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Angelo Panebianco nel Paese dei balocchi
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Vi ricordate la favola di Collodi? Pinocchio, credulone, che prima si affida al gatto ed alla volpe, che lo convincono a seppellire le sue monete d’oro con il miraggio che da esse potesse nascere l’albero capace di moltiplicarle senza sudore della fronte, e poi, peggio ancora, si affida a Lucignolo, che lo solletica con il miraggio dell’incantato Paese dei balocchi?

Per alcuni Collodi era massone, per altri, come l’ex arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi, era invece cattolico e la sua favola sarebbe il racconto, probabilmente con intenti anche autobiografici, della redenzione di un peccatore. Comunque sia, il nome Lucignolo suona certamente luciferino e non sembra essere stato scelto a caso.

Come infatti Lucifero era l’angelo più vicino a Dio, il suo nome tradotto significa appunto «portatore di luce», che per orgoglio si oppose al progetto divino dell’Incarnazione del Verbo, pervertendo così la sua natura angelica originariamente buona, così l’amico sbandato di Pinocchio sembra incarnare la ragione illuminista che orgogliosa finisce per smarrirsi correndo dietro l’utopia, ossia rifiutando la realtà creata nella quale il Verbo stesso, per mezzo del quale tutte le cose furono create, si è incarnato.

Lucignolo può oggi essere preso a metafora dell’Occidente liberale, così orgoglioso del proprio razionalismo che però non lo ha preservato dalla seduzione del facile arricchimento promesso dall’economia finanziaria. Da un’economia senza più legami con l’economia reale, quella, fastidiosa, della produzione, del capitale concreto (terra e mezzi di produzione) e non virtuale, del lavoro, delle relazioni industriali e sindacali.

Il capitale, per non sporcarsi più le mani con la «volgarità» della produzione reale di beni e servizi, ha preferito virtualizzarsi nella convinzione di poter creare, in senso letterale, un mondo economico parallelo, appunto virtuale, quello dei mercati finanziari dove puntando nel grande casinò globale della speculazione sarebbe stato facile moltiplicare qualsiasi somma scommessa ed arricchirsi senza investire in nulla e senza lavorare. Esattamente come, nella favola di Collodi, il gatto e la volpe hanno fatto credere al burattino che nel campo dei miracoli, seppellendo le monete, queste poi sarebbero cresciute sugli alberi.

Su Il Corriere della Sera del 22 novembre 2008, Angelo Panebianco si è speso per ricordare i benefici che rivoluzione reaganiana e tatcheriana, agli inizi degli anni ‘80, consentendo alle economie occidentali di fuoriuscire dal pantano della stagnazione inflattiva del precedente decennio, ha apportato all’umanità: in primis una crescita economica mondiale mai vista fino a quel momento e la connessa globalizzazione. Sicché, ha continuato Panebianco, l’intervento dello Stato, oggi necessario di fronte alla crisi globale, deve essere limitato e temporaneo per evitare di rilegittimare culturalmente la presenza dello Stato nella società e nell’economia (1).

Ma l’editorialista del Corsera ha dimenticato, nella sua analisi, di ricordare che fu proprio a seguito della deregulation reaganiana che, magari contro le iniziali intenzioni dello stesso Reagan, si aprì la strada per la finanziarizzazione dell’economia.

Certo, l’intenzione originaria di Reagan era quella di far ripartire l’economia all’epoca troppo ingessata dagli errori di un keynesismo d’accatto, che aveva privilegiato, clientelisticamente, la spesa pubblica corrente anziché quella di investimento. Un tipo di economia con presunzioni keynesiane che però con la vera teoria economica di Keynes poco aveva a che fare essendone in realtà soltanto una perversione.

Alla quale si affiancò, negli anni settanta, un sindacalismo che, pur muovendo inizialmente da autentiche motivazioni di tutela e miglioramento delle condizioni del lavoro, finì per diventare preda dell’utopia ideologica e per scadere in mera demagogia, quella, cresciuta nel clima sessantottino, che considerava il salario come «variabile indipendente» dalla produzione (così si diceva all’epoca).

