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Statalismo senza Stato
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Posso non aver capito, ma il piano di rilancio del governo, annunciato in 80 miliardi euro, non è che uno sblocco di stanziamenti già fatti, e che la burocrazia e la casta paralizzano. Vediamo se stavolta le pratiche saranno sveltite (ne dubito).

Posso sbagliare, ma pare che il primo soccorso si riduca a 150 euro da mettere in tasca ai più poveri, in modo che facciano gli acquisti di Natale, dando una spinta ai famosi «consumi». Se i bottegai si aspettano di beccarsi quei soldi, si disilludano. Quei 150 euro finiranno a pagare bollette arretrate e debiti arretrati che i poveri non hanno potuto pagare: è successo lo stesso in USA qualche mese fa, quando Bush  ha messo in tasca 600 dollari ad ogni consumatore: tutti ci hanno pagato i buchi aperti sulle carte di credito, non è andato niente al «consumo».

Si parla anche di riduzione delle accise sui carburanti; non pare che i 10 milioni di pensionati minimi trarranno vantaggio dal risparmio dei pochi spiccioli, non avendo l’auto.

Altro eccezionale provvedimento: come forse non si sa, l’erario (la Casta) pretende che i contribuenti paghino in anticipo un acconto sulle tasse dell’anno prossimo, ossia su un reddito non guadagnato. Questo acconto è - tenetevi forte - del 98%. Un accontino piccolo piccolo. Adesso, vista la recessione, la Casta si accontenta di avere da noi, in anticipo, il 95%. Anzi no, forse il 96% (la Casta teme di essere troppo generosa).

Si è parlato di detassare le tredicesime, ma poi niente: servono i soldi per la Casta, i suoi stipendi non possono aspettare, i suoi diritti acquisiti sono irrinunciabili.

Questi sarebbero i provvedimenti keynesiani di Tremonti, mentre decine di migliaia di lavoratori sono licenziati o in via di licenziamento. Spero si renda conto - è il solo ad avere un barlume - che qui, rischia di essere spazzato via con tutta la classe dirigente attuale. Il rischio è l’appendimento ai lampioni, da qui a qualche mese.
Questo per la «destra». Ma la «sinistra» non è meglio.

Veltroni e Di Pietro sono indaffarati ad occupare la Commissione di Vigilanza RAI, è la cosa più urgente. A RAI3, Mario Deaglio, soi-disant economista (raccomandato FIAT) pontifica contro il piano di rilancio ridicolo di Tremonti: era meglio, per i poveri, tagliare l’imposta personale sul primo scaglione di reddito. Ignora, l’«economista», che quelli con meno di 600 euro mensili sono esenti dalla tassa (e ci mancherebbe), e perciò non avrebbero nessun vantaggio dalla sua proposta.

Una donna, 45 anni, separata con due figli, telefona all’economista: lavoro da 20 anni per una multinazionale USA, che adesso chiude e ci licenzia tutti; alla mia età, un lavoro non lo trovo più. Ma può farlo, la multinazionale? Può farlo, risponde Deaglio. Telefona uno dei 350 ingegneri licenziati da Motorola, stessa risposta.

Patetici, questi disoccupati chiedono cosa fare per costringere i sindacati a «lottare», se ci sono leggi per i loro casi, per la difesa dei loro «diritti acquisiti», Non sanno, questi sciagurati, che i «diritti acquisiti» non esistono?

O meglio: ci sono solo per quelle categorie o caste che se li difendono con le unghie, con l’illegalità  e coi ricatti. Ci sono per senatori, piloti ed hostess, per ex-presidenti della repubblica con tre cumuli di pensione, per le maestre e i ferrovieri, per Sergio Zavoli richiamato in servizio a 85 anni, per gli assessori e i trombati inseriti in qualche consiglio d’amministrazione di ex-municipalizzata onde riscuotere dormendo i gettoni di presenza.

I diritti acquisiti ci sono per i dipendenti pubblici, ma non per i privati. Specie per i privati assunti da multinazionali estere.

