. Lui non trova l’operazione urgente (nemmeno il cardiochirurgo di prima, evidentemente: « Prima, sei mesi di Cisplatino»), e mi spiega che il by-pass coronarico comporta: cuore congelato per tre ore, circolazione extracorporea... «Dove è il paziente in quelle tre ore?». Buona domanda.
Ma inoltre, il dottore, di tutte le pasticche, me ne lascia due – Cardirene e l’anti-acido – e sostituisce tutte le altre con un farmaco galenico chiamato Strodival. Tre pillole al giorno. Ne ha un campione e me lo regala. Anche perchè lo Strodival non è vendibile in Italia; però medici tedeschi lo usano da 50 anni, e l’amico Jacuzzo me lo procura in Svizzera. (www.strophantus.de/r-j-petry.html)
Incuriosito, faccio una ricerca sul web. Indicazione generale dello Strodival: «Previene l’infarto del miocardio», il che non sembra poco. Esagerato? Trovo decine di medici americani e israeliani che l’hanno adottato e riportano casistiche positive. Sembra che il FDA l’abbia anche ammesso alla vendita in USA, molto recentemente.
Lo Strodival non è altro che un preparato a base di strofanto, una pianta africana un tempo molto usata per le malattie di cuore, congiunta o no con la digitalina (un’altra essenza, non priva di effetti collaterali): il più grave difetto del preparato è di non essere brevettabile, dunque di non interessare BigPharma, che preferisce i suoi farmaci brevettati (l’ultimo grido nel campo sono le statine, come la mia Torva-Statina, che «riduce il colesterolo», effettivamente a zero). E’ stata messa in giro la voce che lo Strodival e la strofantina in genere è inutile perchè «non viene assorbita». I medici germanici, strano, non sembrano essersene accorti.
Il colesterolo che si addensa sulle pareti delle arterie coronariche è ritenuto comunemente la causa delle occlusioni di dette arterie, e quindi di infarti, angine, ischemie e tutto il corteggio della Nera Visitatrice.
Uno dei medici che dagli USA ha postato un suo articolo sullo Strodival, Thomas Cowan, fornisce qualche dato interessante. Negli Stati Uniti, l’infarto mortale « era raro negli anni ‘30», dove se ne registravano 3 mila casi, poi saliti a 250 mila negli anni ‘50, ed oggi a circa un milione di americani che muoiono ogni anno per cause circolatorie. Le statistiche italiane non sono diverse: prima causa di morte, è il tributo di sacrificio umano che tutti accettiamo di pagare alla Industria Alimentare. (What Causes Heart Attacks)
La teoria corrente, che risale agli anni ‘50, attribuisce la malattia al colesterolo che si addensa in placche nelle arterie che alimentano il cuore, facendo mancare al muscolo l’ossigeno necessario, fino a provocarne la necrosi parziale. E’ una teoria elegante che nessuno, dice Cowan, ha mai messo in discussione. Tutta la farmacologia corrente e avanzata punta a ridurre il colesterolo o almeno a impedire che le placche già presenti liberino dei grumi che le occludano completamente.
Tutti, tranne un cardiologo brasiliano, Quintiliano H. de Mesquita, famoso a quanto pare nel suo Paese, che aveva raccolto dati abbastanza strani dai suoi 29 anni di esperienza clinica. Il dottore era da poco defunto, ma l’attenzione di un suo figlio e collaboratore fu attratta da un articolo che il dottor Cowan aveva postato nel suo blog, dove segnalava di aver constatato l’efficacia di basse dosi di estratto di digitale nel trattamento di alcuni tumori. Mesquita jr. si mise in contatto con Cowan, per dirgli che suo padre – che trattava i pazienti cardiologici con digitale e strofanto somministrato per anni – aveva notato accidentalmente un drastico calo dell’incidenza del cancro in questi pazienti. Cowan non aveva mai sentito parlare dell’uso di digitalina e strofanto per cardiopatie (!); i brasiliani, non avevano mai sentito parlare dell’uso della digitale come anticancro.