Una utopia demagogica e, più che operaia, non a caso un’utopia studentesca, che nessun vero sindacalista, come quelli di un tempo che prima di andare a contrattare con il datore di lavoro avevano per esperienza diretta conosciuto la realtà della catena di montaggio, avrebbe mai sostenuto ben consapevole che invece anche il salario dipende dal buon andamento dell’azienda.

Tuttavia è innegabile che, al di là di quelle che pure potevano essere in teoria le buone iniziali intenzioni di Reagan, la deregulation ha instradato l’intera economia occidentale verso l’abbattimento di ogni ostacolo alla speculazione, con la graduale eliminazione di tutti i controlli sulle attività finanziarie che, all’epoca, già stavano progressivamente diventando transnazionali.

La deregulation giunse proprio nel momento in cui la comparsa delle nuove tecnologie informatiche ed il passaggio dalla società industriale moderna, quella della vecchia catena di montaggio, alla società cibernetica post-moderna, quella del computer e di internet, consentì al capitale di de-nazionalizzarsi e di rivendicare quella totale libertà d’azione che poi ha finito, sovvertendo l’ordine naturale, per sancirne il primato su ogni altro prioritario livello della vita associata: sacralità, etica, politica, comunità.

La rivoluzione reaganiana consentì, senza dubbio, nell’immediato il riavvio dell’economia ingessata ed il decollo della crescita mondiale registratasi nell’ultimo trentennio. Fu l’epoca del cosiddetto «edonismo reaganiano» che da noi si presentò come la craxiana «Milano da bere». Esplodeva la follia spensierata ed irresponsabile del nuovo Paese dei balocchi.

Non è stato, infatti, un caso se proprio in quegli anni Berlusconi inaugurava le sue televisioni con spettacoli sul tipo del «Drive in», cui seguirono «Il Grande Fratello», «L’Isola dei Famosi» e tutto il connesso «gayzzare» dei vari Luxuria e Platinette ed il «puttaneggiare» di letterine e veline. Persino la politica diventò una squallida attività di tangenti, soubrette e pornodive, che con Ilona Staller entrarono anche in Parlamento.

L’etica calvinista che è alla base del capitalismo liberista è, storicamente, un’etica di ferreo rigorismo morale, un rigorismo addirittura terroristico, supporto di una «ascesi mondana» che fa del successo nella professione il segno della predestinazione divina.

Per la morale calvinista tutto ciò che può costituire un disimpegno dal lavoro, uno sviamento dall’impegno professionale, perfino gli svaghi più naturali, è «diabolico»: da qui, a differenza dei popoli cattolici molto più solari e capaci di equilibrare penitenza e gioia di vivere, la frenesia iper-produttivista, con la connessa rinuncia, pur nella ricchezza, ad ogni gioia della vita; si pensi ai ritmi di vita dei top manager e degli uomini d’affari, che caratterizza i popoli di radici protestanti.

Solo in un Paese con tali radici, come gli Stati Uniti d’America, poteva nascere un fenomeno come quello dell’esercito della salvezza che coniuga moralismo bacchettone ed etica capitalista. Il puritanesimo americano ha senza dubbio forgiato il carattere americano rendendolo capace, con il suo ascetico rigorismo, di sopportare dure prove. Eppure tutta la debolezza di questo duro ascetismo stava proprio in quel suo essere «mondano» ossia finalizzato all’accumulazione di ricchezza. Sicché il suo rovesciamento edonistico, l’ipocrisia sociale, è l’altra faccia del moralismo calvinista; era inevitabile.

Infatti, tramontata la sua primitiva giustificazione «predestinazionista», dell’ascetismo professionale è rimasta solo la cupidigia intesa come il principale target sociale di riferimento civile, l’idea cioè che scopo della vita sia quello di «accaparrare» quanto più possibile per consentire a se stessi i consumi più voluttuari quale segno di elezione magari non più divina, o non solo più divina, ma almeno civica.

Reagan, applicando il teorema di Laffer, che sulla carta era perfetto, abbassò la tassazione che in effetti all’inizio degli anni ‘80 era al di sopra di ogni giusto limite.

Questa operazione era finalizzata a liberare risorse che in mano agli imprenditori privati avrebbero dovuto automaticamente tradursi in fruttuosi e più avanzati investimenti con il conseguente riassorbimento della disoccupazione causata dalla necessaria riorganizzazione, all’epoca in atto, dell’intero sistema produttivo.

