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La creazione della Bibbia
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«Non esiste tra noi una quantità di libri in disaccordo e contraddizione», scriveva Giuseppe Flavio a proposito delle Scritture ebraiche, «ma ventidue solamente, che contengono gli annali di tutti i tempi (...) I fatti mostrano con quale rispetto noi ci accostiamo ai nostri propri libri. Dopo tanti secoli, nessuno s’è permesso alcuna aggiunta, alcun taglio, alcun cambiamento. E’ naturale a tutti i giudei, dalla nascita, pensare che sono la volontà divina, rispettarli, e al bisogno morire per essi con gioia» (1).

Quando scriveva questa asserzione verso il 95 dopo Cristo, l’ebreo Giuseppe Flavio (che viveva a Roma da anni, protetto dagli imperatori Flavii, Vespasiano e poi Tito, dunque lontano da Gerusalemme) poteva crederci in buona fede. Lo Stato ebraico era caduto, il Tempio, in cenere, non esisteva più, il Sacrificio era divenuto impossibile. Di tutte le istituzioni dell’ebraismo non ne restava che una: la Scrittura, la Torah, la «Legge».

I farisei, cui Giuseppe apparteneva, avevano già decisamente cominciato a tramutare la fede ebraica da religione del Tempio a religione del Libro: e perciò a fissare, e canonizzare, il testo. Un’opera lunga, che cominciata nel primo, finirà solo nel X secolo dopo Cristo, quando i sapienti ebrei completeranno il testo detto «masoretico» con l’aggiunta a posteriori delle vocali alla Scrittura, prima consistente solo in consonanti; ciò che significava anche fissarne il significato. Ma non è sempre stato così, anzi.

Dallo studio dei rotoli del Mar Morto, la scoperta più sconcertante (e la meno reclamizzata) non riguarda presunte ascendenze culturali di Gesù dagli Esseni, nè rivelazioni sulla formazione del Nuovo Testamento, ma proprio la imbarazzante «pluralità» dell’Antico Testamento. Di ciò che gli ebrei chiamavano la Legge, esistevano nella biblioteca di Qumram una molteplicità di versioni, apparentemente in coesistenza pacifica. 

Testi ebraici, testi greci dei Settanta, testi samaritani; copiati e ricopiati, ogni nuova copia con aggiunte, tagli, adattamenti, riduzioni e traduzioni. E’ stata una vera e sconcertante rivoluzione scientifica. E’ stata  smentita la convinzione che all’origine dell’ebraismo ci fosse «un» testo unico. E’ finita in soffitta tutta una filologia con cui generazioni di studiosi, supponendo l’esistenza di un «testo originale» unico, si davano a cercare di «stabilirlo» in base alla critica testuale.

Ovviamente, si dava per scontato che l’ipotetico originale fosse più o meno simile alla Bibbia masoretica; la quale invece è «posteriore» a tutte, posteriore soprattutto alla nascita del cristianesimo; gli scritti masoretici, come oggi si ammette, furono recuperati dai farisei proprio per distanziare le loro scritture ebraiche dalla bibbia detta dei Settanta, elaborata ad Alessandria tre secoli prima da una commissione di sapienti giudei (i settanta), e adottata anche dai cristiani.

Il dogma «scientifico» è stato liquidato dai rotoli di Qumram. Nelle giare conservate in quelle antiche caverne, convivevano una molteplicità di modelli di «Scrittura» diversi, alcuni riferiti a precise «famiglie» religiose o ideologiche, altri (il 25%) sfuggenti ad ogni classificazione. Ma tutti in qualche modo accettati come «veri».

Un esempio chiarirà il problema che si pone agli studiosi, che è il problema stesso di come gli antichi ebrei «trasmettevano» e «rispettavano» la Scrittura (2).

Ecco il Deuteronomio 32, 43 nel testo masoretico: «Acclamate il suo popolo o nazioni, perchè egli vendica il sangue dei suoi servi. Egli rivolge la vendetta contro i suoi avversari e fa espiazione per la terra del suo popolo».

