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Le banche stringono il cappio
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«E YHWH disse a Mosè… ‘Quando ve ne andrete, non ve ne andrete vuoti. La donna chiederà alla sua vicina il suo argento, il suo oro, le sue vesti; ne ricoprirete i vostri figli e figlie e spoglierete l’Egitto. (...) I figli d’Israele fecero come aveva detto loro Mosè chiesero in prestito agli egiziani oggetti d’argento, oggetti d’oro e vestiti (...) ciò che gli egiziani fecero, e così li spogliarono’», Libro dell’Esodo, (3-22, 12-35).

Non ha sempre fatto lo stesso, con impressionante regolarità, ciò che chiamiamo «sistema bancario»? Ogni volta, da secoli, ci dice: «Prestateci l’argenteria, dateci il vostro oro sudato col lavoro;  prestateci i vostri risparmi e li faremo fruttare, ve li restituiremo con gli interessi, potrete godervi una bella vecchiaia».

Ogni volta questa promessa si conclude con un esodo: i loro figli coperti d’oro se ne vanno, e noi egiziani restiamo a morire di fame. Degli olocausti che la finanza periodicamente produce, non si deve mantenere la memoria.

Nel 1932 in USA i disoccupati furono 12,5 milioni, su una popolazione totale di 125 milioni; nel 1933, salirono a 17 milioni. Due milioni e mezzo persero la casa e divennero senza-tetto. Nel momento abissale delle Depressione, una persona su tre era stata licenziata. Secondo le statistiche della Federazione Americana del Lavoro, nel 1932 solo il 10% della manodopera risultava impiegata a tempo pieno. Un coltivatore americano su sei ebbe confiscata la terra, la fattoria e tutto il denaro; milioni si misero in marcia alla ricerca di lavoro per in cambio di cibo.

Lo studioso russo Boris Borisov (1) ha analizzato le statistiche demografiche ufficiali (Statistical Abstract of the United States): secondo lui, tra il 1931 e il 1941 mancano 8,5 milioni di persone, che avrebbero dovuto esserci in base al regolare incremento della popolazione degli anni precedenti. Almeno 3 milioni possono essere calcolati come emigrati (nel decennio della Depressione, l’emigrazione dagli USA superò di tanto l’immigrazione), ma restano quasi 6 milioni di scomparsi.

Una shoah dei goym, quindi cancellata.

Leggi sociali di assistenza ai disoccupati e alle loro famiglie affamate non entrarono in vigore che nel 1935: il sistema finanziario le considerava un costo che riduceva la retribuzione del capitale, uno spreco. Molti ebbero il tempo di morire prima che arrivasse il sussidio di disoccupazione, o che gli Stati organizzassero le mense dei poveri e dei rifugi per senzatetto.

Una delle glorie rooseveltiane, i campi di lavoro pubblico (dove passarono 8,5 milioni di disoccupati) Boris non li chiama «provvidenze» ma, per ripicca di ex-sovietico, American Gulag. Nel deserto del Nevada a costruire la diga Hoover, nelle aree paludose a costruire ponti e strade.

Due milioni di giovani disoccupati vennero internati a forza (sono pericolosi, i giovani) in appositi campi di lavoro dal segretario agli Interni  Harold Ickes: era una misura di polizia, non di assistenza. Molti, non si sa quanti, morirono di fatica o malattia.

Il capitalismo, bisogna ammettere, funzionava meglio del socialismo staliniano, anche allora.

Nonostante disoccupati, senzatetto e i loro bambini soffrissero la denutrizione, la produzione alimentare restò sovrabbondante durante tutta la Depressione. Tanto che 6,5 milioni di maiali furono cremati, le messi mature su 10 milioni di ettari furono incendiate coi lanciafiamme, e navi intere partivano per scaricare tonnellate di grano in mare, sottocosta: i prezzi erano troppo bassi, il potere d’acquisto dei consumatori non bastava, occorreva sostenere «il mercato» rendendo rara la merce.

Vi sembra esagerato?

