Mossad: fallito golpe in Turchia?
05 Dicembre 2008
A loro non piaceva che le elezioni avessero portato al governo il partito islamista moderato di Erdogan. E così, generali «custodi della laicità», avvocati «laicissimi» , e rappresentanti della «società civile laica e kemalista» (organizzatori di immani manifestazioni «spontanee» per difendere la laicità turca) hanno tentato un colpo di Stato: fra l’altro – come preparazione al golpe – compiendo nel 2007 una serie di attentati «islamici» che portarono in piazza le folle in difesa del laicismo di Ataturk, ma di fatto contro il governo Erdogan.
I congiurati erano collegati nel gruppo clandestino Ergenekon, che – guarda caso – è il nome della Gladio turca, una delle tante organizzazioni stay-behind create dalla NATO (CIA) nei Paesi dell’alleanza.
Il febbraio scorso, la trama è stata in parte scoperta, e quindici personaggi dell’Ergenekon sono stati arrestati.
Il pezzo più grosso è Veli Kucuk, generale della gendarmeria (in pensione) che fondò il JITEM, una squadra antiterrorismo della gendarmeria sospettata di diverse «esecuzioni extragiudiziali» di capi curdi. Poi l’avvocato Kemal Kerincsiz, famoso principe del foro, accanito nel trascinare in tribunale per «offesa alla turchità» (laica) decine di intellettuali, fra cui lo scrittore Oran Pamuk, premio Nobel. Gli altri erano giornalisti nazionalisti, e ricchi uomini d’affari fondatori e finanziatori delle «Milizie Nazionali», il gruppo che si definisce «società civile» e che organizzava le manifestazioni anti-islamiche.
Lo scandalo ha sfiorato anche il capo di Stato Maggiore, cioè il capo supremo dell’armata turca laica e kemalista, l’onnipotente generale Bukuyanit: ampiamente ritenuto dunmeh, ossia un cripto-giudeo discendente da quei seguaci di Sabbatai Zevi, che poi si finsero musulmani.
Non è il solo: da Ataturk in poi, praticamente tutti i laicissimi capi dell’esercito turco, che tengono sotto controllo la «democrazia «perchè non si sviluppi troppo», sono dumneh.
Adesso – come rivela Milliyet, il primo giornale turco – le indagini sono continuate, e un rapporto segreto dei servizi indicherebbe il Mossad come orchestratore del tentato golpe in Turchia
(1).
Il personaggio-chiave della faccenda è un rabbino che si chiama (o dice di chiamarsi) Tuncay Guney, adesso riparato in Canada con l’aiuto del governo USA.
Il giornale Sabah ha pubblicato un documento che dimostra come rabbi Guney si fosse infiltrato nel gruppo clandestino di Ergenekon e persino nella squadra antiterrorismo JITEM, che ammazzava curdi.
Il che non gli dev’essere stato difficile: rabbi Guney dice di essere nato da una famiglia di ebrei scappati dall’Egitto e praticanti, in Turchia, «la loro fede in segreto»: insomma un cripto-giudeo dunmeh.
Ma non tanto cripto. Un altro quotidiano turco, Yeni Safak, ha raccontato come le forze di sicurezza turche abbiano scoperto, nella casa del rabbino a Istanbul, la bandiera di Israele e un documento risalente al Mossad, con tanto di motto («Con l’inganno vincerai»).
E un altro giornale, Aksam, ha pubblicato una lunga inchiesta su investimenti sospetti di «uomini d’affari» ebrei in Turchia, che hanno strette relazioni con individui, gruppi e organizzazioni «culturali» affiliate ad Ergenekon.
Altri giornali turchi, fra cui Zaman, dicono che invece rabbi Guney avrebbe infiltrato Energekon per conto del MIT (Millî İstihbarat Teşkilâtı), i servizi segreti turchi
(2); e che è un agente doppio. O triplo, vai a sapere.
In ogni caso la sua è una storia interessante, utile a capire un certo modus operandi dello spionaggio ebraico
(3).
