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Liberalismo e cristianesimo: un infelice errore
10 Giugno 2011
Flavio Felice è ajunct fellow dell’American Enterprise Institute, con sede in Washington DC, noto think tank neocon, nonché presidente del Centro Studi e Ricerche Tocqueville-Acton. Un centro studi, quest’ultimo, che si definisce «associazione di cultura, ricerca e formazione ispirata ai principi dell’economia di mercato e della dottrina sociale della Chiesa». Si tratta di un Centro molto attivo in termini di pubblicistica e di organizzazione di seminari e convegni, come è tipico di molte altre realtà associative del mondo catto-liberale e neocon. Oltretutto il Centro Tocqueville-Acton gode di molte buone entrature presso le gerarchie universitarie e quelle ecclesiastiche, oggi spesso ammiccanti al mondo americano. Mi è stato segnalato, dall’amico Siro Mazza, un articolo da ultimo pubblicato dal professor Flavio Felice sul quotidiano della CEI (1). In detto articolo il professor Felice scende in campo in difesa della conciliabilità tra cristianesimo e liberalismo, anzi della derivazione del secondo dal primo, ribadita da Giuseppe Bedeschi in una recensione, apparsa su Il Riformista del 25 maggio scorso, del libro di Luciano Pellicani Dalla Città sacra alla città secolare (Rubbettino).
Flavio Felice
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Il Felice ci informa che, in polemica con Pellicani, per il Bedeschi: «La storia ci dice che la prima grande teoria, espressa dal mondo moderno, dei diritti inviolabili e imprescrittibili della persona, è stata elaborata da un pensatore profondamente cristiano, John Locke». Bedeschi contesta Pellicani che, nell’opera predetta, ribadisce la sua tesi per la quale liberalismo e cristianesimo sono inconciliabili e per la quale il riferimento alle radici cristiane del costituzionalismo americano è il frutto di un grande fraintendimento. Secondo il Felice, ad adiuvandum della critica di Bedeschi, Pellicani sbaglia nel selezionare le fonti. Una lunga tradizione di pensiero mostrerebbe, al contrario, come sia impossibile spiegare la genesi e lo sviluppo della teoria politica liberale e della nazione americana al di fuori della tradizione cristiana e che, di conseguenza, non è possibile ridurre quella vicenda costituzionale al trionfo di un individualismo e di un volontarismo interpretati in senso ateistico (come se - notiamo subito criticamente - vi fossero un individualismo ed un volontarismo interpretabili in senso teistico!). Il Felice si richiama alla dottrina del diritto naturale sulla quale si fonda il costituzionalismo americano ed enumera la serie dei padri della nazione americana che fecero del diritto naturale il fondamento della libertà della persona: da Washington ad Adams fino a Webster. Naturalmente per il Felice persona, che sempre si da solo nella comunità, ed individuo, che al contrario sempre si da solo nel solipsismo sociale, sembrano equivalersi e già questo denota l’errore di fondo del suo ragionare da liberale tinto di cattolicesimo. Oltre ai padri americani, poi, il Felice enumera i cattolici liberali da Rosmini a Manzoni, da Newman a Sturzo e cita la lettera di Benedetto XVI del 17 marzo scorso al presidente della repubblica, Napolitano, in occasione delle celebrazioni del centocinquantenario della liberale unificazione (manu militari!) dell’Italia. Tutto questo sforzo al solo scopo di confutare Pellicani e di sostenere le ragioni di Bedeschi, che sono le ragioni del cattolicesimo liberale, nella convinzione della diretta derivazione del costituzionalismo americano dalla fede biblica, dalla filosofia ellenistica antica e dal cristianesimo medioevale. Non conosciamo nel dettaglio le tesi di Pellicani né le critiche a lui mosse da Bedeschi. Né ci risulta che Pellicani professi la fede cattolica. Da parte nostra vogliamo piuttosto verificare la consistenza delle osservazioni del Felice muovendo, però, dalla sua stessa fede cattolica. In realtà, in una cosa