>> Login Sostenitori :              | 
header-1

RSS 2.0
menu-1
TUTTI |0-9 |A |B |C |D |E |F |G |H |I |J |K |L |M |N |O |P |Q |R |S |T |U |V |W |X |Y |Z

Archivio Articoli FREE

greco.jpg
Perchè la Bibbia è greca
Stampa
  Text size
Perchè dunque gli ebrei di Alessandria decisero di tradurre la Bibbia in greco, in qualche modo canonizzandone e fissandone i contenuti fra una pluralità di testi precedenti, che gli ebrei hanno lasciato convivere nelle loro numerose varianti? Per capirlo, bisogna riportarsi al contesto storico in cui ebbe luogo questo evento di importanza rivoluzionaria.

Il contesto è quello dell’impero creato in pochi anni prodigiosi da Alessandro Magno. Dall’Egitto a Babilonia alla Persia, i successori di Alessandro, suoi generali, avevano stabilito regni dove il greco era la lingua ufficiale e stava diventando quella comune, per la forza stessa dell’egemonia che esercitava la cultura greca.

E’ difficile oggi immaginare la potenza e il prestigio di questa cultura; ma ai popoli conquistati o almeno alle loro classi dirigenti, i cui figli imparavano a leggere su Omero, la cosa era fin troppo dolorosamente  chiara.

I greci avevano inventato la cultura stessa, come ancor oggi la intendiamo, nelle sue varie forme. Con Omero, la poesia epica; della poesia lirica, avevano creato i modi e (con Saffo, Alceo, Archiloco) raggiunto d’impeto vertici mai pareggiati. La filosofia, con Platone e la sua scuola, aveva posto già tutti i problemi e i temi del pensare, che durano ancor oggi; Aristotile - istitutore di Alessandro - aveva esaurito le scienze della natura (ta fysikà) e sistemato il regno invisibile dell’oltre-natura (metà ta fysikà, la metafisica). Stoici ed epicurei, neoplatonici e aristotelici si dividevano l’influenza sul «senso comune» dell’epoca. Non è nemmeno il caso di parlare del teatro tragico, assoluta invenzione ellenica, nè della scultura, vertice dell’arte senza tempo (1).

E inoltre, con Erodoto, i greci avevano inventato la storia come genere letterario e come metodo, dall’esposizione del territorio (geografia) agli usi dei popoli stranieri (etnografia), fino alla «leggi» di tali popoli, le istituzioni, il tutto - per la prima volta - sulla base di ricerche su archivi e documenti, di cui Erodoto inaugurò la lettura critica. Il tutto, attraverso una lingua di infinita duttilità e di vivacità ed eleganza impareggiabile, e con una curiosità inesauribile.

E’ ovvio - anche se oggi non ci si pensa - che una tale superiorità (che gli elleni non avranno mancato di far pesare come sapevano loro; dopotutto, non a caso chiamavano gli stranieri «barbari», balbuzienti) suscitasse una reazione nei popoli di antica cultura assoggettati dai regni ellenistici.

Il nazionalismo greco, così profondamente universale nella cultura al punto da essere «la» cultura stessa, inevitabilmente suscitò nelle classi colte dell’Egitto, di Persia e di Babilonia, eredi di antichi imperi culturali di altissimo prestigio, la volontà di rivendicare il valore e l’originalità delle culture proprie.

Si assiste in quegli anni ad uno curioso risveglio letterario delle nazionalità sottomesse, stimolate dall’egemonia greca. In quegli anni un sacerdote egizio di nome Manetone, vissuto sotto i regni dei «re» ellenisti d’Egitto Tolomeo I Soter e Tolomeo II Filadelfo (dal 324 al 246 avanti Cristo), scrive una «storia dell’Egitto». Il colto Manetone, come sacerdote, ha accesso agli immensi archivi dei templi egizi, e può compilare una storia delle dinastie faraoniche, dalla prima alla trentesima, e poi fino alla conquista di Alessandro.