Nato nel 1972, Tuncay Guney sembra sia stato arruolato – o si sia fatto arruolare – nel MIT all’età di 18 anni. Fin dall’inizio, le sue missioni hanno dovuto presentare un notevole interesse per il mossad: il giovanissimo agente era stato messo dai turchi al «Reparto Attività Reazionarie», ossia a controllare i gruppi religiosi islamici che minacciano la «laicità» dello stato-dunmeh; poi, nel 1992, è stato assegnato alla «stazione» del MIT in Iran. Infine, avrebbe ricevuto il compito di infiltrare Energekon e il JITEM.
Il giovanissimo rabbino eseguì la missione benissimo, anche troppo. Avvicinò Kucuk fingendosi un giornalista; e ne conquistò la fiducia al punto, da divenire lui stesso un membro della cellula clandestina in seno all’antiterrorismo.
Alla caccia di estremisti islamici, Kucuk lo mandò a spiare persino i due capi di Hezbollah, Mohammed H. Fadlallah e Hassan Nasrallah: è facile immaginare che le sue preziose informazioni siano arrivate anche al Mossad, ovviamente interessatissimo.
Ma nel frattempo Guney ha svolto un’attività giornalistica quasi frenetica: prima a Sabah (quotidiano) poi all’importante Milliyet, posti evidentemente ottenuti grazie al sostegno della cellula clandestina, piena di pezzi grossi. I due giornali sostengono che Guney era impiegato da loro come «ragazzo d’ufficio», ma i dati della previdenza sociale dicono che Guney entrò nel giornalismo con il doppio della paga minima, e nel 1991 guadagnava 1,1 milioni di lire turche, il quintuplo del salario minimo.
Nel ’91, passò ad una nuova televisione (Samanyolu TV), di cui divenne anchorman e conduttore di un talk-show politico: in questa veste, dicono, incontrò e simpatizzò con Kucuk; e col suo aiuto potente, passò ad altri giornali.
Frattanto era chiamato militare, e poi espulso per omosessualità; e diventato redattore della rivista militare Yeni Strateji, creata da pezzi grossi della Ergenekon.
Ma tutta questa attività non esauriva le energie del rabbino-spia-giornalista. Guney trovò il tempo di guadagnarsi degli extra mettendo sù un traffico di auto taroccate, forse rubate e fornite di falsi documenti, in complicità con un funzionario del fisco e di suo cognato. E’ stata questa seconda attività ad incastrarlo.
Nel 2001 un tizio denunciò di essere stato truffato, a proposito di un SUV che intendeva comprare, dall’«agente di polizia Orhan Sonuc»: risultò che questo Sonuc era nient’altri che Guney, la spia doppia o tripla.
Anche il SUV contestato aveva una storia interessante: era un «regalo» che un funzionario di polizia (evidentemente della Energekon) aveva fatto a Kucuk, il capo dello JITEM, per non so quale aiuto che aveva ricevuto da Kucuk e da Gunay nel «mettere le cose a posto» con un sicario di nome Gulaltay, in prigione per aver assassinato un attivista dei diritti civili, Akin Birdal.
Kucuk aveva passato la macchina al suo agente Gunay; questi l’aveva messa in vendita con un’inserzione sui giornali e, per di più, aveva intascato il deposito da almeno due clienti.
La polizia di Istanbul interroga il rabbi nel marzo 2001, e perquisisce la sua abitazione: e lì trova due pistole, targhe d’auto false, 115 diplomi falsi, una quantità di carte di identità di persone con cui rabbi Guney aveva avuto rapporti sessuali (è gay, oltretutto); ma soprattutto trovano una montagna di documenti che hanno condotto gli inquirenti alla scoperta della cellula segreta Ergenekon.
Conclusione: Guney viene arrestato e sbattuto in galera l’8 marzo 2001. Ma il giorno dopo viene liberato su cauzione (pare l’abbia pagata sua sorella), e poche ore dopo è già in volo verso gli Stati Uniti: guarda caso, era stato insignito di un visto per gli USA valido dieci anni.
Secondo il suo giornale Yeni Safak a farlo fuggire è stato il suo capo Kucuk.