Riorganizzazione che comportava l’inevitabile abbandono delle industrie decotte come quelle minerarie inglesi sulla chiusura delle quali si era svolto un duro ed estenuante braccio di ferro tra la vincente lady di ferro, la Tatcher, ed i perdenti minatori che la cessazione dell’attività di quelle industrie lasciava senza lavoro. Ma, nell’abbassare la tassazione a più ragionevoli livelli, Reagan non aveva tenuto in debito conto l’eterogenesi della morale calvinista.

Per quale motivo, infatti, coloro che dal taglio delle tasse beneficiarono di maggiori disponibilità di capitale avrebbero dovuto, come la vulgata monetarista insegnava, investire in attività produttive, con tutti i problemi annessi (forniture, fatturato, sindacati, servizi pubblici, etc.), ossia nell’economia reale, per beneficare l’intera società, e quindi, sempre come la vulgata insegnava, anche i poveri ed i disoccupati, quando era lì immediatamente disponibile il Paese dei balocchi della speculazione finanziaria, il mercato nel quale arricchirsi senza dover lavorare e produrre, ossia il campo dei miracoli il cui albero della cuccagna era capace di moltiplicare le monete d’oro ivi seppellite?

Ed, infatti, puntualmente, alla lunga, fu il mercato finanziario ad avvantaggiarsi della rivoluzione reaganiana, fatta di deregulation e di detassazione, e non l’economia reale.

Si noti che il miraggio della cuccagna finanziaria, ossia la capitalizzazione, la crescita del capitale, svincolata dalla produzione e dal lavoro, è nient’altro che la replica liberista dell’analogo miraggio marxista del comunismo come auto-liberazione dell’uomo dai suoi bisogni primari mediante l’inveramento «escatologico» della trasformazione, secondo la messianica promessa rivoluzionaria, del regno della necessità nel regno della libertà.

Miraggio che poi il ‘68 ha tradotto nello slogan «vietato vietare» dal quale è derivato il permissivo etico come contro-faccia del permissivismo economico ovvero del liberismo.

Quando Panebianco, paladino del liberalismo del quale ricorda i «nobili» trascorsi sette-ottocenteschi, sostiene che compito dello Stato è solo quello di rendere possibile la nostra ricerca della felicità individuale, assicurandone le condizioni (ordine pubblico e difesa militare) senza interferire in tale ricerca, egli assume il ruolo del Lucignolo di turno che viene a parlarci del Paese dei balocchi proprio mentre l’incantesimo sta finendo ed i suoi sventurati cittadini si stanno svegliando accorgendosi con sorpresa di essere stati trasformati in asini.

Panebianco, irridendo giustamente l’attesa messianica che sta circondando Obama, dichiara di essere scettico verso le «mani visibili» invocate da coloro che chiedono l’intervento dello Stato e che misconoscono quello che lui, al contrario, ritiene essere il ruolo fondamentale degli «aggiustamenti spontanei».

Ora, però, resta il fatto che Panebianco, da buon liberale, continua ad illudersi sulla efficacia e sulla spontaneità dell’esoterica «mano invisibile», l’idolo della religione liberista: quella che fa del mercato un dio e di Adam Smith il suo profeta.

In realtà che la mano che muove il mercato sia poi così «invisibile» può dirsi solo nel senso che essa agisce mediante etàt d’ésprit artificialmente creati da uomini in carne ed ossa, dunque a ben vedere del tutto visibili anche se nascosti dietro le quinte, che hanno interesse a stimolare, al di là delle autentiche umane necessità, la domanda al fine di soddisfare l’offerta saldamente, però, nelle loro mani.

A questo serve, in fondo, la pubblicità, non a caso classicamente definita l’«anima del commercio». Infatti, il segreto dell’economia dell’Occidente, a partire dal XVI secolo, sta nel rovesciamento del rapporto tra domanda ed offerta.

Laddove fino a quel momento era sempre stata la domanda a condurre il gioco, sicché l’offerta si adeguava ad essa, con la modernità, gradualmente, padrone del gioco è diventata l’offerta che pur di piazzare ogni mercanzia o produzione, anche quelle inutili, ha escogitato ingegnosi sistemi idonei a stimolare la domanda facendo leva sui desideri terreni, anche quelli più bassi, dell’uomo.

