Qualcosa di ottimista, finalmente
10 Ottobre 2008
Ho sentito in diretta la relazione di Tremonti sulla crisi. Come ormai tutti saprete, nelle pieghe del decreto Alitalia avevano messo un codicillo che dava l’immunità-impunità ai responsabili dei crack finanziari (Tanzi, Geronzi, Cragnotti). Tremonti, con la sua vocetta gelida, ha detto: «O va via l’emendamento, o va via questo ministro».
Ecco perchè comincio ad essere ottimista. Intendiamoci, fra qualche mese, come pensionato, sarò probabilmente ridotto a frugare nei bidoni. Ma intravedo il bello delle crisi gravi, delle serie tragiche difficoltà: che fanno emergere chi ha carattere, chi merita di comandare.
In altri momenti, Berlusconi e tutto il suo partitazzo di yes-men e furbetti si sarebbe liberato di Tremonti in un attimo: meglio Geronzi, meglio Tanzi. E’ già accaduto nel 2004, ricordate? Fini (il kippà) intimò a Berlusconi di far fuori Tremonti, per non ricordo quali futili motivi di «politica», e Berlusconi lo licenziò (che tempra, questo Berlusca).
Stavolta no: «O va via l’emendamento, o vado via io». Ma in questa tempesta, chi ci mettono, gli «alleati» di Berlusca, a tenere il timone dell’economia? La Russa? Calderoli? Fini stesso, il sub? C’è da sudare freddo.
Ci sono banche enormi che pendono sull’abisso. Tragica riduzione del credito, disoccupazione in arrivo, collasso sistemico dell’economia mondiale; decisioni da prendere, che saranno dure. E chi, nel panorama «politico», si prende queste responsabilità? Chi è abituato a decidere, a «comandare» cioè nel vero senso della parola?
Tutta la «politica» di questi anni, fateci caso, è stata solo una fuga dalle responsabilità. L’ideologia del «mercato» e la moda delle privatizzazioni hanno dato la scusa per questa enorme inadempienza.
Le ferrovie non funzionano? Non è più compito dello Stato, ora sono private. I bottegai furbi alzano i prezzi in modo scandaloso? Non riguarda lo Stato, ma la famosa legge «della domanda e dell’offerta». Del resto, «non abbiamo gli strumenti», perchè lo Stato si è rimpicciolito, ha lasciato spazio al «mercato».
Le aziende municipali sono «private», se l’acqua rincara il biglietto dell’autobus pure, rivolgetevi a loro, le società per azioni. Non vorrete mica che i politici si occupino della gestione di aziende, che pensino minuziosamente ai mille problemi dei cittadini; i cittadini sono diventati «il pubblico» (come per la TV), al massimo «i consumatori».
Che scarico di pensieri per i politici. Che pacchia. Quanto tempo libero ben pagato per raccomandare veline, per tramare «alleanze» e sistemare «amici». Nessuna preoccupazione, tutto divertimento.
Il premier al Bagaglino, quel certo deputato in albergo con due puttane e la sua dose di coca, gli altri a turno da Bruno Vespa o in qualunque talk-show. La politica come spettacolo, come ornamento superfluo della vita, come clientelismo irresponsabile, con il Paese - in tutto e per tutto - letteralmente «abbandonato a se stesso»: chi ce la fa la sfanghi, chi no, crepi. Il tutto sulla strada del rimbarbarimento.
Adesso che non ci sono più prebende e favori da distribuire, ma solo grane da assumersi e da prendere decisioni pericolose per la carriera, su temi difficili e quasi incomprensibili come il «deleverage» e il «credit crunch» per non parlare del bisogno di sapere cosa sono i «credit default swap», nessuno ambisce più al posto di Tremonti.
Fateci caso, anche allora il kippà Fini non disse: «O via Tremonti, o via io». Di andar via lui, nemmeno l’ipotesi; la frase fu evitata per evitare ogni rischio anche minimo: non fosse mai che Berlusca accettasse. Invece Tremonti ha offerto la sua testa. E’ una sfida, una novità.
E mi piace che abbia messo in gioco la sua poltrona per un motivo morale: mentre tanti dovranno soffrire e patire nella nazione, non è ammissibile che qualche raccomandato potente si faccia fare una leggina occulta per scampare dalle pene che merita ampiamente.
Il segnale da dare è: siamo sulla stessa barca, non ci sono scialuppe per svignarsela dal Titanic allungando una mancia.