Come mai questi risultati? De Mesquita sr. aveva elaborato una sua teoria, che chiamava « teoria miogenica dell’infarto», che sembra smentire la teoria del colesterolo come causa. Già negli anni ‘40, scoprì Cowan, la teoria del colesterolo incontrò molte obiezioni fra i cardiologi, che avevano opposto il seguente argomento: le coronarie non sono le sole arterie a presentare accumuli e placche di colesterolo. Come mai il cuore è l’unico apparato a soffrire del ridotto afflusso di sangue? Come mai non avvengono infarti del rene e della milza, benchè anche le arterie che alimentano questi organi siano spesso in cattivo stato?
L’obiezione fu ripetuta molti anni dopo, nel 1998, sullo American Journal of Cardiology, 1998; 82:839-44, da un ricercatore di nome Murakami. Egli aveva appurato che sì, il 49% dei colpiti da infarto acuto avevano effettivamente arterie ostruite; ma restava da spiegare il restante 30% di infartuati che non aveva ostruzione alcuna, e il 14% il cui restringimento delle arterie non bastava a giustificare l’infarto.
Spulciando le riviste specializzate, Cowan trovava altri dubbiosi. Nel 1988, un dottor Epstein, del National Institutes of Health, aveva asserito, sempre sullo American Journal of Cardiology 1988 aprile 1;61(10):866-8, che «quando il restringimento delle arterie cardiache è molto avanzato, la fornitura del sangue al cuore è pienamente assicurata da arteriuzze collaterali che si allargano come naturale risposta all’ostruzione» (il dottor Alivio mi ha detto la stessa cosa). Infine, due studi condotti indipendentemente su centinaia di pazienti dalla Veterans Administration e dalla Coronary Artery Surgery del National Institute of Health, erano giunti alla conclusione che il by-pass coronarico non aveva significativamente migliorato le chances di sopravvivenza dei pazienti che avevano subito l’operazione, benchè i loro cuori fossero ormai ben irrorati. (Killip T. New England Journal of Medicine 1988 Aug 11;319(6):366-8).
Come può accadere? De Mesquita senior aveva ipotizzato quanto segue: fattori di stress come fumo, diabete, deficienze nutrizionali abituali rendono i nostri cuori moderni cronicamente mal ossigenati, perchè peggiorano lo stato dei capillari che s’ingrossano naturalmente onde sostituire le arterie occluse grosse. Un picco di stress, e il cuore torna al metodo primordiale di generazione di energia, la fermentazione anaerobica. E ciò che avviene quando corriamo troppo o troppo a lungo, poco esercitati: nei muscoli delle gambe si forma acido lattico, l’acido della fatica, che è causa del ben noto dolore muscolare dell’affaticamento.
Il guaio è che, al contrario delle gambe, non possiamo lasciar riposare il cuore; sicchè l’acido lattico vi si accumula, fino a provocare, se non curato, la morte delle cellule cardiche, il processo necrotico che costituisce l’infarto.
Secondo De Mesquita, i vecchi e poco costosi cardiotonici del tempo che fu (strofanto e digitale) agiscono appunto riducendo l’acido lattico nel miocardio, essenzialmente modulando il ritmo e la forza della contrazione cardiaca in modo da farla « riposare» un po’. I due vegetali contengono principii attivi detti «glicosidi» (digitossina la digitale, ouabain lo strofanto) che – come si è scoperto recentemente – sono copie esatte di due ormoni prodotti dalle ghiandole surrenali per proteggere il cuore. Il che conferma il detto della medicina cinese, apparentemente assurdo, «le reni nutrono il cuore», e mina alquanto le terapie anti-colesterolo più alla moda. Fra l’altro, ironia della sorte, le surrenali producono gli ormoni glicosidi dal... colesterolo. Sicchè le celebrate statine brevettate, magari, azzerando il colesterolo, ci privano della materia prima necessaria per produrre i cardiotonici naturali. Chissà.
Il dottor Cowan consiglia di prendersi cura, piuttosto, delle surrenali: ridurre o eliminare il caffè, il fumo, fuggire i grassi idrogenati (margarina, che è in tutti i prodotti da forno industriali), evitare di far scendere il livello di zucchero nel sangue oltre un certo limite, perchè ciò obbliga le surrenali a un superlavoro, come l’eccesso di zuccheri ematici obbliga al superlavoro il pancreas. E assumere vitamina A e vitamina D in quantità superiori a quelle oggi accettate.
