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La depressione corre velocissima
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«La crisi è ora in piena forza in tutto il mondo; colpisce l’economia reale, le forze produttive dell’industria. E’ globale, è totale, e dovunque»: il Telegraph cita Tremonti, « Italy’s finance  minister», e non capita spesso (1). E’ anche questo un segno dei tempi. La frase serve ad illustrare la rapidità spaventosa con cui la depressione si instaura nel mondo.

Il prezzo dei noli navali per le navi «Capesize» (che traportano grani, carboni, minerale ferroso) è  precipitato da maggio di un incredibile 95%; ciò che ha avuto come conseguenza, fra l’altro, la bancarotta della compagnia di navigazione Industrial Carriers di Odessa, con una flotta di 52 navi.

Le consegne-cargo nel porto americano di Long Beach sono sono calate del 15,2% nell’ultimo mese. I trasportatori navali esitano a far partire le navi se prima non arrivano da parte dei clienti le lettere di credito, le garanzie bancarie che il carico sarà pagato; e le banche non fanno credito.

«Per quanto posso stabilire, il trasporto navale sta rallentando tanto velocemente quanto lo fece nei tristi mesi del 1931», scrive Evans-Pritchard, il miglior giornalista economico del Telegraph. Dalla crisi del ‘29 ai tristi mesi della depressione piena, nel ‘31, ci vollero due anni. Ora è bastato molto meno.

Per l’Italia, gli ordinativi dall’estero sono calati nell’anno del 13%; la produzione industriale è diminuita dell’11%.

La Gran Bretagna, che ha rinunciato alle «manifatture» per vivere di finanza, non sta meglio. La Ernst & Young, basandosi su dati del Tesoro, prevede che il PIL britannico calerà dell’1%, e che non si riprenderà se non dal 2011. Prevede mezzo milione di altri disoccupati, e un calo rilevantissimo della spesa dei consumatori: cadrà all’1,2% nel 2009, salirà all’1,9% nel 2011. Ma nel decennio scorso, i consumi sono cresciuti in Inghilterra del 3,5% annuo.

David Cameron, il capo dei conservatori - e in teoria erede della Tatcher e del suo liberismo assoluto - ha invocato un taglio dei costi previdenziali per lo small business (piccole imprese, pub, negozi) che impiegano 13 milioni di addetti. Ed ha rudemente invitato le banche, che caricano a questi piccoli imprenditori il 15% per concedere prestiti, di trattarli in modo più equo, onde por fine «alla marcia delle insolvenze di massa» (2).

Ungheria ed Ucraina, appena entrate  nella economia di mercato globale, il sospirato «Occidente» Made in USA, hanno dovuto ricorrere al Fondo Monetario per il salvataggio d’emergenza; con un clic del mouse, gli investitori esteri e le banche straniere  hanno ritirato all’istante i loro capitali e  prestiti di cui avevano alluvionato l’Ungheria. Il salvataggio  del Fondo Monetario  è ben lungi dal funzionare, essendo le banche ungheresi già ultra indebitate e di fronte a pressanti intimazioni di «rientrare» da parte dei capitalisti esteri.

In Bulgaria la bolla immobiliare è scoppiata e minaccia la stabilità della sua fragile economia. L’Estonia è nei guai, come la Lituania: è il bello dell’Occidente globale, della libertà fuori dall’ombrello ex-sovietico.

L’Islanda, microscopica nazione, è già nel buco nero dell’insolvenza: i suoi abitanti, un tempo vivevano di pesca, ma s’erano abituati a campare di merci importate. Ora le importazioni costeranno infinitamente di più, provocando un tragico rialzo del costo della vita. Forse è da ripensare l’autarchia. Loro almeno possono contare su merluzzi e aringhe.

Il Pakistan ha chiesto 6 miliardi di dollari in iniezione d’emergenza al Fondo Monetario, ed è giudicato sull’orlo del fallimento. I Credit Default Swap (CDS), le presunte assicurazioni contro i fallimenti, non assicurano nulla: ma  il loro prezzo segnala almeno la probabilità che i «mercati» assegnanno al fallimento di uno Stato.

