No, non sono antisemita
22 Ottobre 2009
«Antisemitismo» è appunto un termine del genere. Non serve a definire,
quanto a screditare e demonizzare, perchè ognuno che viene etichettato
«antisemita» è automaticamente associato a «nazista» e a «razzista», in
un amalgama massicciamente adottato dal conformismo e dai media,
guardiani dei limiti del politicamente corretto. In più, assistiamo
ogni giorno all'evidente sforzo di catalogare come «antisemita» ogni
critica ad Israele, anche la più giustificata.
Il lancio della parola «antisemitismo», parola tabù, mira ad intimidire
e ad imporre il silenzio. Occorre un motivato coraggio per sfidare
questo tabù e rivendicare il diritto di critica. Un coraggio di cui
nessuno ci è grato, visto che anche qualche lettore (cedendo al
conformismo ambientale) trova dell'antisemitismo nelle nostre a volte
veementi critiche ad Israele e ai suoi alleati neocon americani.
Suggerirei di non usare con leggerezza irresponsabile un termine tanto
demonizzante e carico di conseguenze. Ai lettori in buona fede, per
parte mia, vorrei cercare di spiegare la mia posizione, delimitando
nello stesso tempo il termine nei suoi confini legittimi.
Il sottoscritto non è antisemita. Rifiuta per sè questa definizione,
come rifiuta quella di «razzista» che le equivale, o di «nazista» che
vi aleggia attorno. Una ohimè lunga esperienza di vita e di popoli
diversi ha insegnato a chi scrive che i caratteri «razziali», ammesso
che esistano, sono secondari e insignificanti. In ogni caso, non sono
mai decisivi.
Ciò che è decisivo nell'unire e nel dividere uomini, nazioni e collettività, non è la (presunta) razza, bensì la cultura.
La cultura intesa nel senso più vasto ed elementare: l'insieme di
credenze, convinzioni, atteggiamento di fronte al mondo e agli altri
uomini che i genitori trasmettono ai figli, o che intere comunità
trasmettono ai loro membri. Nella vita sociale o politica, non si ha
mai a che fare con «razze», ma con «mentalità» e visioni del mondo: e
lo scontro e l'incontro avvengono qui, a livello culturale. Accade che
mentalità e culture siano inconciliabili con quelle di altri gruppi;
accade che siano pericolose, e persino intollerabili per la civiltà, e
debbano essere per questo combattute.
Prendiamo il caso di una comunità che imprima ai suoi membri l'idea di
essere «superiori» rispetto all'intera famiglia umana; e che lo faccia
da millenni, basando la sua superiorità su un libro sacro, fino al
punto che i suoi sacerdoti e teologi possano chiamare gli altri uomini
«animali parlanti», ed elaborare una escatologia (una dottrina dei
tempi ultimi) in cui tutti coloro che non sono della comunità saranno
ridotti a servi degli eletti, o loro animali da soma e da lavoro. In
questa comunità, i genitori insegneranno ai figli il disprezzo degli
altri esseri umani, non appartenenti al gruppo (etnia) eletto e
privilegiato.
Vi si praticherà l'endogamia più rigorosa, su base razziale. Vi si
predicherà l'autosegregazione dei «puri» dagli impuri altri umani: e
tale segregazione verrà di fatto praticata, quando se ne abbia la
forza, con ogni mezzo, anche costruendo un enorme muro attorno al
proprio Stato. Dovunque questa comunità domini, tenderà a costituire un
sistema di apartheid, e di oppressione dei soggetti e dei vinti.
Una tale comunità finirà per coltivare una ostilità radicale contro i
popoli fra cui vive o su cui domina, a non sentirsi responsabile del
comune destino, a rigettare ogni giudizio degli «inferiori» e degli
«impuri» sugli eletti. Una tale comunità rifiuterà l'obbedienza ad un
sistema giuridico universale, non riconoscerà un diritto «delle genti»,
nè la pari dignità di ogni essere umano. Una sorta di gigantesco
egoismo e narcisismo «etnico», di auto-adorazione, sarà la bolla
psichica in cui vivrà questa comunità «eletta».
Secessionismo, particolarismo, oppressione (e magari sterminio degli «altri») saranno la nota dominante di tale comunità.
Il loro Dio sarà un dio nazionale, esclusivo, separatista, che promette
salvezza e pienezza al solo popolo «eletto», con esclusione di tutti
gli altri. Se tale comunità esiste, sarà obbligatorio combatterla. Non
sterminarla, ma combatterne la mentalità, forzarla a rettificare il suo
sistema di credenze, criticare il suo modus operandi, nella speranza
che essa torni a confluire nella famiglia umana.
Perché combatterla? Perchè questa comunità, se è o diviene potente, è
pericolosa per la civiltà quale noi la conosciamo e la vogliamo.
Occorre ripetere (visto che la nozione di civiltà sta diventando
confusa) che cosa sia per noi la civiltà?
Essa si fonda su una «cultura» politica che è l'esatto contrario del
secessionismo mentale, del particolarismo razziale di quella comunità
«eletta»: la generosa forza di Roma, illuminata e portata a compimento
dalla luce di Gesù il Messia.