Non ci dicevano che l’Italia doveva attrarre più «investimenti diretti», che non ne attraeva abbastanza? Era il bello della globalizzazione. Ecco lì il risultato: gli investimenti diretti se ne vanno via in un lampo, lasciano a terra i dipendenti, senza alcuna difesa.

Cosa fa il sindacato? Nulla. Può fare la faccia feroce con CAI e con lo Stato, può bloccare aeroporti di ditte italiane, organizzare entusiasmanti scioperi contro le aziende di trasporti municipali; ma non con dei padroni americani che ritirano i loro capitali. Eppure, questo si sapeva.

Era successo lo stesso in Germania dopo il 1929: miliardi di dollari di allora andati a investirsi nelle rinomate industrie tedesche, e ritirati in un baleno. Mica per caso il Partito Socialista Nazionale dei  Lavoratori, che poco prima aveva il 3% dei voti, salì al 33%.

Tutto questo per far notare una cosa agghiacciante: ora che è urgente l’intervento dello Stato nell’economia, non lo sanno fare. Non lo sa fare nessuno nè in America nè in Europa, figurarsi in Italia.

Si affannano ad ascoltare le richieste dei più forti e dei più minacciosi: aiutare le banche? Il settore auto coi suoi dinosauri? I piloti Alitalia? Le maestre che trascinano in piazza i bambini? Aumentare i «consumi» come reclamano i bottegai? Dare soldi ai Comuni che strillano di non avere fondi, ed  entrano in sciopero comunale dopo aver «privatizzato» le aziende di servizio pubblico non già per renderle più efficienti, ma per sottrarsi ai pubblici controlli?

Non sanno concepire e organizzare un insieme cooordinato e coerente di interventi pubblici keynesiani (o fascisti, o fanfaniani, fate voi) per un motivo chiaro e semplice: non hanno più una dottrina dello Stato. Una idea dei compiti e delle responsabilità del governo verso i cittadini, un’etica pubblica, una competenza pubblica.

Questa competenza c’era, appresa in tempi durissimi, con dure esperienze. Allora ci furono assunzioni di responsabilità: mentre l’Inghilterra fece la sua rivoluzione industriale mettendo al lavoro i bambini di 12 anni, e non previde una previdenza sociale per la gente trascinata dai campi nelle fabbriche (se ne occupi il «mercato»), Bismarck, nel 1870, introdusse per primo la previdenza sociale obbligatoria - obbligatoria per i padroni - degli operai industriali; capì che occorreva garantire la vecchiaia di quelli che non avevano più i campi nè la famiglia contadina alle spalle. In Italia, Mussolini fu il primo, nel 1923.

Questo intendo per dottrina dello Stato, cultura dello Stato. Gli ultimi dieci anni di globalizzazione liberista totale hanno avuto anche questo effetto spaventoso: l’irresponsabilità del capitale privato ha infettato il settore pubblico. Una volta privatizzato tutto il privatizzabile, per i politici, niente più compiti, nessun obbligo di provvedere.

Per la «politica», una grande vacanza: e tanto tempo libero per andare da Bruno Vespa e in vari talk-show. Per il governo, non c’è stato più niente da fare. Nessun obbligo: ci pensi «il mercato». Al massimo, ci pensa l’Unione Europea - gran parte della legiferazione consiste infatti nell’adozione di decisione eurocratiche, e il resto nella soddifazione di «diritti acquisiti» di qualche clientela, o che qualche Casta vuole acquisire.

Hanno applicato entusiasticamente i dogmi del liberismo selvaggio, proprio perchè li scaricava da ogni responsabilità. Spetta alle imprese diventare «competitive», ai lavoratori di rendersi più «produttivi»; il mondo non è più politico, è «mercato».

Bisogna vendersi sul «mercato globale». Gli Stati si devono specializzare nelle produzioni in cui hanno il «vantaggio competitivo»; devono dunque considerarsi, e diventare, aziende concorrenziali.