si potrebbe dare ragione al Felice. In effetti il liberalismo americano è certamente figlio del cristianesimo ma a condizione di identificare il cristianesimo con il protestantesimo. Una identificazione già proposta, qualche anno fa, da Marcello Pera nel libro scritto in dialogo con Ratzinger, il quale, con cortesia e garbo accademico, tuttavia non mostrava di accettare tale identificazione. Laddove, invece, si accoglie il cattolicesimo come unico e vero cristianesimo le cose cambiano radicalmente. L’identificazione della fede cristiana con il solo cattolicesimo, a discapito del protestantesimo, non è una nostra pretesa arbitraria ma semplicemente il portato oggettivo e riscontrabile della tradizione e della storia. Il protestantesimo, infatti, mancando sin dalla sua origine di base e di continuità apostolica non può in alcun modo assurgere a forma, benché deficitaria, della fede cristiana. Forme deficitarie del cristianesimo sono certamente l’ortodossia nonché tutte quelle tradizioni pre-calcedoniensi che hanno conservato base e continuità apostolica. Ma non altrettanto si può dire per il protestantesimo (con qualche riserva per l’anglicanesimo all’origine solo scismatico e che tuttavia, strada facendo, ha finito per protestantizzarsi, perfino nel rito e nella dottrina, ad un punto tale che la continuità apostolica è per esso ormai fortemente dubbia). Nella Dominus Jesus, firmata da Giovanni Paolo II ma scritta da Joseph Ratzinger, si ribadisce, non a caso, la pienezza apostolica per la sola Chiesa cattolica, mentre per ortodossia ed affini si parla sì di chiese, per via della loro base ed origine apostolica, ma se ne riafferma la non-pienezza. Nello stesso documento, poi, si afferma che quelle protestanti non possono neanche chiamarsi chiese ma solo tutt’al più comunità proprio per la loro assoluta mancanza di radici apostoliche. Insomma nel protestantesimo vi è stata una vera e propria sincope del Sacerdozio Universale Messianico e Salvifico di Cristo al quale si riferiscono i passi biblici di Genesi 14-18, del Salmo 110 (109), 4 e del capitolo 7, e seguenti, della Lettera agli Ebrei. Vediamo ora come questa sincope si atteggia nell’ambito della filosofia politica nel quale si muove il liberalismo cattolico del Felice. Quando non si tiene in debito conto, con scarsità di vedute storico-teologiche, della frattura intervenuta con Lutero le conseguenze sono quelle di confondere il protestantesimo, e le sue creature politiche, con il cristianesimo tout court. Senza indagare - non ne abbiamo qui né il tempo né lo spazio - sulle radici gnostiche della teologia luterana, che pur sono evidenti sin dal pessimismo antropologico che risente dell’orrore e del disprezzo, appunto, gnostico della carne, non è possibile dimenticare che nel momento nel quale Lutero, approfittando delle debolezze umane dei cattolici del suo tempo (2), dichiarava essere la Chiesa la Babilonia dell’Apocalisse ed il Papa l’Anticristo e che la fede è solo quella intimistica - secondo l’idea personale di ciascuno - senza alcun bisogno di Tradizione e Magistero e di Visibilità e Corporeità ecclesiale e liturgica, la strada per il soggettivismo era completamente aperta. Il soggettivismo, poi, mediante la fase del deismo liberale ha portato dritto dritto all’ateismo. La frattura luterana, portando la coscienza fuori dall’alveo della Rivelazione della quale è depositaria la Chiesa con basi apostoliche, ha in sostanza introdotto il soggettivismo teologico ed ha permesso, mediante il libero esame, a ciascun fedele di inventarsi il Dio a sua misura, come meglio gli aggrada. Dalla polemica religiosa del protestantesimo contro la Chiesa e dal suo esplodere in mille sette, conseguenza del soggettivismo e del fideismo teologico introdotti da Lutero, come pure dalle diatribe tra le stesse sette protestanti, derivarono, anche per molteplici interessi politici che si aggiunsero alle lotte teologiche, le guerre di religione che insanguinarono l’Europa tra XVI e XVII