Ecco lo stesso passo nella Bibbia tradotta in greco, secondo la tradizione, dai settanta saggi ebrei: «Rallegratevi, cieli, con lui, e si prosternino tutti i figli di Dio. Rallegratevi o nazioni, con il suo popolo, e che gli diano forza tutti gli angeli di Dio; perchè il sangue dei figli è vendicato; ed egli vendicherà e darà il castigo ai nemici, e a coloro che odiano darà il dovuto, e il signore purificherà la terra del suo popolo».

La differenza tra i due testi è più che evidente, incredibile. Non solo il testo greco è più lungo e ricco, ma ciò che descrive è radicalmente trasposto. Nel testo masoretico la scena si svolge per così dire sulla terra, ed ha un significato politico e nazionale o nazionalista ebraico. Nel testo greco, la scena avviene in cielo; gli attori sono gli angeli («figli di Dio»), si tratta di una liturgia alla gloria di Dio nella sua maestà.

Se ne può trarre la facile conclusione che il testo greco dei Settanta è una amplificazione e persino un fraintendimento, volontario o no, ma in ogni caso abusivo, dell’asciutto testo masoretico. Che dunque è facile immaginare più fedele all’originale, alla «verità» della Scrittura. Ebbene: sarebbe una conclusione errata.

Nelle caverne di Qumram sono stati trovati trenta manoscritti del libro del Deuteronomio. Uno di questi, il 4 Q deut^q, recita così: «Acclamate, cieli, il suo popolo e prosternatevi davanti a lui, voi tutti gli dei, perchè vendicherà i suoi figli, trarrà vendetta contro i nemici, renderà il dovuto a coloro che lo odiano e purificherà  la terra del suo popolo».

Questo testo esprime in modo essenziale la versione greca dei Settanta. La quale dunque non riporta un ampliamento abusivo, ma evidentemente si rifà ad un originale, o meglio ad una lettura, coesistente (forse anche più antica) con i testi masoretici, e ritenuta compatibile dagli stessi ebrei (e fanatici, come gli esseni) del secondo-terzo secolo avanti Cristo, visto che essi hanno conservato questa versione nella loro biblioteca anzichè censurarla.

Questi asceti del Mar Morto sapevano ben censurare ciò che per noi è il «Testo Sacro», per adattare la parola di Dio alla loro ideologia esclusivista e xenofoba: nelle loro versioni scritturali, hanno cancellato il racconto della dispersione delle nazioni dopo l’episodio della torre di Babele; manca la lista delle mogli arabe di Abramo, e naturalmente tutta la storia di Ismaele (il figlio che Abramo ebbe dalla schiava Agar, capostipite degli arabi) e la sua discendenza. Ovviamente vi è taciuto l’episodio dell’incestuosa Tamar, così imbarazzante per Giuda. In alcune versioni essene, Giacobbe non si riconcilia con Esaù - capostipite dei «popoli» gentili - ma lo uccide.

In generale, tutte le allusioni a popoli stranieri sono state espunte; tutto ciò che nella Bibbia quale la conosciamo giustifica l’apertura a ciò che non è strettamente nazionale, è stato accuratamente epurato. E tuttavia, questi stessi esseni, fanatici esclusivisti, conservano testi di una Torah specifica dei samaritani, anch’essa adattata alla bisogna della «famiglia» ideologica, (Dio vi prescrive agli israeliti di elevare un altare sul monte Garizim), ossia di eretici per l’ebraismo.

Esempi di contaminazione e di rimaneggiamento sono numerosi: sussistono vestigia notevoli di una Legge di Mosè dove nel testo di uno dei cinque libri della Torah sono inseriti passi tratti dagli altri, al punto che gli studiosi parlano di un «Reworked Pentateuch», un Pentateuco rielaborato.

