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Come nacque il capitalismo lombardo. E l’inglese
22 Giugno 2011
Milano non era priva di capacità imprenditoriali nemmeno nel ‘600: al centro di una pianura fertilissima, in posizione impareggiabile all’incrocio di grandi vie di comunicazione (fra cui la rete dei canali navigabili o Navigli, «strade che camminano», come disse Colbert), ricca di una manodopera gran lavoratrice, spadari e speronari che esportavano armi di lusso – nessun re di Francia o principe europeo poteva rinunciare ad un’armatura milanese da parata, ageminata d’oro e d’argento – e di tessitori capaci di produrre sia panni di lana per acquirenti modesti, ma anche damaschi, sete, «nastri vaporosi» e passamanerie in oro filato: di questi, nel 1620 Milano era la prima esportatrice verso la Francia, almeno fino a quando i governatori spagnoli non riuscirono a rovinare questa prima industria del lusso italiano imponendo – nell’idea dissennata di trattenere l’oro nei dominii di Spagna – una tassa punitiva sulle esportazioni: nel 1640, i quarantamila lavoranti di fili d’oro s’erano ridotti alla metà.
E tuttavia, queste capacità e attività non riuscirono a fare nascere il capitalismo lombardo quale lo conosciamo (o abbiamo conosciuto fino al recente passato), pratico, imprenditorialmente concreto e cordialmente fattivo. Il capitalismo lombardo – fenomeno unico nella penisola, come vedremo – fu creato dagli occupanti austriaci, o più precisamente – e tardivamente – dall’imperatrice Maria Teresa. I primi decenni del governo imperiale (che era entrato a Milano nel 1706 con le truppe di Prinz Eugen, ossia Eugenio di Savoia) era troppo impegnato in guerre di vita o di morte (fra cui quelle contro i turchi) per trattare la Lombardia più che come un cespite di tassazione onde finanziare i suoi conflitti, e la tassazione non fu meno feroce di quella che aveva imposto Madrid; come conseguenza, le industrie locali conobbero crisi dopo crisi. La miseria aumentò, al punto che le strade extra-urbane lombarde conobbero un fenomeno prima ignoto, il brigantaggio.
Maria Teresa, salita sul trono, trovò una Lombardia economicamente rovinata. Ma era ben decisa a far fruttare al meglio quel suo possedimento ben dotato di competenze umane e qualità geografiche: esso aveva reso a Madrid fino a 1,5 milioni di ducati l’anno, poteva tornare a dare altrettanto e anche più per gli Absburgo. A questo scopo, ordinò la riforma del catasto. Una riforma semplice e lineare. L’imperatrice voleva sapere chi possedeva ogni singolo pezzo di terra, in modo da poterne estrarre il tributo.
L’amministrazione austriaca affidò il compito a un fiorentino, Pompeo Neri, che impiegò un decennio a districarsi nell’inferno di manomorte, eredità indivise e contestate, diritti demaniali locali in conflitto, esenzioni clericali, ipoteche incerte e fondi abbandonati ed altre intrattabili eredità dell’incuria o dell’avidità ispanica. Ma nel 1760, finalmente, l’amministrazione imperiale seppe quali fossero i legittimi proprietari di ogni parcella, e con precisione mitteleuropea ne accertò il valore patrimoniale.
Per legge imperial-regia, fu stabilito che ogni pezzo di terra doveva rendere il 4% del valore accertato in catasto: fu quello – ci si tenga forte – l’imponibile su cui i padroni dovevano pagare l’imposta.
Si intenda bene. Chi non riusciva a far rendere i suoi fondi più di quel 4%, doveva pagare ugualmente, e avrebbe finito per dover vendere i terreni onde saziare il fisco. Ma chi riusciva a far rendere i suoi possedimenti più di quel 4%, si teneva il resto esente da imposte.
Fu dunque creato un incentivo potentissimo a far fruttare i fondi, modernizzandoli. I signori e i nobili di Milano avevano tutti qualche latifondo. E i latifondi si coprirono di mulini, di cascine per coltivazioni pregiate e specializzate, di canali d’irrigazione, di essiccatoi e di allevamenti. Annesse le cascine lombarde, che occupavano decine di famiglie lavoratrici (erano già fabbriche-alloggi) che affibbiavano ad esse nomi un tempo tristemente famosi – Malpaga, Mal(com)pensa –, sorsero filatoi, poi officine tessili che stampavano anche la seta locale, e infine il cotone importato; annesse ad altre cascine, sorsero caseifici e concerie; rinacque l’antica industria del baco da seta, con le contadine-operaie a manovrare i telai e alla cernita dei bozzoli nelle filande coontigue.