secolo, distruggendo la Cristianità. Onde uscire da quell’endemico stato di guerra perenne - sul piano politico si trattò di una vera e propria guerra civile europea - fu giocoforza stabilire, su basi del tutto arbitrarie ed avulse dalla Rivelazione, un minimo comun denominatore che potesse mettere d’accordo tutte le confessioni cristiane e che, come religione naturale o razionale, fosse assunto dallo Stato in forma di religione civile, alla quale tutte le chiese prestassero ecumenicamente ossequio. La religione naturale deista diventò così il perno della ruota verso il quale tutti i raggi delle singole confessioni positive convergevano. Queste ultime restavano intatte nei loro diritti particolari ma nessuna di esse poteva pretendere di presentarsi come depositaria assoluta della Verità. Questa religione naturale, però, non prestava più culto al Dio cristiano-apostolico ma al dio, quello che già aveva fatto capolino agli albori della storia (Genesi 3,4), che più tardi la Massoneria chiamerà Grande Architetto: una deità a-confessionale capace di ricomprendere in una unità trascendente tutte le diverse confessione cristiane, e più tardi tutte le religioni, considerate alla stregua di forme essoteriche di una unica indistinta verità esoterica. È esattamente quel che Pio IX condannava come indifferentismo e che oggi Benedetto XVI lamenta come relativismo. Le conseguenze sul piano del diritto naturale non furono poche. Nella prospettiva del cristianesimo apostolico, è senza dubbio vero che l’uomo, in quanto icona di Dio, ha inscritta nel suo cuore una legge morale, dalla coscienza presentita come istanza superiore che fa risuonare nell’anima la voce di Dio. Tuttavia è altrettanto vero che senza una Rivelazione storica - rivelazione che comporta inevitabilmente la necessità di una custodia esegetica e di un deposito di trasmissione generazionale e teologale (prima l’Israele antico e poi la Chiesa) - non è affatto possibile all’uomo comprendere fino in fondo quelle esigenze di giustizia, di equità e di amore - espressioni più autentiche del cosiddetto diritto naturale - che certamente egli sente dentro di sé ma, a causa del peccato, in modo confuso ed instabile. Non solo: senza la Grazia non è possibile all’uomo, dopo il peccato adamitico, conformarsi armonicamente alla legge di natura ed alla voce della sua coscienza. Ora, storicamente, è nel Decalogo che Dio rivela, in forma positiva, la legge morale naturale, rendendola comprensibile all’uomo, ma è solo in Cristo che, mediante la nuova legge della grazia, l’uomo diventa capace di adempiere al Decalogo ossia alla legge morale. La Grazia, però, è veicolata, tramite rito, sacramenti e preghiera, soltanto dalla Chiesa, visibile e corporea, con basi apostoliche, che dall’antico Israele ha ereditato in custodia, insieme alla Rivelazione adempiutasi in Cristo, anche la legge morale del Decalogo ossia il diritto naturale espresso in forma di normazione positiva. Anche fuori di Israele, i filosofi ellenistici cercavano la radice del giusto e dell’equo. In qualche modo è possibile accostare questi filosofi ai profeti di Israele nella prospettiva del Cristo Venturo. Le intuizioni filosofiche ma anche quelle etiche di questi filosofi pagani sono i semina Verbi ai quali facevano riferimento i Padri della Chiesa e che Dio ha, ad essi filosofi, ispirato nel tempo dell’attesa messianica di Israele, per preparare anche i pagani all’accoglimento del Verbo Incarnato. Ecco perché la Chiesa è diventata l’erede di questa saggezza filosofica pre-cristiana. Si trattava di una saggezza in qualche modo ispirata, nelle sue intuizioni del Vero, benché ancora limitata dalle intrinseche aporie del monismo pagano. Questo spiega perché in età medioevale il diritto naturale sia stato immancabilmente concepito all’interno di un coerente quadro teologico cristiano-apostolico, sicché l’Aquinate, ad esempio, poteva ben dire che la legge di natura è, pur nella distinzione dei piani, radicata nella Legge Eterna e che quindi