Il fatto è che Guney aveva cantato prima di fuggire, di fatto incastrando Kucuk e tutti (forse non tutti, ma molti) gli altri congiurati della cellula clandestina golpista. Lui farà sapere, dal suo rifugio, di aver dovuto parlare dopo nove giorni di torture, ivi comprese le scosse elettriche ai genitali.
Il funzionario che lo ha interrogato, Ahmet Ihtiyaroglu, sostiene che «dei 24 mila individui che ho interrogato in vita mia, Guney era unico. Mai visto uno beccato con tanti documenti, e con una parlantina così sciolta».
Il nome di Guney è diventato pubblico solo pochi giorni fa (novembre 2008) durante la sedicesima udienza del processo al gruppo Ergenekon, quando il procuratore ha ingiunto al MIT (i servizi di spionaggio turchi) di consegnare il dossier di quel suo agente.
Il MIT ha sostenuto che Guney era stato licenziato dal 1997; il fuggiasco tuttavia risulta percepire la pensione statale, come funzionario turco, dal giorno della sua fuga nel 2001.
Il caporedattore di Aksam, tale Kilic, ha testimoniato che Guney un giorno portò al giornale nientemeno che Robert Pearson, l’ambasciatore USA in Turchia; sembravano in rapporti molto stretti, benchè Guney «non parli una parola di inglese» (o così ha fatto credere).
Da allora Guney ha parlato pubblicamente tre volte, in teleconferenza, durante le trasmissioni di Kanal D, un’altra TV turca. Dando ovviamente la sua versione dei fatti.
Ma da dove parla?
Dopo la sua fuga, egli ha abitato a Manhattan in un appartamento che risulta proprietà del MIT, il servizio turco; risultava impiegato e pagato da un fantomatico New York Institute.
Ma dal 2004 si è trasferito in Canada, dove ha ottenuto asilo politico, dice lui, con l’aiuto di un albergatore turco di nome Mehmet Ozbay.
Ma una commissione governativa turca ha appurato che «Mehmet Ozbay» non è altro che una falsa identità molto usata in certi ambienti: fatto istruttivo, viaggiò sotto l’identità di «Mehmet Ozbay» anche il tentato assassino di Giovanni Paolo II, Ali Agça.
Fatto sta che adesso Guney è diventato «Daniel Levi», rabbino della Casa di Giacobbe (Jacob House) del Jewish Community Center di Toronto.
Il giornale Milliyet però ha mandato a Toronto un inviato, che ha scoperto alcune cose. Il Board of Rabbis di Toronto non conosce alcun rabbino Daniel Levi. La Jacob House ha «Daniel Levi» nel suo sito Web, però gli addetti della Jacob House non ne hanno mai sentito parlare. Sul sito web c’è un numero di telefono della Jacob House: ma risponde al telefono una segretaria, che sostiene che quello è il numero di una scuola di lingue.
Stranamente, l’indirizzo della Jacob House a Toronto (1.655 Dufferin Street) è lo stesso del fantomatico New York Institute, che ha accolto Guney nei suoi primi giorni di latitanza, che ha una sede a Manhattan e un’altra a Toronto.
Milliiyet sospetta dunque che la Jacob House non sia altro che una facciata di copertura, della CIA o del Mossad, o di tutt’e due, per far perdere le tracce di Guney.
Curiosa coincidenza: il nome che Guney ha assunto in Canada, ossia «Daniel Levi», è lo stesso usato dalla persona che le autorità egiziane hanno condannato in contumacia, insieme a un cittadino canadese diventato musulmano e che dice di chiamarsi Mohammed El-Attar, per spionaggio a favore di Israele. Guney viene da una famiglia sabbatea di origine egiziana.
El-Attar è stato beccato ed è in prigione in Egitto. Ha confessato che fu quel «Daniel Levi» a consigliargli di dichiararsi omosessuale e di convertirsi alla nuova religione, per poi chiedere asilo in Canada come perseguitato (l’Occcidente protegge i finocchi).