«L’emendamento non è nella logica di questo governo», ha detto la vocetta gelida di quell’antipatico primo della classe.
Oh sì, invece lo era: la logica del governo Berlusconi. Quello che salva Alitalia e i suoi fancazzisti di lusso coi soldi nostri, quello che compra 15 aerei di Stato per viaggiare comodo; quello di un premier che si vanta di scopare tre ore ogni notte. Quello che fa gli annunci ottimisti nella sua sede propria, il Bagaglino.
Difatti, a inserire il codicillo salva-Geronzi e salva-Tanzi, sono stati due senatori del Pdl (tale Cicolani e tale Paravia), che noi elettori non abbiamo mai scelto; due uomini di Berlusconi, due yes-men dello scopatore da avanspettacolo.
Dunque, a rigore, se Tremonti dice «l’emendamento non è nella logica di questo Governo», non sta parlando del governo di Berlusconi. Non più. Non c’è più il governo Mediaset con le veline e i ricchi premi per domande facili.
C’è un altro governo di fatto: quello di uno che si prende le responsabilità ed ha qualche idea su come affrontare la tempesta.
Cose del genere possono succedere solo nel pericolo reale, nelle crisi tragiche. Come in battaglia: la truppa deve obbedire al tenente di fresca nomina, uscito dall’accademia, e invece obbedisce d’istinto al caporale veterano, provato in altre guerre. La difficoltà seleziona, talvolta, il comandante naturale.
Sono ottimista, bisogna essere ottimisti: magari, il guadagno di questa crisi tremenda sarà una nuova serietà? Finalmente, un occuparsi del governare le cose abbandonate a se stesse da tanti anni, le strade coi buchi, le scuole che sfornano analfabeti semi-criminali, le bollette furbescamente rincarate senza motivo, i treni con le cimici per pendolari?
Magari no, ma bisogna sperare. Non spero che Tremonti salvi dalla crisi, nessuno ce la farà; spero in un ritorno alla vecchia «dottrina dello Stato»: chi è al governo deve essere responsabile della comunità, pronto a pagare, magari competente.
Magari m’illudo. Ma per confronto, guardate Cofferati: il sinistro che a 60 anni si ritira dalla «politica» perchè ha trovato il grande amore, con cui ha fatto un bambino. E siccome lei - il grande amore - sta a Genova, lui non può fare avanti e indietro da Bologna, deve educare il suo bambino. E tutti a «rispettare la sua scelta», persino ad applaudirla commossi.
La verità evidente è un’altra: che Cofferati, come tutta la sinistra, non ha un progetto da proporre al Paese. Non hanno un’immagine del futuro a cui valga la pena di sacrificare la più piccola cosa, nemmeno obbligare la sposina a trasferirsi da Genova a Bologna (capirai, mica è il Mozambico). Non c’è più ideologia, non più un programma collettivo a cui dedicare una briciola dei propri comodi. E allora, senza un progetto comune, qualunque sacrificio personale sembra troppo.
C’è la ricca pensione di sindacalista-parlamentare-deputato europeo, un bel pacco di milioni sicuri ogni mese. Cofferati ha ragione, in fondo: come la sinistra, «non ha più niente da fare» e niente da dire. E allora, fa bene ad andarsene, in fondo è onesto.
Dovrebbe farlo anche D’Alema, non ha lo yacht? e Veltroni, non s’è comprato l’appartamento con vista su Central Park? Sono stati pagati abbastanza, favoriscano all’uscita, non rompano le balle mentre qui si combatte, i proiettili fischiano e la gente muore (di fame).
Vale anche per Fini, perennemente abbronzato: è atteso alle Maldive per l’immersione. E vale per Berlusconi; speriamo che rimanga al Bagaglino, in fondo è il posto che gli piace di più. E’ la sua misura.
Quanto all’economia globale, richiede altre tempre, altri caratteri. Qualunque provvedimento delle Banche Centrali, che due mesi fa sarebbe stato salutato da trionfali rialzi di Wall Street, viene accolto da un aumento del panico dei cosidetti «mercati». La FED ha pompato alle banche già un trilione di dollari, ma le banche continuano a non prestare nemmeno un centesimo.
Adesso si dice che le banche USA accumulino quei soldi in attesa dei pagamenti che dovranno fare (l’11 ottobre, dicono) sui derivati del credito lasciati in aria dalla fallita Lehman Brothers: forse 400 miliardi di dollari, forse mille (un trilione), nessuno lo sa, e questo accresce la «volatilità», l’ansia e il panico.