Lo Stato non è un’azienda, non foss’altro perche un’azienda «seleziona» i suoi addetti, non assume  lattanti, nè analfabeti o incapaci, nè vecchi con l’Alzheimer. Lo Stato invece «ha a carico» tutti questi, gli improduttivi, i non più produttivi, ed ha un «obbligo» verso di loro. Questi obblighi sono, nella logica neo-aziendale, dei «costi».

Ma questi costi restano a carico dello Stato, mica può - per diventare più competitivo - sbattere fuori dai suoi confini i vecchi con l’Alzheimer, gli invalidi, e i lattanti. Questi ultimi, deve alfabetizzarli (un altro costo), deve renderli più produttivi rendendoli più istruiti, educati; deve approntare per i migliori, i più competenti, campi in cui la loro competenza possa espandersi e non perdersi.

Ciò significa che lo Stato non si riduce all’economia; l’economia è il suo limite, un condizionamento della realtà di cui tener conto, non il suo orizzonte ultimo.

Il suo scopo non è il profitto, il suo campo non è il «mercato», ma la civiltà; è mantenere la coesione sociale nell’avanzare di un popolo verso il futuro, difenderlo dai profittatori interni (giustizia) e dai nemici interni (difesa), farlo crescere nella dignità dell’educazione e del lavoro (la civiltà del lavoro).

Lo Stato regola, sorveglia che non ci sia chi non mangi, se altri mangiano troppo - fino al  razionamento in guerra, estremo caso di «intervento statale». Lo Stato promuove il fiorire dell’economia per la dignità dei suoi umini lavoratori.

Tutto ciò non ha nulla a che fare con il «mercato». Tutto questo significa, per il governo, responsabilità sui governati.

Il nuovo corso irresponsabile l’ho visto cominciare. Capo del governo, Ciampi, il venerato. Fece chiudere una fabbrica nazionalizzata creata a Crotone durante il fascismo, che fabbricava fosforo, per il solo fatto che i cinesi mettevano sul mercato la materia a minor prezzo. Ci fu una rivolta degli operai, come giornalista fui inviato a raccontarla; bruciavano barili di fosforo sulle strade, sembrava la solita «rivolta del Meridione assistito».

Fra quei dimostranti in canottiera c’era un vecchio (in canottiera) che mi spiegò la verità: era l’ingegnere capo, era di Padova ed era sceso in piazza coi suoi operai. L’azienda, mi spiegò, fatturava solo 12 miliardi di lire annue; non poteva perdere che una quota di quella cifra. Quello era il «costo» pubblico, che sarebbe stato messo a carico delle ditte italiane utilizzatori di quel fosforo meno competitivo: avrebbero potuto (dovuto) comprarlo a qualche centinaio di lire in più a quintale che quello cinese.

Ma a quel costo, 3-4  miliardi di lire l’anno al massimo, si davano a Crotone alcune centinaia di lavoratori specializzati competenti e orgogliosi della loro dignità; un istituto tecnico locale che formava i futuri specializzati, lustro della città; uno sbocco sociale e un modello sociale di prestigio operaio, in una provincia dove l’altro sbocco era la disoccupazione malavitosa.

Per di più, l’ingegnere in canottiera mi informò che in tutto il mondo esistevano una decina di fabbriche del fosforo; che i prezzi internazionali erano fluttuanti; che, appena eliminata la fabbrica di Crotone, le fabbriche estere avrebbero ri-aumentato i prezzi, per la sparizione di un concorrente. Infatti avvenne proprio questo.

Oggi compriamo il fosforo dall’estero, ai prezzi esteri e in valuta estera; in cambio, a Crotone c’è una speranza in meno, la civiltà del lavoro ha avuto la sua sconfitta  locale, a vantaggio della inciviltà della camorra, dell’arrangiarsi e delle false pensioni d’invalidità. Il «costo», alla fin fine, non è stato alleggerito nemmeno in termini economici; i costi morali sono irrimediabili.