In questo sta la forza materiale e lo sfavillante fascino edonistico dell’Occidente.

L’uomo tradizionale, al contrario, sapeva perfettamente che soddisfatti i suoi bisogni primari (vitto, alloggio, salute, istruzione), l’essere umano è essenzialmente fatto per tutto ciò che vi è di «alto»: dall’arte alla filosofia, dalla cultura alla contemplazione, dalla scienza alla mistica, dalla poesia alla musica, dalla teologia alla fede, dall’amore naturale all’Amore soprannaturale.

Certamente se la «cultura» (arte, filosofia, scienza, poesia, musica, teologia) e, persino, l’«amore naturale» hanno un aspetto anche economico-primario [non c’è infatti cultura e neanche famiglia, che è il frutto dell’amore naturale, senza anche una base economica, benché si tratti di una base connessa e in qualche modo strumentale al prevalente aspetto proprio essenziale, della cultura e dell’amore naturale che è quello di consentire il raggiungimento del fine spirituale e
sovra-economico cui l’uomo è preordinato] non altrettanto può dirsi della fede, della contemplazione, della mistica, dell’Amore soprannaturale che del cammino verso quel fine spirituale sono, nell’uomo e nelle sue relazioni sociali, chiara espressione.

Se con la modernità questa consapevolezza tradizionale, quella insegnata e confermata da Nostro Signore Gesù Cristo quando ammonì che «non di solo pane vive l’uomo», non si fosse persa, l’economia, anche quella di mercato, sarebbe rimasta al servizio delle aspirazioni spirituali dell’uomo. L’Aquinate, infatti, sosteneva che al fine del conseguimento della salvezza eterna l’uomo non deve possedere né troppo, né troppo poco.

In altre parole, il mercato, l’economia di mercato, lungi dal pretendere un primato che nell’Ordine metafisico dell’Essere non le è stato dato e lungi dall’essere pertanto idolatrata, dovrebbe essere posta al servizio del fine ultimo, che è spirituale, dell’uomo, come una base, un trampolino di lancio, da cui spiccare il volo verso l’Eterno.

Panebianco, che alla prospettiva di un’economia strumentale al fine spirituale dell’uomo probabilmente sorriderà, invece predica, in sostanza, la stirneriana «unione degli egoisti», ponendosi nella linea della filosofia sociale contrattualista.

Questa filosofia nasce con Machiavelli, Bodin, Hobbes, Locke, Rousseau ed altri prima di Stirner ed ha trovato negli anni novanta adepti radicali negli anarco-liberisti americani propugnatori delle «privatopie», una sorta di falansteri sansimoniani nei quali la vita sarebbe ridotta a mere relazioni sinallagmatiche governate solo dal reciproco interesse, senza Stato o Autorità, sicché a tutti i livelli sociali, non solo quelli politici e produttivi ma anche quelli coniugali e familiari, si resterebbe insieme soltanto finché nello stare uniti si trova la reciproca convenienza ed utilità.

Seconda la filosofia contrattualista, la convivenza altro non sarebbe che un enorme contratto tra individui, chiusi nel loro solipsistico assolutismo, per regolare nel reciproco egoistico interesse le scambievoli utilità (2). Oltre all’antropologia negativa alla base del contrattualismo vi è anche il soggettivismo prometeico («Io sono Dio a me stesso»), tradotto in termini filosofici da Cartesio che ha fatto dell’Io il creatore del mondo.

Infatti il cartesiano «cogito ergo sum» significa che il reale, lungi dall’esistere in sé, ossia lungi dall’avere una propria consistenza ontologica separata da quella del soggetto conoscente, coincide con l’idea soggettiva che l’individuo pensante ha o si fa di esso: in Cartesio ci sono già tutto Kant, Fichte ed Hegel.

Dopo Cartesio la riflessione filosofica sull’essere, rifiutando di aderire alla sana filosofia realista di san Tommaso d’Aquino, non ha più preteso l’oggettività del mondo come altro dal soggetto conoscente né l’obiettività delle nozioni di bene e male. Per la strada del contrattualismo sociale e del prometeismo idealistico si pervenne, dopo Stirner, all’altro hegeliano di sinistra, ossia Marx, che non era affatto né statalista né collettivista.