I proprietari terrieri lombardi ebbero l’intelligenza di capire che conveniva loro – anzichè affidarli a fattori e amministratori – occuparsi direttamente della produzione, dell’acquisto dei macchinari e degli affari di quel loro settore agro-industriale, e ci presero gusto. Tanto più che l’accumulo primario di capitale fu favorito non solo dalla generosissima esenzione fiscale di fatto, ma dai dazi protettivi che Vienna impose e che allora si ritenevano indispensabili per far rinascere economie in rovina (il Washington Consensus e i divieti del liberismo totale erano di là da venire).
Il libero commercio vigeva, ovviamente, all’interno dell’impero. Verrà così il tempo in cui i capitalisti lombardi, con le loro industrie così fortemente legate al prodotto agricolo, risentiranno della concorrenza delle provincie più avanzate, a cominciare da quella Praga dove già la Skoda produceva macchine e macchinari, e altre fabbriche avanzate nella chimica e nella meccanica. Questo scontento alimenterà il patriottismo anti-austriaco dei lombardi, ben consci che, se nell’impero multinazionale non erano che una provincia non troppo eccellente, nell’Italia unita (e arretrata) sarebbero stati i primi.
Ad onore dei capitalisti lombardi, va detto che dopo l’indipendenza non dormirono sugli allori: l’alta borghesia milanese si volle impadronire dell’innovazione tecnologica estera. Pagò di tasca sua il Politecnico e la Società d’Incoraggiamento Arti e Mestieri (SIAM), che fu la fucina di generazioni di operai-imprenditori (uno fu Ercole Marelli). Nel 1867, l’Associazione Industriale si propose per statuto di «promuovere in Italia l’istituzione della Banche Popolari, dei magazzini cooperativi e delle società di mutuo soccorso onde stimolare l’operosità» delle classi popolari nonchè di «promuovere le industrie locali e specialmente le piccole».
Ci sarà un imprenditore di nome Carlo Erba che verserà di suo 400 mila lire per creare la Scuola speciale di elettrotecnica, di cui l’industria lombarda capiva di aver bisogno. E un rettore del Politecnico, Giuseppe Colombo, che pagherà di tasca sua un ingegnere promettente, di nome Giovan Battista Pirelli, perchè andasse all’estero a studiare l’industria della gomma, di cui Colombo prevedeva un grande futuro. Parimenti, Franco Tosi, allievo del Colombo, fu incoraggiato dal rettore ad andare a studiare al più avanzato politecnico di Zurigo; un altro giovane ingegnere, Ernesto Breda, sarà mandato a completare gli studi tecnici in Germania e Danimarca.
Uno spirito patriottico, ma anche robustamente cattolico, muoveva molti di quegli imprenditori; fu grazie a loro se l’ospizio degli orfanelli (Martinitt) divenne una scuola di operai specializzati mantenuta dalla solidarietà cittadina, mentre non trascuravano «l’urgenza di adeguare il sistema di istruzione superiore alle nuove caratteristiche che lo sviluppo economico e sociale della città aveva assunto».
Questo modo e stile di capitalismo imprenditoriale, privato e solidale insieme, ripeto, è un unicum nella Penisola; le industrie che naquero altrove, per esempio sotto i Borboni, o in Piemonte, nacquero per impulso dello Stato e come imprese di Stato, per carenza – immagino – di capitalisti. Non a caso la figura dei capitalisti senza capitale, protetti contro i loro meriti da consorzi bancari e da complicità reciproche, aduggia la storia dello sviluppo storico italiano.
E tuttavia, anche il capitalismo lombardo – ammesso che ne esista un resto integro – non possiede le dubbie qualificazioni oggi richieste dalla globalizzazione, e in cui eccellono gli anglo-americani (ed ebrei): la capacità di creare, manipolare e spacciare simboli monetari e loro surrogati sempre più astratti, lo spirito di saccheggio e la mobilità estrema nel cogliere le occasioni di profitto, la spregiudicatezza e l’indifferenza alla produzione concreta di beni, per non dire all’equità sociale. Può essere che il fatto di essere nato dalla terra, dalla trasformazione industriale dell’agricoltura, mantenga nei capitalisti lombardi certi caratteri di solidità e di prudenza, di concretezza ma anche di relativa lentezza?