La prossima volta che vi capita di vedere uno di quei vecchi film in bianco e nero di Charlot, o di Stanlio ed Ollio, chiedetevi il perchè di quelle scene così comiche in cui Charlot cerca di cucinare una scarpa, o perchè nasconde il monello in un dormitorio privato, guardato da un proprietario cerbero; perchè Stanlio e Ollio hanno le pezze ai pantaloni, le suole bucate, e raccattano dal marciapiede cicche di sigari lasciati da ricchi signori. Perchè  le loro scenette avvengono in uno scenario pieno di fioraie cieche, di ladruncoli che rubano banane e sono inseguiti da poliziotti, di affittacamere esosi e baffuti, di soffitte lerce e scrostate.

Provate a chiedervi se l’aria assente e catatonica di Stanlio non faccia il verso all’aria che assumevano i denutriti cronici, allora visibili a migliaia ad ogni angolo. Intere piccole città divennero città-fantasma, svuotate dai loro abitanti che andavano altrove, su vecchie Ford, in cerca di cibo.

Soprattutto, domandatevi perchè tutti questi comici indossano una marsina sdrucita, troppo corta o strappata. La marsina non è un abito da operaio. E’, o era, l’abito di impiegati, di scritturali, di borghesi decorosi. Com’è comica la dignità che Ollio cerca di mantenere, anche quando gli si strappano sul didietro i calzoni sdruciti! Ebbene, è la dignità del borghese che ha conosciuto tempi migliori, e non ha abbandonato ancora il rispetto di sè come un peso morto, ora che è un barbone: proprio in questo sta la comicità.

Scene simili erano all’ordine del giorno, dopo un esodo del «sistema bancario», nella vita reale, sui marciapiedi di New York, tra lussuose limousines scoperte e finanzieri in sparato bianco.

Dite che nel ‘29-39 non si indossavano più le marsine? D’accordo, Stanlio e Charlot sono le vittime comiche di qualche crack precedente. Ce ne sono stati tanti: nel 1907, nel 1919... Come insegna Giavazzi, i fallimenti sono parte  integrante del libero mercato, della libera impresa (un lettore ha replicato: è come dire che i crolli dei ponti sono parte inevitabile dell’ingegneria).

YHWH deve aver detto a Greenspan di mantenere il denaro sovrabbondante e il credito facile per dieci anni, tenendo forzatamente bassi i tassi; una forzatura del «mercato», un intervento «pubblico» sui generis, che Giavazzi non deplora.

Il mercato infatti, di suo, avrebbe rialzato i tassi dopo ogni bolla scoppiata, dopo ogni scoppio delle dot.com, dopo ogni Enron, cose che scuotevano un pochino «la fiducia». Invece, i tassi bassi hanno consentito al sistema bancario di proclamare ancora una volta: «Prestateci la vostra argenteria, affidateci i vostri stipendi! Vi diamo credito quanto volete! Vuoi l’auto?La casa?Eccoti il 125% del prezzo, pagherai in comode rate agganciate al Libor!»

A sessantamila pensionati tedeschi, ogni bancario ha consigliato di mettere i risparmi in un prodotto  finanziario sicuro: per invogliare all’acquisto quei prudenti risparmiatori lo hanno chiamato «Zertifikate», «Certificato», parola che in Germania si associa a cose solide, ufficiali, certificati di deposito, magari certificati dai poteri pubblici.

Adesso risulta che i Zertifikaten erano un prodotto finanziario strutturato Lehman Brothers. Quando Lehman (ex Kuhn & Loeb, la storica banca che finanziò Trotzky) è andata in bancarotta, rivela l’Istituto tedesco per la Protezione dell’Investitore, si è portata con sè 500 milioni di euro dei 60 mila pensionati.

Ora, se una ditta commerciale spaccia scatole di sardine mettendoci sopra l’etichetta «Caviale», se un profumiere vende candeggina in flaconi di Chanel numero 5, anche Giavazzi la definisce «frode in commercio», passibile di dure punizioni legali. Invece la Banca può spacciare un prodotto speculativo ad alto rischio, chiamandolo «Certificato» (da chi?), e questa non sembra a Giavazzi una violazione del «mercato».