Come si può intuire, mi piacerebbe sapere di più sul presunto effetto anticancro dello Strodival che mi è stato prescritto come cardiotonico. Da quel che si vede, lo strofanto e la digitale sarebbero, per così dire, « gli antiacidi del cuore»; il che richiama immediatamente il dottor Simoncini, che pretende di curare il cancro col bicarbonato (e per questo è stato radiato dall’Ordine).
O anche l’ipotesi del dottor Stefano Fais, che è tutt’altro che un Simoncini: è direttore, presso l’Istituto Superiore di Sanità, del Reparto Farmaci Antitumorali, dunque uno coi titoli accademici e burocratici a posto. Non si sale in carriera all’Istituto Superiore di Sanità predicando medicine selvagge. E infatti il dottor Fais ha dovuto recentemente diramare un comunicato in cui smentisce di aver mai detto che «il bicarbonato curerà il cancro».
E ha ragione. Fais sostiene l’efficacia degli « inibitori della pompa protonica», ossia degli anti-acidi di tipo nuovo e sofisticato (il primo, mi pare, si chiamava il Tagamet) che riducono l’acido cloridico nello stomaco, e vengono usati come anti-ulcera. Il razionale è che le cellule tumorali vivono in ambiente acido, e producono attorno a sè acidità; sicchè favorendo attorno ad esse un ambiente alcalino, se ne riduce o rallenta lo sviluppo o le si obliga ad autodigerirsi (immagino che si alluda al fenomeno dell’apoptosi). Almeno così diceva Fais in un articolo apparso su Repubblica. Dove aggiungeva più o meno: “non sono ancora riuscito a trovare un ospedale o un istituto disposto a fare una sperimentazione clinica con soli anti-acidi, in sostituzione della chemio”.
Tale difficoltà da parte di un direttore dell’Istituto Superiore di Sanità la dice forse lunga: Veronesi non vuole? Pensate del resto se si confermasse che gli inibitori della pompa protonica (anti-acidi) bastano a tenere sotto controllo i tumori, meglio, con meno spesa e con meno effetti collaterali del Cisplatino o delle « mostarde azotate» ed altri agenti alchilanti, vescicanti e citotossici che passano per terapia anticancro protocollare; intere cattedre di oncologia sparirebbero, professori di chiara fama sarebbero oscurati, stipendi ed altri emolumenti non sarebbero più pagati... Certo la categoria degli oncologi non vede la novità di buon occhio, e – come l’astronomo tolemaico deriso da Galileo – preferiscono non metter l’occhio nel telescopio offerto dal dottor Fais MD Ph D.
Fatto sta che scrivo una mail al dottor Fais al suo indirizzo dell’Istituto Superiore: dottore, se ha bisogno di un volontario conti su di me. Fais MD PhD mi risponde con gentilezza e cautela: conferma che la terapia da lui suggerita « è teoricamente efficace in tutti i tipi di tumore indipendentemente dallo stadio, ma sinceramente non abbiamo avuto la possibilità di testarla a largo spettro». Poi aggiunge: «Ricevo lettere come la sua ormai da qualche tempo», ma non posso aiutarla. Tutto ciò che prometto a chi mi scrive, è il mio impegno – se il paziente mi mette in contatto col suo oncologo – a «discutere con gli oncologi la possibile integrazione di una terapia a base di PPI (inibitori della pompa protonica) con quella già programmata», cioè i chemioterapici.
Gentile e cauto. La cautela ha una probabile spiegazione in una rivelazione che ricevo dalla fidanzata di un mio cugino, che fa l’anestesista in un noto ospedale pubblico di Genova. Il cugino le ha fatto leggere il mio precedente testo contro la chemioterapia, chiedendole se, secondo lei, ero un pazzo a rifiutarla. Lei risponde che non s’è mai occupata a fondo del problema, esulando dalla sua specialità. Ma s’è ricordata di aver firmato, al momento di sottoscrivere il contratto con l’ospedale, anche una clausola in cui si impegnava, sotto pena di licenziamento, a non consigliare mai altre cure diverse dal protocollo chemio terapico.
L’oncologia chemioterapica, evidentemente, si difende, con divieti legali, ad esplorare altre possibilità. La cosa mi ricorda, non so perchè, il divieto – sancito da leggi penali – di indagare sul numero di 6 milioni del genocidio famoso.
La coincidenza di divieti mi sembra significativa.
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