essa, la legge naturale, non può darsi, come del resto l’uomo stesso, senza l’Eterno. Concepire la legge morale naturale all’interno dell’alveo cristiano-apostolico implicava che la Chiesa fosse sentita, in quanto depositaria della Verità che, come la Grazia, illumina anche la natura, quale Societas superiore alle comunità politiche sebbene queste ultime erano riconosciute titolari di inalienabili diritti politici naturali e di un certo ambito di autonomia. La Chiesa era, per davvero, Mater et Magistra e Le era riconosciuto il diritto/dovere di insegnare agli uomini e di giudicarne moralmente il loro operato, anche politico. Un difficile equilibrio, certo, quello che si andò instaurando tra Chiesa e comunità politiche. Un equilibrio che spesso ha causato conflitti ed incertezze tra gli estremi, entrambi erronei, delle pericolose tendenze teocratiche ed aberranti tendenze statolatriche. Ma, posto con Lutero il singolo al di fuori del Corpo Mistico, negata visibilità e corporeità alla Chiesa apostolica, in nome dell’intimità introspettiva della fede individuale, ed infine sottomessa la chiesa invisibile al minimo comun denominatore della religione naturale garantita dallo Stato, anche il cosiddetto diritto naturale diventò, invero, un mero contrattualismo sociale, una convenzione pattuita tra individui portatori per natura, indipendentemente dalla Divinità o per volontà di una deità a-confessionale e quanto più possibile anonima, di diritti inalienabili ed assoluti che, tuttavia, allo scopo di consentire quel minimo di convivenza associata necessaria al genere umano, accettano una loro riduzione, mediante reciproche concessioni sinallagmatiche di fronte al Sovrano statale che si fa tutore del patto o contratto sociale. Se Hobbes e Rousseau hanno ispirato la versione statolatrica del soggettivismo deista, con il culto del Leviatano o della Volontà Generale, fu Locke - il pensatore che Bedeschi definisce «profondamente cristiano» - che inaugurò la via liberale del soggettivismo religioso. Storicamente la versione hobbessiana/rousseviana ha preso piede, nel corso dei secoli dal XVII al XX, in Europa, ingaggiando una dura lotta contro la Chiesa, mentre la versione lockiana, originariamente inglese, ha poi trionfato negli Stati Uniti, senza conflitti frontali con la Chiesa ma inoculando il veleno relativista anche al suo interno. La Costituzione degli Stati Uniti d’America ha una radice fortemente deista. Il dio alla quale essa si richiama è solo in apparenza il Dio della Rivelazione cristiana. In realtà quel dio è il Grande Architetto della Massoneria. Il biblismo, di ascendenze puritano-calviniste, proprio della religiosità americana è in realtà strettamente parente del giudaismo post-biblico e si allontana irrimediabilmente dalla Fede biblica - il vero ebraismo - adempiutasi in Cristo. Questo documento politico - la Costituzione americana - presuppone, infatti, con tutta evidenza, una concezione razionale della divinità priva degli elementi soprannaturali e dogmatici che, nella Tradizione apostolica, la Rivelazione svela essere propri del Dio abramitico. La Costituzione americana, quindi, nella sua essenza per l’appunto deista, nega la religione rivelata secondo la trasmissione apostolica quale autentico fondamento della legge morale, che pure, poi, pretende di richiamare a base della convivenza politica e sociale, ed ammette la parificazione giuridica di tutti i culti lasciando agli stessi - qui è la differenza con la versione statolatrica del soggettivismo che ha trionfato in Europa e che rinchiude la fede nel solo ambito del privato - libertà di espressione pubblica e sociale in quanto vie di eguale efficacia salvifica nell’ambito del medesimo culto naturale. Il deismo, che fu il credo filosofico delle logge moderate anglosassoni e poi americane, pretende di ricondurre Dio all’interno della sola razionalità naturale. Il Dio vivente del cattolicesimo, creatore e governatore del mondo, che si rivela all’uomo, non ha nulla a che fare