Chissà perchè, il mercato dello scatolame è regolamentato - non si può spacciare il tonno per caviale - quello della Banca non deve esserlo, altrimenti la finanza non può fare il suo splendido mestiere, quello di fornire capitali all’economia produttiva. Si vede, adesso.

Il sistema bancario ha ricevuto, fra Stati europei e Stati Uniti, 3 mila miliardi di dollari in denaro pubblico: eppure le banche rimangono restie a prestarlo, non solo tra loro, ma anche alle imprese sanissime. Nel nord est stanno già strangolando le piccole aziende esportatrici, «Rientrate dai fidi! Nessun nuovo prestito!».

Ora, Giavazzi dovrebbe porsi almeno il problema: i panettieri restii a infornare e vendere il pane, sono ancora panettieri? Non sarebbe il caso di togliere loro la licenza? E se le banche non prestano, come possono pretendere di essere chiamate banche?

Le banche - che prima prestavano a messicani precari e cameriere filippine di che comprarsi la casa da 300 mila dollari col mutuo - ora sono agghiacciate dall’imminente esplosione dei derivati. Perciò accumulano e accumulano, senza dar niente, per farsi delle riserve.

Persino Giavazzi, il liberista bocconiano, dovrebbe sapere che nessuna riserva basterà allo scopo: i derivati sono una bolla che, se scoppia, assorbe 55 trilioni, dieci volte il PIL americano; e alcuni la (Banca dei Regolanenti Internazionali) dicono che siano 513 trilioni, una decina di volte il prodotto interno lordo del pianeta Terra.

Quello che stanno facendo le banche è del tutto inutile. Come quello che stanno facendo gli Stati.

«E’ inutile fare trasfusioni a un malato, se prima non si cura l’emorragia interna», dice Joseph Stiglitz, Nobel dell’Economia.

Molti Stati si stanno dissanguando, per salvare il sistema finanziario. Alcuni - Islanda, Pakistan - già stanno crollando sotto il peso. Tutti gli altri dovranno finanziare questo immane salvataggio con il debito: ciò significa che esploderà presto l’emissione mondiale di Buoni del Tesoro in concorrenza, per attrarre risparmio. Ma c’è abbastanza risparmio nel mondo per assorbire tanti e diversi titoli di tanti Stati?

Quello asiatico e cinese dipende dall’export, che si abbassa; quello dei pensionati tedeschi se lo sono portato via i Lehman, i Kuhn e i Loeb; e centinaia di milioni di risparmiatori e pensionati  hanno perso l’argenteria prestata.

La recessione generale ridurrà di molto i risparmi da investire in BOT. E le banche che non prestano alle aziende sane fanno di tutto per trasformare la recessione in depressione.

Ci hanno preso i soldi due volte, prima rifilandoci obbligazioni-spazzatura spacciate come Zertifikaten; poi, come contribuenti, facendosi «salvare». E adesso ce la mettono tutta per farci diventare Stanlio e Ollio, a raccattare cicche con la sdrucita marsina, ricordo di tempi migliori.

«La capacità di nuocere del sistema finanziario, la sua capacità di prendere in ostaggio la società, è senza pari», commenta l’economista Paul Jorion (2). E spiega che il salvataggio delle banche da 3 trilioni nostri dà solo un «respiro temporaneo», a cui deve seguire «una grande operazione di rilancio dell’economia reale».

Nouriel Roubini incalza: nelle decisioni degli Stati-salvatori continua a mancare «un grande piano di stimolo nella forma di spesa keynesiana vecchio stampo, per rafforzare la domanda aggregata.  Se questo stimolo non è velocemente messo in opera, le stesse condizioni delle istituzioni finanziarie che il piano ha voluto salvare saranno minate, nel giro di sei mesi, da una caduta a picco della domanda aggregata che trasformerà una recessione già grave in una ancor più grave».