Ebbene: oggi, i CDS per l’Islanda sono saliti a 15 dollari ogni 100 dollari «assicurati»; e quelli del Pakistan sono ormai a 30 dollari per 100. L’Argentina è a 24 dollari. Anche il forte Brasile è alle corde.

La Corea del Sud ha stanziato 100 miliardi di dollari per garantire le sue banche indebitate e altri 30 miliardi nei suoi mercati finanziari; questa mossa, che intendeva rassicurare, ha sparso il panico, perchè gli «investitori» (leggi: speculatori) speravano che almeno le banche asiatiche fossero parzialmente isolate dalla crisi finanziaria.

Ma è questo il bello della globalizzazione, ragazzi: non ci sono più paratie stagne, erano state smantellate per ottenere la «libera circolazione di merci, uomini, capitali». Come ha detto «Italy’s finance minister», «la crisi è globale, è totale, è dovunque».

Anche i ricchi Paesi petroliferi del Golfo sono nei guai: come programmare un qualunque investimento, o stilare un bilancio di previsione, quando il barile passa da 140 a meno di 70 dollari in quattro mesi? Deve avere i suoi grattacapi anche l’emiro del Dubai, che sta costruendo fungaie di grattacieli a specchio nella sua lingua di deserto, hotel da 2.000 euro a notte, isole artificiali a forma di palma nel suo braccio di mare, e tutto a credito - il credito di quando il suo petrolio valeva 1.450 dollari.

E la Cina? La colossale Cina industriale, dalle colossali riserve con cui sostiene a galla gli Stati Uniti, unico vero salvagente del buco nero finanziario USA? Un esempio: il 53% delle sue 3.600 fabbriche di giocattoli (tutti da esportazione) sono fallite da gennaio ad oggi. La sua prodigiosa crescita, 10,1% annuo del PIL, è scesa al 9% nell’ultimo trimestre. L’espansione del credito e l’eccesso di investimenti degli ultimi anni, inteso a stimolare l’export e a portar via gli ultimi posti di lavoro al cosiddetto Occidente, adesso presenta il conto.

«Abbiamo lasciato durare questo castello di carte troppo a lungo, con il sostegno alle banche», dice Andy Xie, un operatore finanziario cino-occidentale.

La Deutsche Bank (buona quella) prevede, in una sua analisi fresca fresca, che i Paesi industriali conosceranno «la peggiore decrescita da 75 anni», ossia dai tempi della Grande Depressione. Cina ed India, dice il rapporto Deutsche, non avranno il fiato per sostenere l’economia globale durante il rallentamento  dei prossimi anni (3).

La Russia si trova in guai doppi: per il ritiro istantaneo dei capitali esteri, e - come gli altri Paesi petroliferi - per l’altalena folle e il ribasso letale del barile. Il greggio degli Urali è calato a 65 dollari in settimana, molto sotto al limite di solvibilità dello Stato russo, date le grandi spese che aveva avviato. Ora le sue riserve sono alleggerite di 67 miliardi di dollari.

E probabilmente, Mosca dovrà darne ancora, dal fondo speciale di  salvataggio da 50 miliardi  appena istituto, per cavare dalle peste alcuni degli oligarchi a cui è stato consentito di arricchirsi in cambio della loro fedeltà al regime: tanto hanno chiesto Mikhail Fridman (gruppo bancario Alfa), Oleg Deripaska (Basic Element, minerali non ferrosi e vari), Vladimir Lisin (Novolipetsk, acciaio)  e un’altra decina di miliardari ex-sovietici.

Essi hanno da restituire 47 miliardi di prestiti esteri nei prossimi due mesi, e il valore delle aziende quotate dei primi dieci oligarchi, secondo Forbes, è inferiore ai prestiti ricevuti: ora ammonta a 42,8 miliardi di dollari, essendo calato del 34% da gennaio ad oggi (4).

Pochi giorni fa, questi miliardari in pericolo si sono incontrati con un noto esponente dei poteri forti, non solo finanziari, americani: Rudy Giuliani, l’uomo delle Twin Towers. Che cosa abbiano concordato, non si sa. Giuliani ha commentato che USA e Russia hanno un interesse comune nella stabilizzazione economica. Ce la faranno i nostri eroi americo-russi a mantenere le loro mal guadagnate ricchezze?

