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Bush apre all’Iran!?
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Nei suoi ultimi  giorni di vita, l’Amministrazione Bush apre all’Iran: per la precisione, aprirà una «interest section» a Teheran, e sta selezionando il diplomatico da mettere a capo della postazione. Una «interest section» non è un’ambasciata, e il diplomatico che la capeggerà sarà un incaricato d’affari. Ma è dal 1980 che Washington ha rotto le relazioni diplomatiche con Teheran; quell’anno fanatici iraniani, con l’appoggio del regime degli ayatollah, occuparono l’ambasciata USA per molti mesi, prendendo ostaggi i dipendenti (1).

Ufficialmente, la sezione d’affari americana dovrà «facilitare gli scambi culturali, rilasciare visti per iraniani che intendano visitare gli Stati uniti, e impegnarsi in diplomazia pubblica onde presentare un’immagine migliore degli USA» (sic).

Negli ambienti del potere iraniano, si teme che questo dono serva agli americani a meglio tramare in Iran, magari a prendere contatti con le varie minoranze etnico-religiose ribelli del Paese.

La diffidenza non è immotivata: dopo otto anni di minacce di bombardamento, questa «apertura» insospettisce.

Quando la cosa fu ventilata nel luglio scorso a New York, il ministro degli Esteri persiano Manoucher Mottaki replicò che l’Iran avrebbe chiesto qualcosa in cambio, l’approvazione della richiesta di voli diretti Teheran-New York.

Ma soprattutto, l’Amministrazione Bush annuncerà ufficialmente l’apertura delle sede sub-diplomatica a Teheran a metà di novembre, ossia dopo le elezioni presidenziali, quando George W. Bush non sarà ormai che in carica per gli affari correnti (vi rimarrà fino a gennaio).

Barak Obama ha spesso criticato Bush per «non voler parlare coi nemici», e - è un elemento tipico della sua campagna elettorale - ha sempre proclamato che lui, da presidente, avrebbe aperto colloqui diretti con chiunque, anche con Ahmadinejad.

Una posizione che McCain, il candidato repubblicano, ha ridicolizzato costantemente come prova della «inesperienza» di Obama in politica estera. Lui  stava fermo alla  dottrina internazionale dettata dai neocon: «Bomb, bomb, bomb Iran».

Il mutamento di politica di Bush verso Teheran, in extremis, assume dunque un significato enigmatico dal punto di vista interno. Danneggia McCain (ma ormai è dato per perdente); vuole condizionare le future azioni di Obama? C’è sotto qualcosa d’altro?

L’ipotesi più benigna è che alla fine, e dopo tante posture belliciste, il dipartimento di Stato abbia preso atto di quell che molti osservatori ripetono da anni: non si può stabilizzare l’Iraq senza coinvolgere in qualche modo l’Iran.

Nel luglio scorso, rompendo con la sua dottrina «non parliamo con il nuovo Hitler», la Casa Bianca ha inviato il vicesegretario di Stato William Burns a Ginevra, a partecipare al tavolo di colloqui sul nucleare cui partecipavano sei Paesi, fra cui diplomatici persiani.

Per questo motivo Ehud Olmert - almeno a credere a quanto ha rivelato Debka File in agosto (2) - inviò allora una «veemente» protesta segreta al presidente George W. Bush, in cui gli diceva: Israele non è stata preavvertita dello strategico riavvicinamento americano a Teheran; questo passo viola «le intese fra USA e Israele sull’Iran stilate l’anno scorso».

Nella vibrata protesta, assicura Debka, Olmert ripeteva la nota posizione israeliana: Teheran sarà in grado di farsi la prima testata atomica «all’inizio del 2009».