con il dio a-confessionale, sovente impersonale, a-dogmaticamente accettato dai deisti. L’idea di legge morale universale che deriva dal deismo massonico e liberale è, appunto, priva di ogni riferimento alla Rivelazione e perciò ritenuta sostenibile senza alcun bisogno di mediazione apostolica e senza necessità degli apporti soprannaturali della Grazia. Il deismo è intrinsecamente connesso al relativismo ed al soggettivismo di origini protestante. Fu proprio Locke, nel saggio Ragionevolezza del cristianesimo (1695), a contribuire in maniera decisiva a diffondere i principii del deismo: egli considerava come la più ragionevole ed utile delle religioni un cristianesimo liberato dal dogma e ridotto alla precettistica morale. Un cristianesimo a-dogmatico che fosse capace di mettere d’accordo tutte le confessioni cristiane sul minimo dell’esistenza di Dio e di suo Figlio Gesù Cristo e che lasciasse ogni altra questione teologica alle singole confessioni libere di praticare la loro fede particolare a patto che non pretendessero di essere le uniche depositarie delle Verità e di sottomettersi alla religiosità naturale garantita dallo Stato. È evidente che questo cristianesimo lockiano fosse, in realtà, il portato del soggettivismo maturato con la Riforma e che in fondo negasse se non la Verità oggettiva, quella rivelata, - ma dopo Locke si giunse immediatamente anche a questo - perlomeno la possibilità per l’uomo, chiuso nel suo solipsismo egocentrico, di attingere ad Essa. Il cristianesimo relativista auspicato da Locke finì per essere la base giustificatrice del giusnaturalismo lockiano non più incentrato su giustizia ed equità ma su «vita, libertà e proprietà individuale» come naturali beni primari. Una morale, a ben vedere, utilitaristica concepita come patto tra belligeranti, radicalmente ostili tra loro (ritorna il pessimismo antropologico luterano) affinché, per garantire il minimo necessario di convivenza, si rispettino almeno quei beni primari. Locke, nel clima delle guerre di religione scatenate da Lutero, fece di questo cristianesimo a-dogmatico la base della tolleranza religiosa cui si ispirò il pre-illuminismo inglese. Egli guardava al cattolicesimo, in quanto, a differenza del protestantesimo, intrinsecamente dogmatico, come al nemico principale della «tolleranza religiosa». Accolto, successivamente, in Francia da Voltaire, il deismo è stato trapiantato in America dai primi coloni puritani proveniente dall’Inghilterra lockiana. Ciononostante, poi, proprio in nome della tolleranza quei coloni si diedero alla più feroce mattanza di pellerossa e di presunte streghe come nel caso di Salem, nel Massachusetts del XVII secolo (3). Il Felice richiama, nel suo articolo, i grandi nomi del cattolicesimo liberale. In realtà ci permettiamo di dubitare fortemente che Rosmini e Newman possano essere annoverati tra i catto-liberali. Essi, piuttosto, hanno trattato del sempiterno problema pastorale di come permettere, senza violenza, il passaggio dalla falsa coscienza, segnata dal peccato, alla retta coscienza nella luce della Grazia. Nel trattare questo problema, sia Rosmini sia Newman hanno diffidato di qualsiasi azione coercitiva dei pubblici poteri nell’evangelizzazione. In questo, in fondo, essi seguivano Sant’Agostino, in una situazione che già ai loro tempi poteva già dirsi di quasi post-cristianità sociologica. Un situazione oggi giunta a maturazione e che siamo soliti chiamare secolarizzazione. Ma è fuor di ogni dubbio, qualsiasi giudizio si voglia dare su di essi, che mai un Rosmini o un Newman avrebbero sottoscritto l’idea lockiana della non attingibilità della Verità in senso oggettivo o il soggettivismo teologico o, ancora, il relativismo ecclesiale ecumenico che fa di tutte le confessioni cristiane, apostoliche o meno, vie particolari e di pari efficacia salvifica convergenti nel cristianesimo a-dogmatico naturale capace di mettere tutti d’accordo. Per Rosmini come per Newman (4) l’unica, vera, Chiesa salvatrice, fondata da