Martini, Milingo e San Benedetto
20 Novembre 2008
Le cronache dei giorni passati hanno giustamente messo alla ribalta un nuovo «colpo» del cardinal Martini.
Francamente il nuovo libro («Conversazioni notturne a Gerusalemme, testo a quattro mani, con Sporschill Georg») del celebre gesuita non dovrebbe sorprendere più di tanto.
Sono anni ormai che l’alto prelato scrive indisturbato cose che forse farebbe meglio a tacere, perché svelano il tormento di un’anima dilaniata, convinta di un credo certamente differente da quello della porpora che indossa.
Parla infatti di un Dio «al di là» del Dio cattolico, adducendo quale rischio della fede, la ristrettezza della mente del cattolico (anche semplice praticante) che «si illuda» (nel pensiero del cardinale) di comprendere qualcosa del Mistero dell’Altissimo, seguendo il perenne Magistero della Chiesa.
Il cardinal Martini presume di poter ritenere non soltanto necessario, ma anche sufficiente la singola esperienza dell’individuo, che, formatosi sulla lettura dei Testi sacri (prescindendo da qualunque ammonizione dei santi Padri, della Tradizione e del Magistero stesso), riesca,«pensando biblicamente», a superare i ristretti confini dell’insegnamento ecclesiastico; questo postulato implica una irrinunciabile premessa implicita: la sequela della Chiesa comporta necessariamente una mortificazione delle facoltà dello spirito; Dio non può essere relegato negli stretti confini di un’intollerante teologia assolutistica.
Siamo obbligati a precisare.
Se è vero che Dio è sempre al di là di ogni umano pensiero, è pur vero che quel che di Lui si conosce per Rivelazione, saggiamente e prudentemente interpretata dalla Chiesa, è la Verità; si tratta di una verità che in se stessa chiede il superamento del limite razionale e si proietta nel Mistero di un vivere che va oltre ogni valutazione o ponderazione del pensiero.
Ma - lo abbiamo già affermato in altre occasioni! - l’apofatismo assoluto è un affronto alla medesima santa Rivelazione; se Dio non fosse conoscibile - seppur in maniera limitata e, se si vuole, parziale (come in uno specchio, dice San Paolo) - non avrebbe neppure «perso il tempo» a rivelarsi!
E se tale Manifestazione dell’Essere non fosse garantita da un’infallibilità non soltanto redazionale (ispirazione dello Spirito Santo, all’atto della stesura), ma anche interpretativa (tale cioè da garantire, attraverso un’Istituzione assicurata in modo costante della presenza di tale infallibilità,
il corretto ed univoco significato degli enunciati ivi proclamati), sarebbe vanificata in se stessa.
Questa conclusione - che discende direttamente dalle medesime premesse, che si evincono, dalle asserzioni del cardinal Carlo Maria Martini) - implica un capovolgimento delle convinzioni espresse dal gesuita: «pensare biblicamente» in definitiva consisterebbe nel non credere nell’ispirazione soprannaturale (Divina) della Sacra Scrittura.
Questa incoerenza, logicamente imperdonabile, lascia perplesso il semplice, che per avventura si dovesse imbattere nel testo del prelato.
Forse sembrerà fuori luogo, ma l’accaduto richiama alla memoria i non più tanto recenti avvenimenti di un altro alto prelato noto alle cronache: monsignor Milingo.
L’errore tragico di questo arcivescovo, al di là di tutto, più che gettarsi tra le braccia dell’agopunturista, è stato quello di avvicinare una setta come quella di Moon (di cui forse scriveremo in seguito), che delegittima ogni sua pur parzialmente corretta considerazione teologica e/o pastorale.
Il richiamo alla figura dell’arcivescovo africano è istintivo nella mente di chi vorrebbe applicata la stessa misura e lo stesso peso nella vicenda «Martini».
Il cardinale infatti è troppo tempo (lo scrivo da fedele che vorrebbe avere un po’ più di fermezza dagli alti vertici nella condanna dell’errore e dell’eresia) che proclama il proprio vangelo ai quattro venti, rilasciando interviste temerarie e pubblicando testi subdoli e forieri di confusione.
Come, giustamente (anche se me ne dispiace per la sorte del prelato africano), l’arcivescovo Milingo è stato punito e scomunicato per una «debolezza nella carne», in fin dei conti!, così il cardinal Martini venga per lo meno solennemente tacitato per un’ingiuria alla Fede (che è cosa molto più grave!).