Lehman era una capintesta come «controparte» del mercato senza regole dei Credit Default Swaps (63 trilioni), le supposte «assicurazioni» contro i fallimenti. Fallita la Lehman, queste assicurazioni sono diventate prive di valore, e devono essere rinnovate con una nuova controparte - se si troverà - ad un premio molto maggiore.
Ma la tragedia americana sta cominciando a stingere, in confronto a quel che accade in Europa. Secondo il Fondo Monetario, le 15 maggiori banche europee avranno bisogno di 700 miliardi di dollari per «rinnovare» (rifinanziare) i loro debiti entro fine anno. Come faranno?
Già ora, le grandissime banche, le «solidissime» tedesche, emettono obbligazioni per raccogliere denaro, con un tasso disperato: 9% (chiaramente, il taglio di mezzo punto dei tassi primari non serve a nulla).
In USA, la JP Morgan ha perso ancora il 40% in cinque giorni; eppure il suo rapporto fra capitale proprio e «attivi» (debiti) è sopra il 6%. Deutsche Bank è sotto il 2%. Le «assicurazioni» contro il suo fallimento (i famosi credit default swap) sono salite da 80 a 133 punti base - segno che il fallimento viene ritenuto sempre più probabile dalla speculazione - eppure il vice-governatore della Bundesbank sostiene che «La Germania è immune fino ad oggi dalla paura della restrizione del credito».
Secondo molti, i dirigenti tedeschi sono matti, non capiscono la situazione in cui si trovano; la capiscono meno di Tremonti
(1).
Secondo un’altra ipotesi
(2), i capi tedeschi temono che Goldman Sachs approfitti del disastro e del panico per comprare tutte le le banche tedesche a prezzo di liquidazione: ipotesi cui personalmente non credo, anche Goldman è nei guai stavolta. Secondo ogni apparenza, è il loro capitalismo - terminale, americano - che vedono crollare, e nessuno degli strumenti classici sembra in grado di risollevarlo.
Come nel ’29 fu il fallimento di una banchetta austriaca a innescare la Grande Crisi, oggi è un paesetto: l’Islanda. Le sue banche devono sborsare 11 miliardi di euro da qui al 2009. Ciò significa che ognuno dei 320 mila abitanti dell’Islanda, lattanti compresi, ha un debito di 200 mila euro. Per lo più con investitori stranieri: viva la globalizazione, viva i benefici del capitalismo senza confini!
«Si può accettare», scrive Paul Jorion, «che una nazione sia costretta alla miseria per rimborsare un debito privato? I crediti infami dovrebbero essere puramente e semplicemente annullati quando la situazione si sarà chiarita»
(3). E’ quel che avverrà, uno Stato - se resta sovrano - non può mettere alla fame i suoi cittadini per pagare i debiti delle sue banche. Eppure i 61 miliardi di debiti complessivi dell’Islanda (ammesso che siano irrecuperabili totalmente) sono solo il 10% di quel che le banche hanno perduto nelle ultime settimane. Aspettate che crolli Deustche Bank, e vediamo se la Germania onorerà il debito.
Tutti i crediti vengono feriti a morte, l’uno dopo l’altro: l’immobiliare, il credito immobiliare alle imprese, il credito al consumo, le carte di credito, le auto a rate, i leveraged buy-out...
Soprattutto, occhio al mercato delle «commercial paper», con cui le aziende si procurarno crediti trimestrali o anche a più breve, per la tesoreria. Queste linee di credito sono chiuse, paralizzate; aziende sanissime possono fallire.
La FED ha deciso di prestare direttamente alle aziende. A poco a poco, da prestatore d’ultima istanza, la Banca Centrale diventa il solo e unico sostegno di un sistema ormai morto, che non funziona più.
«Ma questo mercato alternativo, una volta installato, diventa impossibile da fermare. L’urgente e il provvisorio diventa permanente». Una specia di socialismo pro-capitale, assurdo, senza dottrina, senza motivazione razionale altro che la necessità urgente. E tutto a carico, alla fine, dei contribuenti.
A questo punto, non sono solo le banche nè i loro attivi tossici a finire nel nulla, scrive Jorion: «sono le monete stesse che rischiano oggi di essere compromesse dalle somme gigantesche mobilitate dagli Stati... è il valore delle divise che viene intaccato dal costo altissimo della disintossicazione dal grande baccanale».