Gesù Cristo, è solo quella cattolica e, quindi, per dirla con Jean Guitton, «Dio è cattolico». Tutta la tolleranza rosminiana o newmanniana verso i non cattolici deve leggersi solo come approccio caritatevole verso chi non ha ancora aperto il cuore alla Luce del Signore per comprendere che il cattolicesimo è la vera fede e la Chiesa cattolica la vera Chiesa. La differenza tra liberalismo e cattolicesimo, che li rende assolutamente incompatibili, sta tutta in questo: il secondo si fonda sul primato della Verità e non ritiene autentica libertà quella che pretende di emanciparsi dalla Verità; il primo, invece, nonostante tutte le edulcorazioni catto-liberali che si vogliano fare, afferma quella emancipazione anche quando, nelle sue forme moderate, non arriva a proclamare inesistente la Verità. Solo se si legge la storia, compresa quella delle idee filosofiche, in retrospettiva, minimizzando sulla frattura luterana, si può affermare con l’economista tedesco Wilhelm Röpke, citato dal Felice nel suo articolo, che: «il liberalismo non è (…) nella sua essenza abbandono del cristianesimo, bensì il suo legittimo figlio spirituale». Ma, appunto, si tratta di una retrospettiva strabica, falsa sia sotto il profilo teologico che sotto quello storico. Abbiamo già accennato al fatto che la morale di natura alla quale si richiamava Locke era di tipo utilitaristico, ossia finalizzato alla preservazione, nella convivenza civile, delle proprietà, della libertà individuale e della vita. Questo utilitarismo, insito nell’idea giusnaturalistica lockiana e, in genere, liberale, è esattamente ciò che alla lunga non ha potuto impedire il trionfo dell’etica secolaristica la quale presume non necessario alcun riferimento superiore per l’agire umano e che esso sia determinato, in una prospettiva di chiusura immanentista, soltanto dal puro egoismo: quello che poi Adam Smith avrebbe proclamato essere la vera origine della pubblica ricchezza, riproponendo, in termini di etica economica, il concetto, già gnostico e poi non a caso luterano, del «peccato salutare», della salvezza che si ottiene peccando. Benedetto XVI, in un recente discorso nell’udienza concessa ai partecipanti ad un congresso internazionale promosso dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (al quale - chissà - forse avrà partecipato anche il Felice), ha avuto modo di chiarire che: «Senza un pensiero morale che superi l’impostazione delle etiche secolari, come quelle neoutilitaristiche e neocontrattualiste, che si fondano su un sostanziale scetticismo e su una visione prevalentemente immanentista della storia, diviene arduo per l’uomo d’oggi accedere alla conoscenza del vero bene umano». Aggiungendo, poi, poco più in là, che: «Solo nella comunione personale con il Nuovo Adamo, Gesù Cristo, la ragione umana viene guarita» (5). Allo scrivente piace sempre chiamare le cose ciascuna con il proprio nome e diffida di qualsiasi facile commistione concettuale. È per questo che non ha simpatie per il catto-liberalismo come non ne ha avuto, a suo tempo, per il catto-comunismo. Il cattolicesimo è una cosa, tra l’altro non di invenzione umana, ed il liberalismo è un’altra cosa. Quest’ultimo se si vuole, come già il marxismo, è una eresia cristiana - uno stravolgimento imitatorio, una scimmiottatura, del cistianesimo - e pertanto una invenzione umana come tutte le eresie. Ciò non impedisce, nell’età del trionfo globale del liberalismo, che la Chiesa possa pervenire, per realpolitik, ad una convivenza pratica con l’ideologia e la prassi liberale. Tuttavia, sul piano teologico, filosofico e su quello dei principii basilari e non negoziabili qualsiasi compromesso dottrinale è impossibile, che piaccia o meno al Felice e a coloro che tra i cattolici inclinano a simpatie verso la cultura liberale. I cattolici liberali sono liberissimi di tentare un accostamento ma anche essi devono fermarsi quando i nodi insolubili, quelli che rendono evidenti l’inconciliabilità tra cattolicesimo e liberalismo, come ad esempio il primato, riconosciuto dal primo e negato o sminuito dal secondo, della Verità sulla libertà, vengono inevitabilmente al pettine. Perché è qui, in quel momento, che si palesa la tempra della loro fede cattolica: se, giunti a quel punto, si ritraggono obbedienti restano nella Chiesa, altrimenti essi finiscono per sconfinare nel protestantesimo anche laddove continuano a vantare cattedre in pontificie università o altolocate conoscenze tra la gerarchia. Luigi Copertino