Si sono scoperti testi non compresi nella Bibbia, ma significativi, come il IV Libro di Esdra, con il racconto - del tutto immaginario - della ricomposizione miracolosa della Torah, andata perduta: che l’Altissimo avrebbe ri-dettato ad Esdra in 40 giorni.

Insomma, per secoli il testo appare essere stato trasmesso senza alcuno scrupolo «scientifico» e senza alcun «rispetto» per la parola del Signore, almeno nel senso in cui oggi lo intendiamo. Ma questa era la mentalità antica. La  filologia come scienza le era estranea, e quanto al rispetto, ogni copista si faceva spontaneamente interprete, commentatore e traduttore del testo che ricopiava con venerazione. Le preoccupazioni politiche e gli intenti propagandistici del momento storico, ovviamente presenti nell’animo dei copisti, entravano nel rimaneggiamento continuo.

Con ciò, non s’intende dir nulla contro la Scrittura. Si fa solo notare che quella iper-critica che si adopera ostinata contro i Vangeli, e si sforza di farli passare come «elaborazione della prima comunità cristiana» anonima e più o meno soggetta a fantasie (la Resurrezione, ad esempio...) non si applica contro la Bibbia: questa sì «elaborazione di una comunità» collettiva, durata secoli, testo per eccellenza «aperto», a lungo convivente e influenzato da Scritture concorrenti fino alla sua canonizzazione: che avvenne, per gli ebrei, in modo definitivo «dopo Cristo» e «contro i cristiani».

Ma per tre secoli, anche gli ebrei usarono e lessero le loro Scritture in greco; abbandonandolo solo perchè lo stesso testo era stato adottato dai cristiani. Soprattutto gli ebrei della ricca diaspora, che formavano ad Alessandria una comunità sediziosa e potente, avevano la loro Bibbia in greco. E infatti, fu ad Alessandria, sotto il regno di Tolomeo Filadelfo (285-246 avanti Cristo) che proprio questa comunità decise di trasferire la Bibbia nella lingua straniera (3). Perchè?

Non dovette essere una decisione presa a cuor leggero, se già (ma è dubbio) si andava formando la credenza che l’ebraico-aramaico fosse la «lingua di Dio», la lingua sacra (3). Non basta a spiegare la decisione il fatto che, forse, gli ebrei di Alessandria non capivano i testi ebraici, la cui lettura era resa più difficile dalla mancanza di vocali e segni ritmici.

Il motivo vero e cruciale fu un altro. E lo illustreremo nella prossima puntata.




1) Contra Apionem I, 38-42. Giuseppe Flavio, nato Yoseph ben Matthyia verso il 37 dopo Cristo, di famiglia farisaica, trascorse da giovane tre anni nel deserto, al seguito di un eremita di nome Banno, probabilmente esseno. Nel 63-64, entrato nella vita pubblica, fu inviato a Roma a perorare presso Nerone la liberazione dei sacerdoti ebraici che il governatore Felice aveva arrestato e mandato a Roma per esservi processati. Qui, si appoggiò alla lobby influente che circondava Poppea; dalla imperatrice giudaizzante ottenne infatti la liberazione dei sacerdoti. Tornato a Gerusalemme nel 66,
trovò il suo popolo in rivolta contro Roma, e cercò in vano di ricondulo a miti consigli. Nella guerra nazionale, gli fu assegnata la difesa della Galilea e specialmente della città fortificata di Gamala.
Ben convinto dell’invincibilità di Roma, Giuseppe si arrese al generale Vespasiano dopo 47 giorni.
A suo dire, avrebbe profetizzato a Vespasiano l’impero; fatto sta che da allora visse al seguito del generale e poi di suo figlio, Tito, adottando anche il nome della gens Flavia.
2) André Paul,»Et l’homme créa la Bible», Bayard, 2000, pagine 304-310.
3) Basti pensare che per i musulmani, ad esempio, una traduzione del Corano in altra lingua non ha valore sacrale nè liturgico. La lingua deve essere l’arabo, la lingua di Dio.


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