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Verso la depressione assicurata. A meno che…
17 Agosto 2011
Anche la potente economia tedesca è cresciuta dello 0 per cento (per l’esattezza, dello 0,1%) nel secondo trimestre. Ciò significa che la recessione già in corso nei Paesi del Club Med (e Irlanda) si estende al Nord virtuoso, stabile ed esportatore. Effetto delle austerità imposte dalla BCE e da Mario Draghi per il risanamento dei Paesi-cicala, dei Paesi debitori. In questo senso, la piccola Grecia è il canarino della miniera, perchè le austerità e i rigori impostegli perchè ripaghi il debito hanno prodotto una contrazione del suo prodotto lordo che continua da nove trimestri – il che rende sempre più improbabile il pagamento del debito, per collasso del debitore. Si noti che una contrazione per 9 trimestri è un evento raro; è difficile che la contrazione continui per più di un anno; anche durante la dura crisi asiatica degli anni ‘80, i Paesi nei guai sperimentarono una contrazione di 3-5 trimestri, la Thailanda – un record – di 8. Ora, siccome l’Irlanda ha accettato un piano di salvataggio con le connesse imposizioni di austerità 7 mesi dopo la Grecia, la sta seguendo nella relativa contrazione. Idem accadrà al Portogallo. Idem alla Spagna e all’Italia: il nostro Paese non è il canarino nella gabbia, è l’elefante nella cristalleria, per il suo debito pubblico che è il terzo del mondo, la non-credibilità del suo governo, la sua persistente mancanza di crescita economica – dovuta alle inefficienze della funzione pubblica interna, ai pesi morti meridionali, e all’euro forte – che ci ha fatto perdere il 40% di competitività rispetto alla Germania. «A questo punto l’eurozona necessita di una massiccia infusione di liquidità», ha spiegato Daniel Gross del Centre for European Policy Studies, «altrimenti vedremo la paralisi del mercato interbancario che si verificò dopo la bancoarotta Lehman, e che trascinò l’economia in immediata recessione». Daniel Gross è un analista solitamente autorevole ed ascoltato. Se, come dice, l’Eurozona ha oggi bisogno di liquidità, sta dicendo che la Banca Centrale Europea e Berlino che la comanda stanno facendo il contrario di quel che abbisogna: impongono austerità alle cicale. Quello dell’Italia è un problema complicato: perchè da una parte necessita davvero di misure di rigore – quelle che dovrebbero colpire i costi della politica, che non sono solo i costi diretti degli stipendi da nababbi di uno o due milioni di parassiti che vivono di politica, ma i costi che questi parassiti creano, «le malversazioni, gli appalti gonfiati, i contributi a fondo perduto, il sistema delle tangenti», che Mario Baldassarri valuta attorno ai 180 miliardi di euro l’anno (1). Ma invece non ha bisogno, l’Italia, di austerità fiscali imposte ai produttori privati, come fa la manovra Tremonti-Berlusca (in realtà Trichet-Draghi) (2) perchè solo la crescita economica reale – ossia creata dal settore privato – può far pensare ai nostri creditori, che comprano il nostro debito pubblico, che il Paese sarà in grado di onorare il debito. E, quindi, indurli a chiedere interessi ragionevoli. Perchè l’Italia, prima ancora che un problema di debito, ha un problema di crescita: il PIL deve crescere del 2% annuo (Draghi dixit) non solo per servire il debito (il servizio è intanto cresciuto enormemente stante l’aumento degli interessi richiesti dai creditori), ma per rientrare, come vuole l’Europa, verso quel 60% di debito pubblico sul PIL che lorsignori ritengono ideale: e siamo al 120%. Ci obbligano a ridurre lo scostamento del 5% l’anno. Il che significa, come ha scritto l’economista bocconiano Carlo Bastasin su 24Ore, «una correzione di oltre 10 punti del PIL da qui al 2015 a crescita economica invariata». Insomma, sgobbare di più, esser tassati all’osso, e il risultato sarà una contrazione storica dell’economia (3) e nientaltro. In realtà, l’Italia cresce non del 2%, ma dello 0,6%. Perchè, oltre le sue inefficienze interne (chiamiamole così) deve sopportare l’euro forte, che la rende non-competitiva. Negli ambienti economici anglo-americani ci si chiede perchè l’Europa stia forzando l’Italia ad accelerare un avanzo primario entro due anni, proprio mentre è in recessione, e non solo: l’Europa con la Germania è entrata in recessione, e il mondo intero, dagli USA al Giappone e alla Cina (con un’inflazione del 18% sugli alimentari) è sull’orlo di una seconda recessione (chiamiamola depressione) dopo