Marx voleva liberare l’uomo, inteso individualisticamente ossia solipsisticamente, da Dio ma anche dallo Stato, perché, allievo di  Feuerbach, li considerava sovrastrutture. La dittatura del proletariato in Marx è solo una fase transitoria per giungere alla società comunista compiuta, ovvero all’autogestione spontanea che avrebbe dovuto disciplinare in armonia,
perequativamente senza più dominio di classe, i reciproci egoistici interessi individuali.

La società comunista compiuta è nel pensiero di Marx quella che avrebbe dovuto funzionare senza più Autorità secondo la massima: «Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i propri bisogni». Marx è molto più vicino a Bakunin di quanto comunemente si pensi.

Il pensiero marxiano è però l’altra faccia di quello di Adam Smith, cui del resto il giovane Karl si ispirò. Infatti, che altro è, se non l’«unione degli egoisti» propugnata da Stirner o la «società perfettamente autogestita» propugnata da Marx e Bakunin, l’idea smithiana della «esoterica» mano invisibile del mercato che tutto dovrebbe regolare da sé e che dovrebbe donare all’umanità, senza leggi sovrastrutturate, ossia senza Stato o Autorità, il benessere generale, la felicità pubblica facendola derivare dalla concorrenza degli egoismi privati, nonché la pace mondiale conseguente all’abbattimento dei protezionismi di Stato?

E’ l’utopia di tutti coloro che, come Panebianco, credono che le cose si regolino da sé e non è un caso se oggi siamo ossessionati dagli ipocriti codici di auto-regolamentazione. Che infatti non hanno mai impedito in pratica, soprattutto in ambito finanziario e bancario, nessuno dei comportamenti che essi classificano tra quelli non corretti.

Tutti questi utopisti invocano non solo la morte di Dio (3) ma anche quella dello Stato nella prospettiva della realizzazione del perfetto regno dell’Umanità.

Ora il sogno di Marx, un mondo senza Dio e senza Stato, lo sta realizzando, caduta l’Unione Sovietica, l’Occidente liberale. Ma tolto Dio e tolto lo Stato il loro posto viene preso da regimi ideocratici e totalitari, dal mercato globale, dalle organizzazioni multi e transnazionali della globalizzazione, dalle Banche Centrali, dagli speculatori finanziari.

Pura eterogenesi dei fini.

Chi non ha il cuore chiuso alla Rivelazione Divina sa bene chi si agita dietro tutto questo: non solo - ed in piccola parte - complotti di congreghe segrete di uomini incappucciati a cospirare per il dominio del mondo ma molto di più, ossia colui che in illo tempore gridò «non serviam» e sibilò nelle orecchie dei progenitori la suadente, abissale, a suo modo affascinante (ma di un fascino inquietante), voluttuosa tentazione: «Eritis sicut Dei», sarete come Dio.

Quel sibilo non si è mai spento nel corso della storia e quella tentazione è stata la costante, perenne, triste compagna dell’umanità nel suo cammino. Ed oggi, venuto meno o perlomeno indebolito il Katechon, che è la Chiesa, quella tentazione è più forte che mai. Si tratta, niente di più e niente di meno, che dell’antica gnosi luciferina, cui il racconto del Genesi si riferisce chiaramente. La quale gnosi spuria consiste appunto nella pretesa di auto-deificazione della creatura, nel rifiuto della deificazione per Grazia.

Una tentazione che, si rifletta bene, è contenuta, in essenza, nella volontà di potenza che sottende la finanziarizzazione dell’economia e che è essenzialmente volontà di nullificare, di nientificare, l’economia reale, l’economia concreta della produzione di beni e servizi, l’economia del capitale patrimoniale, ossia non virtuale, e del lavoro.

Nichilizzazione finanziaria dell’economia che, in ultima istanza, rivela il proprio carattere luciferino nel fatto che, distruggendo aziende e posti di lavoro, tende a gettare nella disperazione gli uomini ed a sottrarre loro quella onesta base materiale, che secondo l’insegnamento tomista non deve essere,
come si è detto, né eccessiva né deficitaria, ad essi necessaria come trampolino di slancio verso l’Eterno.