Ma il suo scopo evidente è di glorificare il suo Paese, mostrando come la cultura egizia sia più antica di quella greca, e cercando di sostenere che tutti gli eroi venerati dagli elleni, per esempio Danao, sono di origine egizia.

Alcuni anni prima un coltissimo caldeo di nome Beroso, sacerdote di Marduk, scriba e astrologo di grande rinomanza, aveva scritto una simile storia della civiltà babilonese. Anche lui aveva accesso agli antichissimi archivi della civiltà di cui rivendica l’eccellenza. Beroso infatti comincia la sua «storia» dipingendo l’umanità primordiale, allo stato animalesco, sulla scorta di testi sumeri del terzo e secondo millennio avanti Cristo; racconta la Creazione e il Diluvio, sulla base di poemi come l’Enuma Elish; infine elenca la lista dei re assiri, neo-babilonesi e persiani, basandosi su «Cronache babilonesi» risalenti probabilmente al 539 avanti Cristo.

Beroso - a cui dobbiamo informazioni per noi oggi inestimabili - non ebbe la fortuna che conobbero gli scritti di Manetone nel mondo ellenico: lo citano tuttavia Giuseppe Flavio e il cristiano Eusebio di Cesarea. Anche la sua storiografia rivendica la superiorità assoluta della cultura assira e babilonese; ma  Beroso lo fa inventando un argomento rivoluzionario e geniale.

Sostiene che la civiltà della sua patria, Babilonia, è superiore alle altre perchè ha ricevuto una rivelazione divina, antichissima e primordiale, da cui i greci, ed anche gli indiani, sono esclusi: dunque la civiltà babilonese è in qualche modo l’unica «vera» (gli ebrei useranno, come sappiamo, lo stesso argomento), e la cultura dei greci e dell’India non sono che riflessi pallidi di quella babilonese.

Ma ora, ecco il fatto straordinario: in quale lingua l’egiziano Manetone e il babilonese Beroso  esaltano la storia superiore dei loro Paesi? In greco.

Beroso addirittura dedica la sua opera, Babiloniaka, ad Antioco I, governatore ellenistico di Siria nel 293 avanti Cristo , poi diventato re nel 281. Come si vede, l’egemonia culturale non è acqua. Se vogliono rivendicare la superiorità delle loro culture nazionali, l’egizio e il babilonese lo devono fare rivolgendosi a lettori greci, alla greca curiosità per le culture altre; devono usare il metodo «storico» inaugurato da Erodoto; devono cercare argomenti e storie e prodigi che interessino i greci.

Quei greci che l’impero alessandrino aveva aperto all’ascolto di culture supremamente «altre»: non va dimenticato che poco prima un greco purosangue, di nome Megastene, aveva espresso la sua ammirazione per la cultura dell’India, di cui aveva proclamato l’eccellenza (in greco) nei suoi quattro libri intitolati «Indika», «cose dell’India».

In questo fermento di nazionalismi letterari, suscitati dalla cultura ellenistica, si comincia a capire la volontà degli ebrei di Alessandria di scrivere la Bibbia in greco.

Civiltà antichissima, quella egizia? La nostra di più. Divinamente rivelata, quella babilonese? Noi di più, di più. Insuperabile la filosofia greca di Platone, il teatro di Eschilo, la storiografia di Erodoto? Ma tutto questo è nella Bibbia, e prima di tutti i greci!

In quegli anni, nella diaspora, compaiono strani personaggi. Come Ezechiele il Tragico, detto così perchè scrive nel secondo secolo avanti Cristo, in greco - un po’ nello stile di Euripide, un po’ copiando da Sofocle - una tragedia che ha come protagonista Mosè e come intreccio l’Esodo dall’Egitto: e la chiama Exagoghè, appunto «Esodo».