1) Confronta F. Felice, Liberalismo USA figlio del Cristianesimo, in Avvenire dell’8 giugno 2011. L’articolo è stato ripreso da EFFEDIEFFE. 2) In effetti se la moralità del clero e del laicato del suo tempo non fosse stata ridotta ai minimi termini, l’eresia di Lutero non avrebbe trovato ampi varchi nella cristianità del XVI secolo. In questo senso un concorso di colpa da parte cattolica vi è stato. Ma il Signore non abbandona mai la Sua Chiesa e non a caso Essa fu invece riformata, in senso cattolico, dai grandi Santi precedenti, contemporanei e susseguenti il Concilio Tridentino, il quale è oggi chiamato dagli storici il Concilio della Riforma Cattolica e non più della Controriforma, termine, quest’ultimo, riduttivo perché messo in relazione dialettica di mera opposizione reazionaria con la Riforma protestante. 3) La leggenda vuole che siano stati i cattolici i maggiori massacratori di streghe. Senza affatto voler negare le responsabilità, che pure vi furono, dei cattolici, in realtà, salvo un breve periodo nel XV secolo, l’inquisizione cattolica, fin troppo razionalista, aveva ben compreso che dietro la presunta stregoneria si nascondevano soltanto vecchie usanze popolari di origine pagana. Essa cercò tutt’al più di sradicare quelle usanze senza troppo infierire sulle presunte streghe e sui presunti stregoni, benché in diverse occasioni la mano non fu certo leggera e benché spesso i tribunali laici usassero gli argomenti anti-ereticali ed anti-stregoneschi, di elaborazione inquisitoriale, per supportare il potere del sovrano di turno colpendo con quelle accuse i suoi oppositori politici. Tuttavia è ormai assodato che spesso furono proprio gli inquisitori a salvare dal linciaggio popolare la strega del momento. Come, ad esempio, nel caso, abbastanza tipico, di Gostanza, la cosiddetta strega di San Miniato, in realtà solo una povera donna esperta di erbe medicinali ed accusata di infanticidio a mezzo di sortilegio da alcune sue rivali, mandata assolta dal suo inquisitore. Su questo caso lo storico Franco Cardini ha curato, anni fa, un bellissimo libro per i tipi della Laterza. 4) Newman proveniva dall’anglicanesimo. Inizialmente egli era convinto che l’anglicanesimo rappresentasse una via mediana tra il protestantesimo ed il cattolicesimo. Tuttavia, studiando la Patristica, si rese conto che, a differenza di anglicanesimo e protestantesimo, solo la Chiesa cattolica poteva vantare origini e continuità apostolica. Comprese così l’assurdità della posizione anglicano-protestante per la quale Dio avrebbe consentito, per secoli, fino a Lutero, che la Sua Chiesa venisse meno. Newman, inoltre, si rese conto che la posizione anglicana non preservava la fede dal cadere nello stesso indifferentismo e relativismo che è insito nel protestantesimo. 5) Nella stessa omelia, il Papa ha anche significativamente affermato che sono: «… preoccupanti i fenomeni legati ad una finanza che, dopo la fase più acuta della crisi, è tornata a praticare con frenesia dei contratti di credito che spesso consentono una speculazione senza limiti. Fenomeni di speculazione dannosa si verificano anche con riferimento alle derrate alimentari, all’acqua, alla terra, finendo per impoverire ancor di più coloro che già vivono in situazioni di grave precarietà». Concludendo poi che: «… la giustizia sociale va attuata nella società civile, nell’economia di mercato, ma anche da un’Autorità politica onesta e trasparente ad essa proporzionata …».
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