Il che significa: inutile tenere gli euro anche sotto il materasso, li potete trovare polvere. Avete risparmiato mille euro? Magari, domani, potete compraci un uovo.
Ringraziamo il capitalismo terminale, il modo che ci dissero «più efficiente» per allocare i capitali. Quel capitalismo che se li fa allocare dallo Stato, i capitali, perchè i capitali suoi li ha perduti.
Ma ringraziamo anche gli Stati dell’irresponsabilità, che hanno presieduto al baccanale, all’orgia: quanti miliardi hanno negato ai poveri, quanti alla costruzione di infrastrutture moderne, quanti ai salari dei veri lavoratori, perchè «il bilancio non lo consente», perchè «bisogna restare competitivi» (per i loro emolumeni non mancavano mai).
Ora sbattono via fiumi di miliardi per banche che se li tengono tutti, fino all’ultimo, senza alcun beneficio per le collettività, le società, le nazioni.
Non stupisce che Berlusconi lasci il suo ex-governo a Tremonti, e costui sia pronto a lasciare il suo posto a chi lo vuole.
La Russa? Fini? Bossi? Fatevi avanti, c’è da pilotare nella tempesta.
Non siete disposti? Allora lasciate fare a chi sa; voi sparite, burattini costosi, nel cesso della storia.
E’ il motivo per cui, nonostante tutto
(4), sono ottimista.
1) Ambrose Evans-Pritchard, « Extreme leverage haunts Europe’s banks as rollover crunch looms», Telegraph, 10 ottobre 2009. Anche qui un riconoscimento a Tremonti: «To the surprise of many, Italy has so far emerged from this crisis in better shape than Germany. It is a moment for them to savour after years of suffering lectures from Berlin».
2) E’ la tesi di William Engdahl, «Behind the panic: financial warfare and the future of global bank power», GlobalResearch, 9 ottobre 2008.
3) Paul Jorion, «Radar 9 octobre: quand la peur s’installe», Contre Infor, 10 ottobre 2008. Sullo stesso tono anche Roubini, «The world is at sever risk of global systemic financial meltdown and a severe global recession», RGE Monitor, 9 ottobre 2008.
4) Un lettore ci segnala questo lancio di Wall Street Italia, «succederà qualcosa durante il week-end»: «Riprendiamo una voce che circola con insistenza nelle sale trading delle banche d'affari di Manhattan, avvertendo che non e' possibile verificarne l'attendibilita' ma che non darne conoscenza a chi opera - come i nostri abbonati - sui mercati finanziari, sarebbe piu' grave rispetto all'alternativa, e cioe' omettere del tutto la notizia. Il rumor sul mercato americano, definito "chatter" (come la CIA definisce le conversazioni tra terroristi intercettate dalla NSA) dice che "i mercati azionari globali saranno chiusi dopo i meeting di emergenza del G7 e G20 previsti questo weekend e convocati con urgenza dal ministro del Tesoro USA Hank Paulson". "Non dobbiamo sprecare tempo, dobbiamo agire con la massima rapidita' per ridare fiducia ai mercati con provvedimenti di urgenza", ha detto Paulson stasera in una conferenza stampa a Washington. La misura eccezionale di chiusura dei mercati, secondo alcune prime analisi a caldo, ammesso che sia effettivamente varata in accordo dai maggiori Paesi a economia inustrializzata, potrebbe non sortire pero' l'effetto sperato. Misure rumoreggiate in questi drammatici giorni di tensione sulle Borse (per il congelamento del mercato del credito) poi, di fatto, spesso si sono realizzate davvero, come e' accaduto perfino oggi con il taglio dei tassi coordinato da parte delle maggiori Banche Centrali mondiali (tra cui FED e BCE), invocato da giorni dagli operatori di mezzo mondo per allentare la morsa della crisi finanziaria. Oggi le Borse in Russia, Ucraina e Indonesia sono state chiuse per fermare una valanga di vendite che avevano portato al crollo dei rispettivi indici. Al momento della riapertura, pero', i singoli mercati azionari hanno subito un immediato crash (la Borsa di Mosca sarà chiusa fino a venerdi per decisione delle autorita' russe, la Borsa indonesiana ha serrato i battenti, di nuovo, stasera dopo un altro ribasso del 10% nel giro di un'ora dalla riapertura)».
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