Nell’indagine egiziana appaiono altri imputati, latitanti, e con nomi turchi: Kumal Kosba e Tuncay Bubay. Ora gli inquirenti egiziani sospettano che Kosba e Bubay non siano altro che altri nomi adottati da Daniel Levi, ossia da Tuncay Guney.
Se vi abbiamo riportato questa storia, non è solo perchè è strana e rocambolesca, ma perchè è tipica: la capacità di rivestire numerose identità, di fare acrobatici tripli giochi, non può riuscire con più perfetta improntitudine se non ai sabbatei – questi criptogiudei finto-islamici per i quali, da generazioni, la dissimulazione è una pratica quotidiana e l’ingannare gli altri un dovere «religioso».
In questo senso, per il Mossad, un sabbateo è la spia perfetta, il perfetto agente provocatore, «islamico» quando occorre e «laico» quando serve, e – mentre è capace di tradire tutti senza alcuno scrupolo – la sua lealtà a Israele resta intatta.
La storia di Guney ci lascia intravvedere anche la vastità internazionale, e fantasiosa complessità, delle «reti» e delle «facciate» nei cui canali l’agenzia può far sparire i suoi agenti, cancellandone le tracce.
Ma soprattutto, la fantastica vicenda di rabbi Guney alias Daniel Levi getta una nuova luce sugli eventi tragici di Mumbai. Su quella Nariman House, impiantata dagli ebrei Lubavitcher per ospitare ebrei di passaggio, che pare essere stata la centrale operativa delle menti terroristiche.
Secondo le notizie apparse a pezzi e bocconi sui media indiani, alcuni dei terroristi sono stati ospiti di Nariman House per due settimane, in un imprecisato momento precedente alle stragi.
Mercoledì, nell’imminenza dell’attacco, questi stranieri sono tornati a Nariman House: non senza prima aver comprato – dai negozianti dei dintorni, che l’hanno testimoniato – una quantità di cibo e liquori pari a 25 mila rupie, insomma tanto da resistere lì asserragliati per diversi giorni, mangiando e bevendo superalcoolici (comportamento non del tutto islamico).
Questi terroristi, da Nariman House, seguivano i movimenti della polizia indiana, impegnata al Taj Mahal, dalla TV.
«Quando la TV ha dato la notizia del super-poliziotto ucciso (Karkare dell’anti-terrorismo, che aveva smascherato un gruppo indù che compiva attentati “islamici”), abbiamo sentito urla da quel palazzo, come stessero festeggiando», ha testimoniato Anand Raorane, un vicino dal palazzo di Nariman
(4).
Ciò fa pensare che da Nariman, i terroristi guidassero i loro complici in attività negli alberghi e nella stazione, avvisandoli dei movimenti della polizia attraverso i telefoni satellitari e i GPS di cui gli uni e gli altri erano in possesso.
Effettivamente, Nariman House è stata la «sala operativa» dell’azione.
Quando poi i commandos della Marina indiana si sono calati dagli elicotteri su Nariman House, apparentemente i terroristi hanno massacrato i loro ostaggi – gli ebrei Lubavitcher – prima di morire essi stessi.
Ma anche qui, nasce un atroce dubbio.
I medici che hanno condotto la prima prospezione dei cadaveri hanno detto al sito indiano Rediff.com che le vittime erano orribilmente torturate, in modo che loro non avevano mai visto nella loro carriera forense; ma anche che i terroristi avevano subito un tale trattamento, che le loro facce erano irriconoscibili.
Uno di loro (scusate per il particolare orrendo) era stato ucciso da qualcuno che gli aveva sparato negli occhi – in «entrambi gli occhi»; altri erano stati ammazzati facendo scoppiare loro delle bombe a mano in faccia.
Se dunque non era possibile riconoscere i terroristi, chi li ha identificati come distinti dalle vittime-ostaggi? Ad identificarli sono state le forze di sicurezza indiane, e come?
In TV gli agenti hanno detto: dalla presenza di armi vicino ai corpi! Una tale identificazione non significa nulla: ci sono corpi irriconoscibili, ad alcuni dei quali sono vicine delle armi; che possono essere state messe lì da qualcun altro.