Sempre secondo Debka (che è un’agenzia di disinformazione vicina al Mossad, o almeno a una sua fazione) Bush non ha risposto mai al messaggio, anzi il Pentagono si rifiutò di considerare le «prove» dei progressi nucleari iraniani portate dal generale Gabi Askhenazi, capo dello Stato Maggiore israeliano, in visita a Washington pochi giorni dopo. E intanto, il 26 luglio, Time Magazine pubblicava un’intervista ad Efraim Halevi, capo del Mossad fino al 2002, dove costui diceva che un attacco israeliano all’Iran «ci danneggerà per cento anni».

Ma d’altra parte, un certo «Bipartisan Policy Center», composto da senatori  democratici come repubblicani, ha appena emanato una «valutazione della minaccia nucleare iraniana» che ha offerto ai due candidati presidenziali come «guida» sull’atteggiamento che il nuovo presidente dovrà tenere verso Teheran.

In questo documento si ripete che «l’Iran sarà pronto a costruire la sua prima bomba  quando il nuovo presidente sarà insediato da appena un mese» (3). E dunque, chinque sia il presidente, «bom bomb bomb Iran».

E’ lo stesso Debka File ad associare questo documento alla «profezia» del senatore Joe Biden, vicepresidente candidato, secondo cui «non passeranno sei mesi prima che il mondo metta alla prova Barak Obama come fece con John Kennedy».

Conclude Debka: «Questo nuovo sviluppo obbligherà il nuovo presidente USA a prendere decisioni senza un giorno di tregua nell’Ufficio Ovale, fin dal primo giorno. Dovrà determinare quali misure urgenti servano a tenere fuori dalle mani della repubblica islamica una bomba atomica, se diplomatiche o militari, e come procedere se queste misure falliscono. E’ per la sua conoscenza di questa minaccia che il senatore Joe Biden ha detto a Seattle: “Ricordate  che vi ho detto questo: avremo una crisi internazionale, una crisi generata, per mettere alla prova la stoffa di quest’uomo”. Anche i capi politici e militari d’Israele sono di fronte ad un duro dilemma - prosegue Debka - che non può essere più rimandato: se colpire le installazioni nucleati dell’Iran militarmente nei tre mesi tra le due presidenze USA, prima che si chiuda l’ultima finestra, e prendere il rischio di coordinarsi con il prossimo presidente».

Se questo è vero, ora sappiamo quale potere superiore ha ordinato e deciso la imminente «crisi generata» per mettere alla prova il nuovo presidente.

Frattanto, si moltiplicano le voci su una misteriosa malattia di Ahmadinejad. Il capo del governo iraniano è assente ormai da tre settimane dalla vita politica, al punto che  una riunione di gabinetto ha dovuto tenersi senza di lui, che non è apparso alla cerimonia in onore di un importante ayatollah, e ha cancellato vari discorsi in pubblico già programmati. Un suo braccio destro ha detto ai giornalisti che Ahmadinejad è «indisposto».

Shahab News, un sito web iraniano, ha precisato che soffre di estrema debolezza dovuta alla «bassa pressione sanguigna», e che la malattia dura almeno da maggio (4). Son tutti sintomi che possono far pensare ad un avvelenamento da radiazioni (forse non doveva andare alla seduta dell’ONU a New York).

Nei giorni scorsi, un giornale iracheno ha sostenuto che anche Nasrallah, il capo di Hezbollah, sarebbe stato avvelenato con una potente sostanza chimica, e salvato in extremis da medici iraniani. Hezbollah ha smentito la notizia.

Certo il tempo stringe per la sfiancata superpotenza americana.

Sull’ufficialissimo Quotidiano del Popolo è apparsa un’accusa precisa: «Gli USA hanno saccheggiato le ricchezze del mondo grazie alla dominanza del dollaro».

L’autore, Shi Jannxun, è docente di economia all’università Tongji di Shangai. Da sempre molto critico verso gli USA, è la prima volta che viene ospitato con questo rilievo dall’organo ufficiale del Partito.

«Le nazioni stanno perdendo la fiducia nel dollaro», scrive il professore, «la comunità internazionale, agendo secondo le regole della democrazia e del diritto nel quadro di un’organizzazione mondiale della finanza, deve con urgenza trasformare il sistema monetario internazionale basato sulla leadership degli USA e l’egemonia del dollaro».