Secondo Kyle Bass, manager di un importante fondo d’investimento USA, l’immobiliare americano cadrà del 30%, il PIL precipiterà del 4% o del 5%, la disoccupazione salirà dal 10% al 12%. Del resto, da ottobre 2007 le borse mondiali hanno vaporizzato 29 mila miliardi di pseudo-capitale. In America, le case vengono sequestrate al ritmo di 10 mila al giorno.

Sul piano mondiale, i disoccupati saliranno nell’anno di altri 20 milioni; erano 190 milioni, saranno 210. Lo afferma l’Ufficio Internazionale del Lavoro (una costola dell’ONU):  «Solo i Paesi con un vasto mercato interno e poco dipendenti dall’export  soffriranno meno», dice il capo dell’Ufficio, Juan Somavia (5). E pensare che il successo di un Paese nella competizione globale, fino a ieri, si misurava sulla crescita delle sue esportazioni.

Come se non bastasse, in USA non c’è praticamente più il governo; e il nuovo presidente non  prenderà veramente il timone - data la lunga «transition» tradizionale alla Casa Bianca - che nel prossimo aprile.

Insomma, tutte le crisi potenziali esplodono in modo convergente: scoppia la bolla delle materie prime insieme a quella dei mercati emergenti, il credito si è ristretto come un pannolino lavato insieme ai consumi; pende lo scoppio dei derivati, a cominciare dai Credit Default Swap. E il mondo globalizzato non ha una leadership qualunque.

In questi frangenti, Lord Turner, capo della Financial Services Authority britannica, ha dichiarato: «Non c’è il pericolo di una depressione stile 1929-33. Sappiamo cosa fare per impedire che avvenga di nuovo». Il che sembra alquanto smentito dai vuoti risultati delle mostruose iniezioni di liquidità e dai piani di salvataggio colossali fino ad oggi applicati.

«La decisione della BCE di alzare i tassi al 4,25% in luglio, quando il mercato immobiliare in Spagna stava già precipitando, e la Germania e Italia erano già in recessione, mi pare una replica delle follie ideologiche che (le Banche Centrali) commisero negli anni ‘30», scrive Evans-Pritchard.

Davvero sanno cosa fare per non ripetere gli errori? I ministri tedeschi dell’Economia hanno proclamato che «le banche germaniche sono molto meno vulnerabili di quelle americane», tre giorni prima che la Hypo Real crollasse sotto 400 miliardi di euro di passivi.

Sarà un caso, ma in USA è stato ristampato un libro uscito due anni fa - «Three New Deals», di Wolfgang Schivelbusch - che svela quanto il «New Deal» di Roosevelt dovette al fascismo economico italiano e a quello del Terzo Reich (6).

Nel marzo del ‘33, quando Roosevelt assunse la poltrona presidenziale, il Congresso gli delegò tutti i poteri, «di fatto cedendo il potere legislativo» al presidente. Allo stesso modo, «una simile procedura consentì ad Hitler, il cancelliere, di assumere il potere legislativo (cumulandolo con l’esecutivo nella sua persona) dopo l’incendio del Reichstag del 28 febbraio 1933».

I provvedimenti dirigisti assunti da Roosevelt furono elogiati dalla stampa nazionalsocialista: l’America, come il Reich, aveva finalmente «spezzato la frenesia incontrollabile della speculazione». Il Volkischer Beobakter, il giornale ufficiale, si compiacque che Rossevelt avesse «adottato la corrente di pensiero nazionale e socialista nelle politiche economiche e locali», fino al punto di adottare uno stile presidenziale simile al «Fuehrerprinzip».

Hitler in persona «disse all’ambasciatore americano William Dodd che concordava con il presidente sul fatto che il senso del dovere, la disposizione al sacrificio e la disciplina devono dominare la società intera. Le esigenze morali che il presidente pone ad ogni cittadino sono la quintessenza della filosofia di Stato germanica, espressa dallo slogan ‘Il  bene comune trascende l’interesse dell’individuo’».