Joseph Conrad
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Mi è parso di cogliere la fondamentale diversità del capitalismo britannico finanziario in alcuni articoli che Joseph Conrad, questo polacco che si fece britannico per amore della navigazione, pubblicò sul Daily Mail nel marzo 1904. Conrad vi rievoca i tempi, ormai agli sgoccioli, della marineria commerciale a vela; gli epici tifoni, le avarie e naufragi che lui stesso affrontò, le centinaia di alberature che affollavano ancora i docks e i bacini del Tamigi, clipper come gabbiani prigionieri fra magazzini e fondaci. Erano i tempi in cui familiari di marinai e armatori e finanzieri della City leggevano – con occhi e cuore diversi – gli annunci della Shipping Gazette dei Lloyds: l’elenco delle navi incontrate da altre navi negli oceani (sotto la rubrica «Comunicazioni alla voce», non esistevano ancora radio e telegrafo), di cui venivano segnalate «nome, porto, provenienza, destinazione, da quanti giorni in viaggio».
Poi, si leggeva la lista delle rubrica « Naufragi e perdite», sempre piuttosto lunga, dato che finchè si andò per mare a vela, andava perduto fino al 15% per navigli. Più drammatica ancora, la lista dei clipper «in ritardo» (overdue). Famiglie «disposte a sperare contro ogni speranza coraggiosamente, tre settimane, un mese», temevano poi che il nome della nave in ritardo apparisse un giorno o l’altro nell’ultima rubrica: «Disperse».
La formula era più o meno così: « Il brigantino a palo Tal dei Tali, proveniente dal porto tale, con carico tale, con destinazione tale, salpata alla tale data, con cui si è comunicato alla voce in mare il tal giorno, e di cui non si è più avuta notizia, è stato oggi registrato come disperso».
Decine di famiglie, negli abituri anneriti dai fumi industriali inglesi, precipitavano in un silenzioso dolore. Perchè « una nave ‘dispersa’ – scrive Conrad – non si è mai più vista, almeno a memoria dei marinai della mia generazione».
Al contrario, quelle che la Shipping Gazette segnala come « in ritardo», accende «la speculazione sul mercato dei rischi marittimi»; si fanno avanti i riassicuratori, «questi ottimisti della sfortuna e del disastro», che si offrono di alleviare il danno imminente dell’assicuratore del brigantino «in ritardo» contro un forte premio. Capita, infatti, che qualche nave registrata come «in ritardo» riappaia qualche giorno dopo come «arrivata», o addirittura «arrivata senza danni». I cuori delle donne e i figli dei marinai sobbalzano, i petti si sollevano; abbracci, lacrime, racconti di burrasche senza fine, ghiaccio, marosi schiumanti e venti ostinati seguiranno. Ma alla City, «il riassicuratore si à una manata di soddisfazione alla tasca, mentre l’assicuratore si duole del suo prematuro pessimismo»: per loro è solo finanza, e rischio finanziario.
Riassicurare una nave « in ritardo» è come comprare junk-bonds o qualunque titolo derivato più sintetico escogitato dall’inventiva insaziabile della ingegneria finanziaria; un sovrabbondante «capitale di rischio» e di ventura si può assumere anche questi azzardi estremi, perchè il profitto eventuale, il possesso di una nave e del suo carico, lo giustifica ad oltranza.
Acquistare o vendere Bond di Stati o imprese sull’orlo della bancarotta al 30% del loro valore facciale, Credit Default Swaps come scommesse sulla insolvenza finale di Grecia o Irlanda, spacciare Collateralized Debt Obligations che si reggono sulla scommessa che migliaia di semi-insolventi dai redditi bassi pagheranno i ratei del mutuo o delle carte di credito... tutto ciò somiglia molto al riassicurare un clipper « in ritardo»; nulla produce il capitalista, il suo guadagno del 400% o più, è la «ricompena del rischio» puro.
Capitalismo di terra e capitalismo di mare: Carl Schmitt ha scritto pagine ammirate e agghiacciate su queste « schiume dei mari» del British Empire.
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