Si deve pensare che i terroristi hanno ucciso gli ostaggi, e poi che qualcuno abbia ucciso i terroristi, colpendoli al volto in modo da renderli irriconoscibili, addirittura colpendone uno due volte negli occhi.
Chi è stato?
O sono state le forze di sicurezza indiane - cosa improbabile - o è stato un terzo gruppo che ha messo a tacere per sempre i terroristi prima che fossero catturati.
Vi sembra strano? Invece è un comportamento quasi classico in certe operazioni sporche di servizi.
Pensate solo all’assassinio del presidente Kennedy; il presunto uccisore solitario, Oswald, è arrestato; ma viene ucciso il giorno dopo dal proprietario ebreo di un night in contatto con la mafia, il quale di lì a poco muore a sua volta di cancro fulminante. Chiuse per sempre quelle due bocche, la versione ufficiale ha potuto dominare incontrastata.
Così a Mumbai: è possibile che le menti del mega-attentato, dopo aver usato Nariman House come sala operativa, se la siano filata inosservati, dopo essersi lasciati dietro dei cadaveri non identificabili. Magari erano biondi e ben vestiti come quegli stranieri che hanno sparato - in modo indiscriminato, per uccidere chiunque, ma molto professionale - nei bar e nella stazione di Mumbai.
Nessuno ha pensato, in quelle ore, di bloccare tutti gli stranieri, di prenderne almeno le impronte, prima di lasciarli andare via dal Paese: gli stranieri erano le «vittime designate» dei terroristi «islamici», dunque innocenti per definizione.
Nel caso della Nariman House, va notato che ad occuparsi dei cadaveri ebraici sono stati i volontari ebrei di Zaka - il gruppo estremista israeliano che interviene con ambulanze a raccogliere i sacri resti di ebrei dopo qualche attentato - volati appositamente da Israele.
Li abbiamo visti, con i camici bianchi, le kippà in testa e le lunghe barbe talmudiche. Il loro capo, Haim Weingarten, ha accusato i commandos indiani di avere ucciso, nella sparatoria per liberare Nariman House, anche degli ostaggi.
Con quale autorità? Persino il ministero degli Esteri israeliano ha detto (al Jerusalem Post) che questi volontari israeliani erano arrivati a Mumbai «di loro propria iniziativa», e che «ora vendono storie ai giornalisti, vantandosi di cose che non hanno fatto»
(5).
Come mai le autorità indiane hanno consentito l’accesso ad una così importante «scena del crimine» ad un gruppo non autorizzato venuto dall’estero?
Di solito, le scene del crimine sono chiuse a tutti, fino a quando la polizia scientifica non abbia completato il suo lavoro.
Tra i sei «volontari Zaka», non ci sarà stato qualche Guney?
1) «Mossad role in Turkey coup plot revealed», Press TV, 1 dicembre 2008.
2) «Ergenekon critics use Guney as ploy», Zaman, 3 dicembre 2008.
3) Molte delle informazioni sono tratte dalla voce «Tuncay Guneru» di Wikipedia.
4) «Terrorists have food stock for three days», Shturem.org - News in Israel and the World, 26 novembre 2008.
5) Javed Navki, «Commandos killed jews, says Israeli rescue group», Dawn (Pakistan), 3 dicembre 2008. Il solo terrorista islamico catturato vivo è il ragazzotto che portava al polso il bracciale indù: tutta la versione ufficiale poggia sulla sua deposizione. La polizia dice che viene dal villaggio di Faridkot, in Pakistan. Secondo il Guardian, nel villaggio – passato al setaccio dall’ISI per trovare i parenti del terrorista - il ragazzotto è sconosciuto; vedi «Terrorists on cocaine during attack -
www.telegraph.co.uk/Mumbai-attacks-Terrorists-took-cocaine
- Mumbai terrorist name fabricated?
www.guardian.co.uk/world/2008/dec/02/mumbai-gunman-faridkot ). On Jewish Centre (Nariman House), the fact that the gunmen had been staying there for 15 days prior to the attacks, http://www.judicial-inc.org/#latest
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