La crisi finanziaria made in USA sta cominciando a mordere l’economia cinese.

Almeno 2,7 milioni di lavoratori nel laborioso meridione cinese, Guangzhou, Dongguan, Shenzhen, rischiano di essere licenziati per il capodanno cinese (fine gennaio) a causa del calo brutale della domanda mondiale per elettronica, giocattoli e vestiario da poco prezzo. Sulle 45 mila imprese della zona, 9 mila dovranno chiudere, secondo la Dongguan City Association of Enterprises with Foreign Investment; la domanda è calata del 30%.

Il regime di Pechino, il cui consenso è basato sulla promessa di benessere, può essere travolto dalla protesta sociale che la recessione e i licenziamenti provocheranno, dice Eddie Leung, il portavoce della suddetta associazione.

Ora, Pechino è anche il maggior acquirente dei titoli di debito USA; siede su enormi riserve in dollari, il cui valore vede calare di giorno in giorno. E fa sapere che si è stancato di finanziare quel cliente-debitore che «ha saccheggiato la ricchezza del mondo col dollaro».

Il professor Shi Jianxun propone, dal Quotidiano del Popolo, che gli scambi fra Europa ed Asia avvengano ormai in euro, yen e yuan. Se questo avvenisse, il crollo del dollaro - e la bancarotta dello Stato americano - sarebbe questione di ore.

Anzi, alcuni prestatori già stanno fuggendo. Le vendite a investitori esteri di obbligazioni a lungo termine americane, ad agosto, non sono state più di 14 miliardi di dollari. Molto, molto lontano dai 55 miliardi di dollari al mese di cui gli USA hanno bisogno solo per il consumo di merci estere.

Fra gli investitori privati, anzi, gli acquisti sono stati «negativi» per 8,8 miliardi; il che significa che solo le Banche Centrali stanno acquistando dollari e titoli in dollari per tenere artificialmente a galla la moneta della (ex) superpotenza, e scongiurare un collasso che travolgerebbe il mondo.

Ciò significa, soprattutto, che mancano i fondi per il settore privato americano, spiazzato dall’insaziabile richiesta di finanziamento del debito pubblico.

Quando si pensa al settore privato USA, vengono in mente i colossi: Boeing, Microsoft, Exxon. Non è vero. Il 98% delle imprese americane hanno meno di 100 dipendenti. Sono 27 milioni di aziende  che occupano il 56% della popolazione attiva, che finora hanno creato il 90% dei nuovi posti di lavoro, prodotto il 90% dell’export e dell’innovazione USA.

Ora, per legge, il 23% del valore dei contratti stilati dal governo federale dovrebbe andare a piccole imprese, in appalto o sub-appalto (con tanti saluti al «non-intervento statale»). Risulta invece che gran parte di questi contratti vengono accaparrati dalle grandi corporation: almeno il 50% dei 70 miliardi di dollari. Questo avviene per una politica deliberata dell’Amministrazione Bush, amica solo del Big Business (5).

La rovina è imminente. E’ dunque urgente «generare» una «crisi internazionale», ultimo guizzo per uscire dal buco nero.




1) Warren Strobel, «Bush to seek diplomatic presence in Iran», Seattle Times, 23 ottobre 2008.
2) «In secret note, Olmert says Bush has ditched Israel on Iran threat», Debka File, 2 agosto 2008.
3) «Meeting the challenge – US policy toward Iranian nuclear development», http://www.bipartisanpolicy.org/ht/a/GetDocumentAction/i/8448, settembre 2008.
4) «Rumors flurry about Ahmadinejad’s health following event cancellations», Haaretz, 25 ottobre 2008.
5) «Bush Dismantles Economic Programs for Small Business as Economy Continues Downward Spiral», United Business Media, 23 ottobre 2008.


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