Quando il rosacruciano William Paterson fondò nel 1694, su concessione del re, in forma di monopolio privato del potere pubblico di emissione di carta moneta, la Banca d’Inghilterra, prima Banca Centrale della storia, allo scopo di invogliare i suoi soci ad unirsi a lui nell’affare, affermò che «la Banca guadagnerà l’interesse su tutta la moneta che creerà dal nulla».

Fu questo il primo atto della finanziarizzazione dell’economia (4). Un processo «teologico» e storico-economico che, come è evidente dalle parole del Paterson, nasce da una chiara volontà prometeica, quella di poter, ad imitazione di Dio, creare dal nulla: «Eritis sicut Dei».

Ma proprio perché trattasi di una luciferina imitazione, l’atto creativo prometeico, anziché essere atto fecondo come quello di Dio, si trasforma, prima o poi, in atto distruttivo.

La moneta bancaria tratta dal nulla, innescando a sua volta il meccanismo della proliferazione all’inverosimile di valori monetari e creditizi astratti, ossia fondati sul vuoto economico reale, finisce, per via della sua essenza nichilista, per travolgere e distruggere l’economia produttiva.

In fondo nell’idea che sia in potere dell’uomo la creazione di valori economici fittizi, svincolati da ogni legame con beni reali, vi è la convinzione di poter sostituire la realtà data, quella creata da Dio, che più o meno apertamente si disprezza, con un’altra pseudo-realtà ossia quella che ci si illude sia in proprio potere creare.

L’economia finanziaria, senza più agganci con quella reale, costituisce, con i suoi mercati virtuali, paralleli a quelli reali e governati da élite di «iniziati» (non si parla, forse, di «maghi della finanza»?), un esempio di tale tentazione gnostica. Tentazione analoga a quella del sesso virtuale, così ben spiegata da Stefano Maria Chiari proprio su questo sito (5).

Infatti, uno gnostico dichiarato come fu Elemire Zolla inneggiava alla «realtà virtuale telematica» come alla realizzazione dell’antico sogno di tutti gli gnostici che è, per l’appunto, quello di sostituire la propria realtà, quella creata dall’io senziente, alla realtà oggettiva nella quale l’essere umano è stato posto dal Creatore.

Avete mai visto il film Matrix?

Ebbene, le scene nelle quali il mondo circostante al soggetto è plasmato dal soggetto medesimo, che dunque in qualche modo se ne fa padrone e causa, come se egli fosse Dio, esemplificano perfettamente questo prometeismo gnostico.

Il «cybersesso» è un’applicazione della «realtà virtuale», la cui gnosticità trapela anche dal fatto che, in tal modo, il sesso viene reso del tutto infecondo in una apoteosi di luciferino odio al Creatore che mediante la negazione della creatura, della vita e della sua fecondità, nega l’ordine metafisico dell’essere. Il cybersesso, orgiastico ed infecondo, è apertamente cataro.

Che l’economia liberista abbia qualcosa di prometeico, e dunque di gnostico, lo ha perfettamente capito Giulio Tremonti che non ha esitato a richiamare le parole che l’allora cardinal Ratzinger, Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, ebbe a pronunciare in un simposio del 1986 (6).

Per Tremonti, l’attuale Pontefice aveva già compreso che il mercato non è in grado di auto-regolarsi come credono tutti i liberali alla Panebianco. L’attuale ministro per l’Economia, infatti, non crede, ed in questo siamo con lui, che la realtà, anche economica, proprio perché creata e data e non inventata dall’uomo, abbia un fondamento di «auto-nomia» ma piuttosto di «etero-nomia».

Tremonti ha trovato conforto in questa sua condivisibile convinzione, che poi non è convinzione soggettiva ma semplice buon senso, autentica adesione, in senso tomistico, dell’intelletto all’ordine naturale delle cose, in quel che il regnante Pontefice ebbe a dire nell’occasione da lui ricordata circa l’ingenuo ed inaccettabile «determinismo» della teoria economica liberista che: «contiene in sé - a giudizio di Ratzinger - un(o)… stupefacente presupposto, cioè che le leggi naturali del mercato sono buone nella loro essenza e lavorano per il bene a prescindere dalla moralità degli uomini».