Più chiaro il francese Nicolas Dupont-Aignan: «Salvare la banche va bene, salvare i posti di lavoro e il potere d’acquisto è meglio» (3). E anche lui predica l’urgenza del rilancio: «Dobbiamo inventare un nuovo keynesismo europeo, un nuovo sistema economico dove la domanda equilibra l’offerta, dove le montagne di denaro fittizio, addossate sulla schiena dei popoli, cedano il posto ad uno sviluppo durevole,  fondato su tassi di rendita ragionevoli, la giusta remunerazione dei salariati, investimenti a lungo termine, l’intervento permanente dello Stato per far pagare caro al ‘mercato’ ciò che vuole, la permanenza dei servizi pubblici, eccetera».

E ancora. «Cambiare lo statuto della Banca Centrale Europea  per introdurvi un obbiettivo di crescita, lanciare un programma di grandi lavori finanziato dalla Banca Europea d’Investimento, ristabilire la ‘preferenza comunitaria’ per salvare i posti di lavoro, investire nell’industria e nella scienza per preparare la competizione del ventunesimo secolo. Ma questo implicherebbe un rovesciamento della costruzione europea attuale. I politici, così pronti a riunirsi per salvare il sedere ai banchieri, saranno capaci di imporre alla BCE e alla commissione una revisione radicale delle loro politiche?».

«La prima catena da far saltare è il patto di stabilità», rincara Jorion, «la museruola del 3% (di deficit da non superare) è oggi strangolatrice. Ma la trasgressione del decalogo di Maastricht sarà difficile da negoziare».

Si può ben dire. Avverte  Dupont-Aignan, a proposito della BCE e della Commissione: «Ora  fanno finta di niente,  ma non hanno abbandonato niente delle loro idee false. Non raccontiamoci favole: tutti i loro dogmi - monetario, concorrenziale, libro-scambista, che del resto Sarkozy ha sottoscritto, sono stati solo messi in frigo, e saranno ripresi fuori alla prima occasione. Già si vede dall’ambiguità del salvataggio. Si aiutano le banche in modo enorme, ma dove sono le contropartite? Niente sui paradisi fiscali, niente sugli  hedge fund, poco sulla riduzione degli emolumenti ai banchieri, quasi niente sulla regolazione efficace dei meccanismi dell’economia d’azzardo! Eppure il Parlamento Europea aveva votato quasi all’unanimità regole strette per i fondi. La Commissione di Bruxelles, per pura ideologia, ha impiegato tutta la sua forza per far deragliare questo progetto. L’economista propone nè più nè meno che la Fortezza Europa, con alti dazi a protezione dei posti di lavoro, grandi opere pubbliche, controllo della finanza, dirigismo negli investimenti in settori identificati dallo Stato (scienza e industria)».

Tutto ciò che Giavazzi non vuole.

Negli anni ‘30, quando un americano su tre era stato licenziato dal lavoro, 17 milioni erano a raccogliere cicche e stavano nei dormitori, e solo il 10% della manodopera aveva un impiego non precario, in uno Stato europeo la disoccupazione si ridusse da 3 milioni a mezzo milione scarso.

Visto che le banche erano restie a prestare, in varie nazioni europee lo Stato nazionalizzò le banche: ne fece degli enti pubblici, come Ferrovie e Poste, e le costrinse a prestare. Con più o meno successo. Modesto in Italia; successo assoluto in... ma quello, come sapete, era il Male Assoluto; la sola volta in cui un popolo egizio ebbe la forza di non prestare più l’argenteria.

In America si raccoglievano cicche e si aspettava in fila la minestra, mentre milioni di ettari di grano venivano trattati col lanciafiamme, ma trionfavano il mercato e la democrazia. In America morirono 8 milioni di goym, ma la loro memoria è cancellabile; anche oggi ci raccomandano: attenti, con la grande crisi può essere messa in pericolo la «democrazia», può nascere un dittatore populista… Questo è il vero pericolo, non i milioni di disoccupati.