Pochi decenni prima un altro giudeo abitante in Egitto, Artapano, scrive una storia degli ebrei («Perì Ioudaion», in greco) in cui sostiene le seguenti tesi: Abramo ha insegnato l’astronomia al Faraone; Mosè è il vero padre della cultura egizia, anzi anche di quella greca: fu infatti il maestro di Orfeo. Colui che gli egizi venerano come Thot, e i greci come Hermes, non è altri che Mosè; è lui infatti l’inventore della scrittura e anche della filosofia.

Pochi decenni dopo, verso il 180, un ebreo di Alessandria che si picca di filosofia, Aristobulo, scrive quanto segue: «Si vede bene che Platone ha seguito la nostra Legge (nomothesia, ovviamente in greco), anzi che l’ha scrutata nei minimi dettagli. In effetti (le nostre Scritture) sono state tradotte da altri, prima di Demetrio di Falero, dunque prima della conquista di Alessandro (...) sicchè è chiaro che il filosofo in questione ne ha preso molto, proprio come Pitagora traspose molti dei nostri dogmi nella sua dottrina». Insomma, Platone e Pitagora ci hanno copiato.

Fatto sta che anche questo popolo che si teneva separato, che sprezzava di mescolarsi con i goym e ancor più la loro cultura, si sente obbligato a presentare la «sua» storia, per esaltarne la superiorità e l’antichità, ai vasti popoli unificati dall’ellenismo; e ovviamente, in greco.

Uno scritto di propaganda ebraica, la «Lettera di Aristeo», racconta a suo modo come si giunse alla traduzione delle Scritture. L’autore è un ebreo del tardo II secolo, ma che finge di essere un alto ufficiale di Tolomeo Filadelfo (285-246), vissuto quasi un secolo prima, e quindi contemporaneo della opera di traduzione.

Secondo il sedicente «Aristeo», il re Tolomeo, desideroso di porre le Scritture ebraiche nella sontuosa biblioteca di Alessandria, scrive al gran sacerdote di Gerusalemme, Eleazaro, per averne aiuto. Costui, benignamente, si degna di mandare al sovrano ellenistico 72 sapienti fra i più sapienti giudei. Eleazaro, nel salutare i sapienti in partenza, pronuncia un forte discorso sulla Legge: per la prima volta nella storia, la presenta come «oracolo» divino (in greco naturalmente: logia). Quanto a Mosè, lo dice «legislatore» (nomothetes) «dotato da Dio di scienza universale».

Molto indicativo e istruttivo il tipo di esaltazione che Eleazaro fa della Scrittura: essa, dice, «ci ha circondato di una recinzione senza breccia, e di muraglie di ferro, per evitare la minima promiscuità con gli altri popoli».

Appena arrivano ad Alessandria con gli antichi rotoli in pergamena, pieni di caratteri ebraici, il re in persona (Tolomeo Filadelfo, figurarsi) li accoglie e venera i rotoli. Il re greco si prosterna sette volte davanti alla Torah e dice: «Grazie a voi, amici miei, e più ancora grazie a chi vi ha inviato, e sopra a tutti al Dio di cui siete gli oracoli».

Dopo di che, Tolomeo invita ai 72  alla propria tavola; ve li trattiene sette giorni, pressandoli di domande su quei Libri. La conversazione settimanale è ricalcata sui dialoghi filosofici greci, dove il re domanda e i sapienti rispondono. Infine i 72 savii di Sion si mettono a tradurre la Legge in greco; lo fanno simultaneamente e ciascuno per suo conto: ma - miracolo - le loro 72 traduzioni risultano identiche.

Questa storia è completamente inventata (2). Ma ha lo scopo di trasmettere un messaggio ben preciso: da una parte, l’iniziativa della traduzione è partita dalla massima autorità politica, Tolomeo, dipinto come un proselita; dall’altra e soprattutto, questa traduzione è autorizzata e benedetta dalla massima autorità religiosa di Gerusalemme, e la sua veridicità è confermata dallla miracolosa coincidenza dei 72 savii nell’opera.