Così ho visto Ciampi inaugurare il governo della irresponsabilità. Pardon, del «mercato». Ora mi indigno ma non mi stupisco di tutto quel che ne è seguito: ministri perennemente abbronzati che ingravidano veline e fanno i subacquei in parchi marini vietati, un impresario televisivo capo di governo, che fa cucù al cancelliere in visita; il capo dell’opposizione in yacht; sindacalisti che non pubblicano i bilanci e difendono solo quelli che si difendono benissimo da sè. Sono tutti in vacanza, non devono più lavorare.

Il guaio è che ora, non abbiamo più governanti capaci di assumersi la responsabilità che occorre con urgenza - e con competenza. La cultura dello Stato è stata divorata dalla malversazione irresponsabile; la «economia politica» - come creare la ricchezza e come distribuirla secondo giustizia - è scomparsa, ridotta ad esazione fiscale distruttiva per alimentare parassiti «pubblici» che fanno i loro privatissimi comodi. Sanno pensare solo ad aumentare i «consumi», e non riescono nemmeno a far quello.

Ma il peggio è che i cittadini, i lavoratori anche qualificati, la licenziata 45enne, l’ingegnere Motorola, hanno vissuto tutto questo tempo nella convinzione di vivere in uno Stato «sociale»,  difesi da sindacati, con diritti «acquisiti» irrinunciabili, sicuri e dati una volta per tutte.

Abbiamo vissuto in quello che Milan Kundera chiama la civiltà del kitsch. Ossia quella dei proclami universali, dei «diritti umani» e della «democrazia» da espandere nel mondo - in Darfur, in Birmania, in Afgnaistan - perché da noi la giustizia è garantita, qui viviamo in un mondo in cui le contraddizioni e le sopraffazioni sono vinte per sempre; e se mai, occorre continuare «la meravigliosa avanzata verso la fratellanza, l’uguaglianza, la felicità, e ancor più lontano, oltre tutti gli ostacoli».

La propaganda, insomma; quella falsa, che ci ha predicato che, ormai, ci restavano solo «conquiste» come le nozze gay, il testamento biologico, l’ecologismo... Non vi allegano i denti? E’ il kitsch.

La «meravigliosa avanzata» è finita, anzi siamo arretrati all’ottocento: la dignità del lavoro gettata  nel bidone, i diritti presi a calci da chi i suoi se li può tenere stretti con l’arroganza e il ricatto, i nuovi latifondisti e feudatari. Ci hanno fatto credere che dovevamo soltanto liberare le donne afghane dal chador, e intanto ci toglievano le nostre «conquiste».

Ora che la Motorola ci licenzia qui in Italia, ci accorgiamo che (cito Kundera) «lo spazio nel quale si svolge la grande marcia kitsch non è che un piccolo podio al centro del pianeta», l’Europa sociale costruita nei secoli, e che questo podio si sta restringendo; che lo Stato è irresponsabile e in mano ad irresponsabili, impotenti e insieme incompetenti, e che ci ha abbandonato.

Svegliamoci almeno, ragazzi, alla brutalità del nuovo mondo. La civiltà non c’è più. Nel golfo di Aden sono tornati i pirati; e la superpotenza che è capace di annichilire famigliole afghane, e incenerire città irachene sotto montagne d’uranio impoverito, dotata di tutte le immagini satellitari per identificare quattro Talebani in Waziristan, non ha un missile intelligente nè un drone armato con cui fulminare i neo-bucanieri e assicurare le rotte commerciali.

Non si può immaginare un esempio più atroce dell’esito del «mercato»: gli abbiamo affidato il comando del mondo, e ci ha regalato il ritorno di certe incredibili inciviltà che gli Stati, in secoli, erano riusciti a sradicare. Insieme, beninteso, alle ineguaglianze più odiose (tutti i soldi a chi «non» lavora, ma manovra capitali altrui), e al vilipendio del lavoro onesto.

Prepariamoci alla nuova brutalità, non c’è altro da fare.
Post scriptum: Apprendo che la città di Parigi, che aveva privatizzato l’acqua potabile, la ha di nuovo municipalizzata. Là ci dev’essere ancora qualcuno che non ha dimenticato la cultura dello Stato.



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