Ratzinger, contestando lo «stupefacente presupposto», giustamente annotava: «Si dice che l’economia debba dotarsi da sola delle sue regole e non di quelle basate su considerazioni morali imposte dall’esterno. Secondo la tradizione inaugurata da Adam Smith, questa posizione considera il mercato incompatibile con l’etica perché l’azione morale volontaria contraddice le regole del mercato e mette fuori gioco l’imprenditore che agisce di regole etiche. Il dispiegarsi delle leggi del mercato, secondo questa tesi, è la migliore garanzia di progresso e perfino di giustizia distributiva. Ciò presuppone che il libero gioco delle forze del mercato può operare in una sola direzione, vale a dire verso l’autoregolamentazione di domanda e offerta e verso l’efficienza economica e il progresso». Esito, naturalmente, che Ratzinger contestava se inteso come automatico e naturale ossia se preteso senza un etero-fondamento etico (7).

Fondamento che, però, a sua volta, aggiungiamo noi, affinché non rimanga qualcosa di astratto e di puramente nominalistico, non può essere affidato soltanto alla responsabilità morale dell’uomo, benché questa non possa mai mancare e non possa conseguentemente mancare l’adesione della coscienza etica dell’uomo, ed abbisogna della mediazione del Politico, ossia dell’intervento della Comunità Politica, dell’Autorità Politica, dello Stato.

In una retta concezione tradizionale lo Stato non può mai essere un assoluto ma è parte di un più ampio Ordine metafisico dell’essere, sicché esso non è mai svincolato dal, più alto, diritto di natura espressione etico-giuridica dell’Amore di Dio sacramentalmente veicolato e mediato dalla Chiesa.

Questo impedisce, in un corretto ordine tradizionale, ogni cedimento o tentazione totalitaria, che è esattamente quel che i liberali come Panebianco temono; per questo si vogliono «anti-statualisti», senza rendersi conto che il totalitarismo storicamente è stato proprio il frutto dello sradicamento del Politico dalla Trascendenza.