Non si tratta dunque di «una» traduzione qualunque, della trasposizione dalla  lingua sacra a una profana e straniera: quella in greco è «la» Scrittura e «la» Legge, con tutta la sua forza originaria di «oracolo» e parola divina. Gli ebrei della diaspora possono e devono venerarla, senza scrupolo, come «la» Legge.

Ovviamente, in realtà, la traduzione dovette essere opera di una commissione, probabilmente finanziata dalla comunità giudaica di Alessandria, che voleva avere la «sua» storia nazionale da  opporre a quella greca, come Manetone l’aveva data agli egizi e Beroso ai caldei (3).

Come era inevitabile nel mondo antico, la traduzione fu - nel quadro di una fedeltà sorprendente alll’essenziale - una reinterpretazione, quasi una ri-creazione. Si dovettero attenuare i caratteri eccessivamente etnicisti di YHWH (un Dio di una sola tribù nomade sarebbe stato oggetto di derisione nel mondo ellenistico, che tendeva a un sincretismo raffinato e unificante), mettere un poco tra parentesi l’aspetto rozzamente concreto e politico della «speranza» giudaica (la riconquista di una  terra promessa specifica); per contro, si dovettero accentuare gli aspetti universali del messaggio, la spiritualità  del «riscatto» atteso.

Si sottolinearono gli aspetti collegati all’attesa di un Messia redentore; senza rinunciare al minuzioso formalismo prescrittivo, si diede ampio spazio ai caratteri di «profezia», al concetto di storia come marcia e attesa verso una liberazione che era santificazione. L’universalismo ellenistico non esigeva di meno.

Tutto ciò fu un fatto provvidenziale. Provvidenziale che a scrivere questo Antico Testamento gravido di attesa messianica fossero gli ebrei, due secoli prima di Cristo; talchè l’ebraismo non potè negarne i punti che vi «profetizzavano» e prefiguravano il Cristo, quando li additarono i cristiani a conferma della loro fede.

Tutto ciò che poterono fare, allora, fu abbandonare la Bibbia dei Settanta - il testo sacro che ormai avevano in comune coi cristiani, fastidiosamente - e recuperare i testi ebraici, masoretici. Quelli che oggi un certo alto clero giudaizzante considera  l’«originale», il testo più originale della Bibbia greca, e invece furono collezionati dal secondo secolo dopo Cristo, e finiti di elaborare nel secolo X.

Se questo ritorno al giudaismo sia o no una negazione della Provvidenza, Altri giudicherà.