Le aziende  americane furono soggette a precise direttive di Stato, sotto il piano chiamato National Recovery Administration; formalmente l’adesione delle imprese era volontaria (e allora gli imprenditori venivano gratificati di un manifesto che potevano esibire nell’ufficio o nel negozio), ma chi cercava di sottrarsi era «forzato a partecipare» con vari metodi. Il capo del NRA, generale Hugh Johnson, chiamava il popolo al boicottaggio delle imprese che preferivano il libero mercato, con l’argomento che «il popolo è con Roosevelt» e «non tollererà la non-adesione».

Come il fascismo, il New Deal dimostrò nelle grandi opere pubbliche che lanciò, il culto del colossale. «Le massicce dighe della Tennessee Valley Authority (che portarono l’elettricità nelle zone rurali più depresse)  furono monumenti di cemento e acciaio: monumenti al New Deal, come le città nuove delle Paludi Pontine furono un monumento al fascismo», scrive Schivelbusch; e la «propaganda che accompagnava le realizzazioni della Tennessee Valley Authority era chiaramente diretta contro il menico interno, gli eccessi capitalistici che avevano portato alla depressione» (pagine 160-162). Mussolini non fu avaro di applausi.

Scrisse personalmente una recensione del libro-programma di Roosevelt, «Looking Forward»,  trovando «il principio che lo Stato non abbandona più l’economia a se stessa... molto simile al fascismo. Quanto al programma americano di sostegno all’agricoltura, gli parve identico al ‘progetto corporativo’ » (pagine 23-24).
Roosevelt ricambiava: «Non ho scrupolo di dirle che mi tengo in stretto contatto con quell’ammirabile gentleman italiano», confidò Roosevelt a un suo collaboratore.

Rexford Tugwell, uno dei primari consiglieri del presidene, era un ammiratore esplicito del programma di modernizzazione dell’Italia: «La più limpida, la più efficiente macchina sociale che abbia mai visto. Mi fa invidia» (pagina 32).

La somiglianza fra il New Deal e gli autoritarismi dirigisti europei non sfuggì ai contemporanei.
Nel 1944 - ormai i due fascismi, quello «soft» americano e quelli duri di quà dell’Altlantico, erano in una guerra mortale l’uno contro l’altro, John T. Flynn scrisse che i due tipi di regime condividevano un altro, fatale carattere: il New Deal  è «nato nella crisi, vive di crisi, e non può sopravvivere all’era della crisi. La storia di Hitler è la stessa». Di crisi in crisi, entrambi i regimi avevano bisogno della guerra. «Dobbiamo avere dei nemici», scriveva.

Roosevelt entrò in guerra su richiesta del Coincil on Foreign Relations, che gli mostrò come uno spazio economico tedesco-russo sarebbe stato autosufficiente, e quindi impenetrable alle multinazionali USA.

Sicchè gli anglo-americani forse non sanno come scongiurare un nuovo ‘29, ma stanno attentissimi a che non sorga in  Europa nulla di simile a quei dirigismi. «Non mi stupirebbe», scrive Evans-Pritchard, «se la Russia stessa finisse nella spirale dell’insolvenza (di nuovo, come ai tempi di Eltsin) e del fascismo, di nuovo».

Ma quello russo non si chiamava comunismo?




1)
Ambrose Evans-Pritchard, «Do our rulers know enough to avoid a 1930s replay?» Telegraph,
19 ottobre 2008.
2) Nick Allen, «David Cameron proposes National Insurance cut for small businesses», Telegraph, 20 ottobre 2008.
3) Ed Conway, «Worst slump  since Great Depression», Telegraph, 19 ottobre 2008.
4) Andrew Kramer, «Empires Built on Debt Start to Crumble» , New York Times, 19 ottobre 2008.
5) «La crise engendrerait 20 millions de chômeurs en un an, selon le BIT», Le Monde, 20 ottobre 2008.
6) David Gordon, «Three New Deals: Why the Nazis and Fascists Loved FDR»,  Ludwig von Mises Institute, 22 febbraio 2006.


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