Luigi Copertino




1) Tra l’altro Panebianco, con poca sagacia storica, ha imputato al ritorno al protezionismo nazionale, seguìto alla grande crisi del 1929, la responsabilità della seconda guerra mondiale laddove, al contrario, come ben sanno gli storici, fu proprio la crisi del ‘29 con i milioni di disoccupati da essa prodotti a consentire l’ascesa in Germania del nazionalsocialismo, che - è innegabile - riuscì a riassorbire la disoccupazione ed a far ripartire l’economia tedesca. Il fatto è che il crollo dell’economia seguito al ‘29, collasso allora come oggi causato dalla speculazione finanziaria, regalò ad Hitler, che andò al governo vincendo libere elezioni democratiche, il suo elettorato, perché quando si è alla fame si è disposti, come fecero i tedeschi nel 1933, anche a rinunciare alle proprie libertà: una cosa che i liberali come Panebianco, così devoti al laissez faire, non riescono a capire.
2) Il contrattualismo è idea fondata su una antropologia negativa che nasce in ambito teologico con Lutero. Non ci si faccia ingannare dal fatto che il contrattualismo in versione antropologica ottimista fu anche la filosofia di Rousseau: per quest’ultimo la presunta «bontà naturale» è nativamente «selvaggia» ossia preda di istinti, come appunto lo è anche l’Unico di Stirner, e solo gli «educatori», l’èlite rivoluzionaria iniziata nelle logge, può educare l’umanità attraverso la sollecitazione di quegli istinti verso un servizio imposto ai cittadini dalla società nell’interesse della volontà generale, ossia dell’élite rivoluzionaria, senza che i cittadini, per l’appunto appositamente educati, se ne rendano conto. Rousseau ha inventato il moderno schiavo felice della sua condizione di schiavitù perché non sa di esserlo e crede, aderendo alla Volontà Generale, di fare il proprio ed altrui bene. Ecco perché Jacob Talmon ha individuato nella filosofia politica del ginevrino la radice della «democrazia totalitaria», ossia dei moderni totalitarismi, la cui prima prova storica fu il «Terrore» giacobino nella Francia Rivoluzionaria del 1793-94, del quale il genocidio vandeano fu il terribile apice. Robespierre è stato il padre di Hitler, Stalin, Mao, Pol Pot e, non è un caso, se egli fu, sulla scia ginevrina di Rousseau e di Calvino, anche un ferreo moralista, il devoto della «Virtù».
Ed infatti Panebianco, con ironico rammarico, puntualmente scrive: «Nonostante la secolarizzazione, gente comune e élite continuano a credere che tutto si debba alla volontà degli Dei», rectius «Dio». Confronta A. Panebianco «La Politica e la libertà» in Il Corriere della Sera del 22 novembre 2008.
3) Confronta L. Copertino «Il capitale volatile o del nichilismo finanziario» in www.effedieffe.com.
4) Confronta S. M. Chiari «Sesso virtuale? No grazie» in www.effedieffe.com.
5) Confronta Italia Oggi del 20 novembre 2008.
6) Proprio perché nel 1986 si esprimeva con tale inappuntabile chiarezza argomentativa, non è dato comprendere i motivi profondi per i quali invece nel 2008 Papa Ratzinger nell’introduzione firmata, da teologo privato (non si tratta dunque di un atto del Magistero), all’ultimo libro di Marcello Pera,
affermi in sostanza che il liberalismo sia essenzialmente compatibile con la fede cristiana. Benché presentato dalla stampa come una novità, tuttavia l’argomento non è nuovo nel pensiero privato del regnante Pontefice. Infatti già in un suo libro del 2003, «Fede, Verità, Tolleranza - il Cristianesimo e le religioni del mondo» (Cantagalli), Ratzinger ha sostenuto questa «cristianità» del liberalismo.
A ben leggere quanto scrive il teologo Ratzinger, anche in questa ultima occasione dell’introduzione al libro di Pera, egli intende soltanto affermare che, cosa in sé assolutamente vera, il dialogo mentre è possibile tra le culture non può esserlo tra le fedi, che sono sempre un assoluto.
In questo vi è la grandezza ma anche il limite del pensiero ratzingheriano (attenzione: non stiamo criticando il Papa ma il teologo privato! Parliamo della sua introduzione all’opera di Pera e del suo libro sopra citato, dunque di atti privati e non di atti del Magistero), perché, resta il fatto che a giudizio di Ratzinger il liberalismo sarebbe radicato nella fede cristiana. Ora, Benedetto Croce diceva da liberale «non possiamo non dirci cristiani» ed in tal modo riduceva il Cristianesimo ad una opzione culturale, di civiltà occidentale, astraendo dalla fede: la speranza è che il teologo Ratzinger non ammicchi a questa posizione, disastrosa per la fede e la Chiesa! Purtroppo è a questa impressione che si potrebbe giungere leggendo il suo libro sopra citato, che è teologicamente un bel libro ma sotto il profilo della filosofia politica lascia molto a desiderare proprio perché ammette un fondamento metafisico al liberalismo, in particolare alla filosofia di Locke, che è solo nei suoi sogni o auspici di teologo. Infatti, da buon protestante, Locke sosteneva che la Verità è inconoscibile e che i diritti umani, proprio perché la Verità sarebbe inconoscibile, quindi essenzialmente soggettiva, possono trovare il loro unico fondamento nel contratto tra il sovrano (re o parlamento, poco importa) ed i sudditi, ossia in ciò che noi chiamiamo «costituzione». Ma le costituzioni, come tutti gli atti giuridici cartacei, possono essere cambiate ad libitum con una semplice votazione
maggioritaria, sicché fondare i diritti umani sul contrattualismo liberale, sul gius-contrattualismo spacciato (ma non sono la stessa cosa) per gius-naturalismo, è come voler costruire sulla sabbia.
7) In altre parole, Ratzinger mentre condanna giustamente il relativismo in ambito teologico, ammette - nel libro lo dice chiaramente - come legittimo il relativismo, ossia il liberalismo, in ambito politico. In realtà una volta ammesso sebbene sul piano politico, il relativismo si estende inevitabilmente anche agli altri piani compreso quello etico e teologico, che Ratzinger lo voglia o meno. E’ questa la sua illusione di teologo privato: una democrazia liberale teologicamente fondata e non relativista sul piano etico. Si tratta, a nostro modesto avviso, di una utopia professorale.


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