1) Questa magnifica egemonia dilagherà fin nell’India allora buddhista, dove darà origine alla splendida arte del Gandhara, e alle statue del Buddha come giovinetto ellenico. In quell’India sarà prodotto anche il «Dialogo di Menandro» (in pali «Milinda Panha»), dove il greco Menandro, alla fine di un dialogo socratico con un monaco buddhista, si converte alla verità del Risvegliato.
2) Si consideri come la «Lettera di Aristeo» possa presentare una tale invenzione come «fatto storico». Eppure la traduzione dei Settanta era un fatto avvenuto meno di un secolo prima. Ma ciò è possibile quando manchino archivi degli eventi passati, nonchè studiosi interessati a stabilire la verità documentandosi in quegli archivi. Allora tutto lo strumento disponibile alla «storia» si riduce alla «memoria d’uomo»; e un secolo è uno spazio abbastanza grande per interrompere la memoria d’uomo, e riempirla dunque con «narrative» propagandistiche o ideologiche. Di qui si può intuire la novità rivoluzionaria e la grandezza intellettuale di Erodoto. Questo greco del V secolo racconta le guerre mediche, avvenute una generazione prima della sua, e dunque ancora accessibili a «memoria d’uomo»; ma inoltre viaggia in Oriente e raccoglie informazioni sulla storia passata dei Paesi visitati, facendosi tradurre documenti e archivi, o ascoltando racconti di qualificati esponenti locali  (sacerdoti egizi, ad esempio). L’ardimento di Erodoto è tale che Tucidide, decenni dopo, rigetta il suo metodo. Per Tucidide, uno storico serio deve raccontare il presente, gli eventi contemporanei di cui è stato testimone diretto, avvenuti nella nazione di cui conosce la lingua e i costumi.
3) Un problema a parte: Beroso aveva accesso ai millenari archivi cuneiformi risalenti ai Sumeri; Manetone leggeva gli archivi ideografici egizi, dunque avevano a disposizione documenti atti a informare su periodi storici antichissimi. Ammesso che le memorie giudaiche fossero conservate in archivi, questi non potevano essere che nel Tempio di Gerusalemme, e non potevano risalire a prima del 515 avanti Cristo, quando il Tempio fu costruito (o ricostruito, secondo gli ebrei) dalla comunità tornata, su mandato di Ciro, dall’esilio babilonese. Tuttavia, l’Antico Testamento racconta eventi accaduti presuntivamente dal secondo millennio avanti Cristo, del tutto irraggiungibili «a memoria d’uomo». In questi eventi, si riconoscono mitografie del più vasto ambiente semitico, oltre che un’epopea nazionale trasmessa oralmente di generazione in generazione, coltovata dalla «comunità dell’esilio» tornata ai tempi di Ciro nella «terra promessa». Ma in questa tradizione orale si intravvedono i motivi propagandistico-ideologici: per esempio la figura di Davide, presentato come unificatore del suo piccolo regno (di Giuda) con Israele propriamente detto, le sviluppate tribù del nord. Non pare che questa unificazione sia mai avvenuta in realtà; è certo però che fu una aspirazione politica nata nella classe dirigente giudaica al tempo di re Giosia (640-609 avanti Cristo), quando la decadenza assira (Ninive cade nel 612) rese «disponibili», ossia prive di guarnigione assira, le terre che erano state di «Israele», delle mitiche «dieci tribù perdute».


Home  >  Ebraismo                                                                                           Back to top


La casa editrice EFFEDIEFFE ed il direttore Maurizio Blondet, proprietari
dei contenuti del giornale on-line, diffidano dal riportare su altri siti, blog,
forum, o in qualsiasi altra forma (cartacea, audio, etc.) e attraverso attività di spamming e mailing i suddetti contenuti, in ciò affidandosi alle leggi che tutelano il copyright ed i diritti d’autore. Con l’accesso al giornale on-line riservato ai soli abbonati ogni abuso in questo senso, prima tollerato, sarà perseguito legalmente. Invitiamo inoltre i detentori,a togliere dai rispettivi archivi i nostri articoli.

 
Nessun commento per questo articolo

Aggiungi commento


Libreria Ritorno al Reale

EFFEDIEFFESHOP.com
La libreria on-line di EFFEDIEFFE: una selezione di oltre 1300 testi, molti introvabili, in linea con lo spirito editoriale che ci contraddistingue.

Servizi online EFFEDIEFFE.com

Archivio EFFEDIEFFE : Cerca nell'archivio
EFFEDIEFFE tutti i nostri articoli dal
2004 in poi.

Lettere alla redazione : Scrivi a
EFFEDIEFFE.com

Iscriviti alla Newsletter : Resta
aggiornato con gli eventi e le novita'
editorali EFFEDIEFFE

Chi Siamo : Per conoscere la nostra missione, la fede e gli ideali che animano il nostro lavoro.



Redazione : Conoscete tutti i collaboratori EFFEDIEFFE.com

Contatta EFFEDIEFFE : Come
raggiungerci e come contattarci
per telefono e email.

RSS : Rimani aggiornato con i nostri Web feeds

effedieffe Il sito www.effedieffe.com.non è un "prodotto editoriale diffuso al pubblico con periodicità regolare e contraddistinto da una testata", come richiede la legge numero 62 del 7 marzo 2001. Gli aggiornamenti vengono effettuati senza alcuna scadenza fissa e/o periodicità