E’ strano che sia Jonathan Feldman (4), un economista al Dipartimento di Storia Economica di Stoccolma con nome ebraico, a constatare sconsolato la differenza tra quello «ieri» e il nostro oggi: «In aggiunta ad un fallimento del mercato, abbiamo un grave problema di fallimento dello Stato».

E come non bastasse, «un fallimento del movimento sociale, un collasso della società civile (...) atomizzata dai consumi, da posture politiche dettate dalla ‘differenziazione dell’offerta’ politica,  da posizionamenti identitari e simbolici, o da assudità post-moderne. Dove le sole persone che distribuiscono volantini sulle strade appartengono alla frangia dei semi-pazzoidi».

Pare quasi che parli dei radicali in digiuno per la RAI, dei «fascisti» da stadio, dei leghisti identitari, dei finocchi che pretendono i loro «diritti» e ne fanno una questione politica, degli ambientalisti a crescita-zero.

Quella volta, negli anni ‘30, la società in Europa prese le strade per motivi più gravi, e seppero aggregarsi e pesare. Oggi, siamo tutti privati che inseguono una paturnia minoritaria.




1) Boris Borosov, «Where did the American missing millions go? Holodmor  Lessons», Russia Today, 4 aprile 2008. Borosov è animato da un cattivo spirito, cerca di dimostrare che la fame in USA negli anni ‘30 fu un delitto pari o superiore all’Holodmor, la sterminio per fame di 7-10 milioni di contadini ucraini operato dai comunisti nel 1931-32. Con ciò, rivendica ai russi - e ai russi d’oggi - un delitto che fu opera dei  bolscevichi. Se questo è il risultato del ritrovato orgoglio russo, la comprensione per i boia sovietici, non è un buon auspicio per il futuro della Russia. Come scrisse Solgenitsyn: «Di fronte al nostro Paese e ai nostri figli, abbiamo il dovere di processarli tutti! Processare non tanto loro, ma i loro delitti. Ottenere che ciascuno di essi dica almeno ad alta voce: Sì, sono stato un boia e un assassino. Dobbiamo condannare pubblicamente l’idea stessa dello scempio compiuto da uomini sui loro simili. Tacendo sul vizio, noi lo seminiamo, e in futuro germinerà moltiplicandosi per mille. Non punendo, non biasimando neppure i malvagi, strappiamo da sotto alle nuove generazioni ogni fondamento di giustizia. Non sarà un Paese accogliente, farà paura viverci». Mentre in USA i milioni di morti furono, come dire, un effetto collaterale del sistema bancario, in Ucraina, il massacro fu organizzato e voluto per direttiva del Comitato Centrale. Nelle campagne furono mandati «contadini» bolscevichi che presero il posto dei kulaki, in quanto si opponevano alla collettivizzazione; quando (ovviamente) la produzione granaria crollò ad un terzo, fu ordinata la repressione. Squadre dell’NKVD confiscarono casa per casa non solo il grano «che i kulaki  nascondevano» (le sementi), ma patate, barbabietole e qualunque alimento. Fu vietato commerciare generi alimentari. L’intera regione fra il Caucaso e il Don fu sigillata dall’NKVD (il cui nerbo era formato da membri della nota comunità), e dentro si lasciarono morire di fame a milioni gli insubordinati. Molotov e l’ebreo Kaganovic, i due autori dello sterminio, sono morti nel loro letto indisturbati. Che c’entrano i russi? Dovrebbero chiedere perdono agli ucraini, dire: «Qualche nemico ci ha fatto fare questo». Altrimeti l’odio e la paura per il russo non avranno mai fine.
2) Paul Jorion, «Necessaire relance», ContreInfo, 15 ottobre 2008.
3) Nicolas Dupont-Aignan, «Sauver les banques c’est bien, sauver l’empli et le pouvoir d’achat c’est miex», Contre Info, 15 ottobre 2008.
4) Jonathan Feldman, «Before of the second wave of crisis, an alternative to the triple failure», Counterpunch, 15 ottobre 2008.


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