Ricordo a chi di dovere il monito di San Benedetto, il quale ammonisce l’abate di riprendere e correggere l’errore e che ricorda il destino di coloro che non si curano a dovere delle anime loro affidate.
Parole semplici, ma rigorose, di una grande sapienza e genialità, che dovrebbero far riflettere chi è chiamato, secondo le circostanze che Dio solo conosce, a metterle in pratica, anche nella vita della Chiesa.
Invitiamo, in chiusura, i lettori a leggere con attenta riflessione il seguente brano tratto dalla Regola di San Benedetto; bellezza spirituale ed essenzialità.
Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere
«
Prima di tutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze;
poi il prossimo come se stesso.
Quindi non uccidere,
non commettere adulterio,
non rubare,
non avere desideri illeciti,
non mentire;
onorare tutti gli uomini,
e non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi.
Rinnegare completamente se stesso, per seguire Cristo;
mortificare il proprio corpo,
non cercare le comodità,
amare il digiuno.
Soccorrere i poveri,
vestire gli ignudi,
visitare gli infermi,
seppellire i morti;
alleviare tutte le sofferenze,
consolare quelli che sono nell’afflizione.
Rendersi estraneo alla mentalità del mondo;
non anteporre nulla all’amore di Cristo.
Non dare sfogo all’ira,
non serbare rancore,
non covare inganni nel cuore,
non dare un falso saluto di pace,
non abbandonare la carità.
Non giurare per evitare spergiuri,
dire la verità con il cuore e con la bocca,
non rendere male per male,
non fare torti a nessuno, ma sopportare pazientemente quelli che vengono fatti a noi;
amare i nemici,
non ricambiare le ingiurie e le calunnie, ma piuttosto rispondere con la benevolenza verso i nostri offensori,
sopportare persecuzioni per la giustizia.
Non essere superbo,
non dedito al vino,
né vorace,
non dormiglione,
né pigro;
non mormoratore,
né maldicente.
Riporre in Dio la propria speranza,
attribuire a Lui e non a sé quanto di buono scopriamo in noi,
ma essere consapevoli che il male viene da noi e accettarne la responsabilità.
Temere il giorno del giudizio,
tremare al pensiero dell’inferno,
anelare con tutta l’anima alla vita eterna,
prospettarsi sempre la possibilità della morte.
Vigilare continuamente sulle proprie azioni,
essere convinti che Dio ci guarda dovunque.
Spezzare subito in Cristo tutti i cattivi pensieri che ci sorgono in cuore e manifestarli al padre spirituale.
Guardarsi dai discorsi cattivi o sconvenienti,
non amare di parlar molto,
non dire parole leggere o ridicole,
non ridere spesso e smodatamente.
Ascoltare volentieri la lettura della parola di Dio,
dedicarsi con frequenza alla preghiera;
in questa confessare ogni giorno a Dio con profondo dolore le colpe passate
e cercare di emendarsene per l’avvenire.
Non appagare i desideri della natura corrotta,
odiare la volontà propria,
obbedire in tutto agli ordini dell’abate, anche se - Dio non voglia! - questi agisse diversamente da come parla, ricordando quel precetto del Signore: ‘Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno’.
Non voler esser detto santo prima di esserlo, ma diventare veramente tale, in modo che poi si possa dirlo con più fondamento.
Adempiere quotidianamente i comandamenti di Dio.
Amare la castità,
non odiare nessuno,
non essere geloso,
non coltivare l’invidia,
non amare le contese,
fuggire l’alterigia
e rispettare gli anziani,
amare i giovani,
pregare per i nemici nell’amore di Cristo,
nell’eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace prima del tramonto del sole.
E non disperare mai della misericordia di Dio.
Ecco, questi sono gli strumenti dell’arte spirituale!
Se li adopereremo incessantemente di giorno e di notte e li riconsegneremo nel giorno del giudizio,otterremo dal Signore la ricompensa promessa da lui stesso:
‘Né occhio ha mai visto, né orecchio ha udito, né mente d’uomo ha potuto concepire ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano’.
L’officina poi in cui bisogna usare con la massima diligenza questi strumenti è formata dai chiostri del monastero e dalla stabilità nella propria famiglia monastica».
Stefano Maria Chiari
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