Occorre ricordare che cosa fu per Roma la guerra: non mai (salvo
qualche feroce eccezione) lo sterminio di nemici irriducibili, bensì al
contrario, il preludio all'associazione dei vinti nel potere e nella
responsabilità di Roma. Il nemico di oggi fu colui con cui si sarebbe
dovuto convivere domani; e non in regime di apartheid. Ogni popolo
vinto fu poi fornito da Roma di uno status giuridico assai preciso - e
la precisione ne indicava anche i limiti entro cui poteva esercitare
con sicurezza la libertà – e migliorabile col tempo. Il nemico vinto,
inizialmente soggetto e tributario, veniva poi sollevato al rango di
alleato (socius) a vario titolo e con diversi limiti (giuridicamente
definiti) e poteva aspirare a quello superiore e supremo: di «cives
romanus».
Il segreto del potere di Roma fu proprio questo: di non riconoscere mai
nemici radicali ed eterni, né «inferiori» o «impuri» assoluti.
Contrariamente a quel che crede il conformismo corrente, Roma regnò
meno con la forza delle armi che con la pace. Non ebbe molti nemici,
perché ogni nemico di Roma sapeva che Roma l'avrebbe chiamato, prima o
poi, a partecipare al potere romano: senza distinzione di «razza» (cui
Roma fu sempre indifferente), ma a patto che – a fianco della propria
cultura etnica e particolare – il vinto accettasse la cultura di Roma.
Che era, precisamente, la sua universalità. Roma chiamò «genti diverse
a fare qualcosa di grande insieme»; represse con forza le genti
renitenti alla chiamata, ma aprì generosa ogni porta a chi, capendone
la grandezza, l'accettava. Non escluse alcuna razza dalla
partecipazione al potere romano. Nel 200 dopo Cristo, Roma estese la
cittadinanza a tutti, a ciascun abitante del suo impero: aprendo a
ciascuno e a tutti le cariche, locali e centrali, militari e civili,
senza discriminazione alcuna.
Così, si capisce perchè il cristianesimo potè innestarsi sul vecchio
tronco di Roma. Gesù l'ebreo contrastò e spaccò il particolarismo
ebraico, dichiarando la salvezza universale di tutti gli uomini.
Assicurò che il Padre non voleva che «alcun peccatore perisca, ma che
si converta e viva»: frase perfettamente iscrivibile nella politica
romana, il cui scopo non fu lo sterminio dei nemici, ma la loro
«chiamata» nella romanità. Paolo, ebreo, disse che dopo Cristo «non c'è
più nè giudeo né greco».
Non gli venne affatto in mente di aggiungere «nè romano». Perché
«giudeo» o «greco» erano etnie, «romano» era invece uno stato giuridico
che prescindeva da razze e particolarismi; diventando cristiani, non si
cessava di essere «romani», ossia cittadini e corresponsabili della
civiltà, del diritto, della cultura universale. E responsabili anche
della sua difesa militare.
Questa è ancor oggi la civiltà: quella a cui dobbiamo tendere su scala
globale, anche se la sua costruzione è imperfetta e conosce oggi un
fatale oscuramento. Fa parte della civiltà («romana», e ancor oggi
nostra) che l'esercizio del potere sia aperto e leale, ossia legittimo,
e non già dietro le quinte ed occulto: perchè questo secondo tipo di
esercizio non è responsabile. Chi comanda non apertamente, ma
occultamente con complotti, non si assume responsabilità delle sue
azioni, si sottrae al giudizio del resto degli uomini. Questo sistema
di governo occulto non può che essere conseguenza, e provocare,
un'idea di esseri «eletti» e separati che manipolano e strumentalizzano
altri, spregiati come «animali parlanti».
Ho parlato di ebrei? Ho parlato dell'ebraismo come «cultura», oggi
particolarmente potente e pericolosa. So che esistono ebrei che si
oppongono a questo ebraismo egemone, e li ammiro: oltre al coraggio di
sfidare le loro autorità, hanno il coraggio di sfidare in se stessi la
mentalità e la loro «cultura» etnica, e so quanto questo sforzo costi,
fino all'eroismo.
Il fatto che proprio loro vengano privati del diritto alla parola, nell'Israele odierno, ci dice però che essi sono minoranza.
Dovremmo aiutarli a parlare e a denunciare l'ebraismo talmudico, per
quello che ha di secessionismo spirituale, di disprezzo degli altri (e
a cosa porti questo disprezzo lo sanno gli oppressi umiliati
palestinesi), di razzista. Per intanto lo fa, modestamente e a suo
pericolo, il sottoscritto. Ecco perché non sono, e non voglio esser
chiamato, «antisemita».
Io voglio che tutti gli ebrei vivano. Voglio poterli non riconoscere
più come ebrei (perché la razza è insignificante), ma come cittadini
della comunità umana, responsabili, aperti, leali cittadini e anche
governanti del potere mondiale. Più a fondo, voglio la loro liberazione
dalla catena talmudica, che li fa segregati e segreganti, che li
obbliga a vivere nella paura.
In che consista questa liberazione l'ha detto molto meglio di me Israel
Shamir, grande e coraggioso «giudeo» di nascita, divenuto cristiano
ortodosso: lui si dichiara uscito «dalla paranoia dell'odiare ed essere
odiato» e di essere andato verso la gioia «di amare ed essere amato».
Roma e Cristo: chi l'adotta non ci perde nulla, non deve rinunciare alla sua etnia, e guadagna tutto.
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