quella del 2008. Quegli ambienti, fra cui Nuriel Roubini e Paul Krugman, consigliano la BCE di creare 2 mila miliardi con cui comprare a man bassa BOT, Bonos e titoli del Club Med «fino a quando la moneta M3 smetta di contrarsi a velocità di depressione (Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, e Grecia), e ricominci a crescere di nuovo al ritmo di una ripresa (5%)». Sì, perchè, senza che i media e i politici lo rivelino, la massa monetaria in Italia si contrae ormai da mesi: segno di congelamento delle attività creditizie, deflazione e calo dell’economia reale. (European Central Bank must go nuclear to save Europe) Naturalmente, chi è contrario alla monetizzazione (espansione monetaria) addita l’esempio americano: la Federal Reserve ha appunto creato trilioni di dollari con cui ha inondato l’economia, senza che l’economia americana si riprendesse veramente. Obiezione ragionevole, nessuna soluzione è oggi sicura, siamo in acque inesplorate. Ma tendo a dar qualche ragione a Stephen King, economista capo alla HSBC inglese, quando dice: «Il problema è che la BCE non vuole mostrarsi nell’atto di monetizzare il debito pubblico degli Stati, ma se l’alternativa alla creazione di moneta è il collasso dell’euro o la discesa nella depressione, allora una massiccia espansione dei bilanci BCE è un prezzo che val la pena di pagare». Creare trilioni dal nulla provoca inflazione (ma solo quando venga innescata una ripresa, oggi di là da venire), svaluta l’euro, e nello stesso tempo annacqua il debito pubblico dei Paesi-cicala: il che non è necessariamente un male per Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda. Ma è un male per l’economia tedesca e le banche tedesche, con quelle francesi notevoli detentrici dei nostri BTP, bonos spagnoli ed altri titoli del Club Med. Invece, la BCE ha preso la decisione intermedia come al solito, comprando 2 miliardi di euro di debito italiano e spagnolo. Ciò ha dato un certo respiro, poichè gli interessi che l’Italia deve pagare sono scesi alquanto. Ma sono scesi, si noti, meno di quanto siano scesi quelli sul debito spagnolo. Anche prima dell’intervento della BCE, del resto, a fine giugno, gli interessi richiesti dai creditori (speculatori, chiamateli come volete) sul debito italiano erano saliti il doppio di quelli iberici. Il che significa che l’Italia è l’elefante nella cristalleria, e l’entrata di tale elefante nella crisi monetaria, ha cambiato i termini della questione. Per esempio: lo stesso intervento da 2 miliardi della BCE per sostenere i nostri titoli e quelli spagnoli rischia di accelerare, anzichè sventare, il dramma già vissuto dalla Grecia: l’essersi trovata esclusa dai mercati finanziari. Dopo essere stati sotto la tenda ad ossigeno della Banca Centrale, saremo capaci di tornare sui mercati e chiedere i prestiti che ci servono, senza supporto dell’ossigeno? Se ne dubita. Tanto più che la spesa per gli interessi che come Stato dobbiamo rifondere agli investitori-creditori o speculatori, cresce a vette inarrivabili: da 65,5 miliardi del 2006 ai 76 del 2001, salirà a 97,6 miliardi nel 2014, per la meccanica conseguenza del rialzo dei tassi a noi richiesti, via via più esosi in quanto diventiamo sempre più pericolosi come debitori. Il che dimostra la gravità della situazione: l’intervento della BCE per comprare i nostri BOT, anzichè un bene, diventa fonte di destabilizzazione e di contagio, erodendo la credibilità delle economie forti o tali ritenute (la Francia è stata trascinata nella zona pericolo). E come dice Daniel Gross, guai se il fondo di stabilizzazione creato inizialmente per la Grecia (lo EFSF) fosse rimpinguato fino a 2 mila miliardi di euro per ampliare questo genere di acquisti di debiti pubblici: «Più grosso lo EFSF, più veloce l’effetto-domino». E ciò dimostra un altro fatto: l’eurozona è un sistema che, a forza di imporre misure amministrative per forzare la stabilità, provoca reazioni sempre più destabilizzanti da parte della speculazione. O come sancì l’economista Hyman Minsky, specialista delle instabilità economiche, in un sistema finanziario e monetario mulfunzionante, «la stabilità è in se stessa destabilizzante». L’Europa è questo sistema, fin dal principio concepito male, nella furbesca convinzione dei poteri forti che lo vollero, che una crisi monetaria epocale avrebbe costretto gli Stati ad implorare l’aiuto della UE, demandando ad essa le ultime briciole di sovranità. A crisi venuta, invece, l’effetto è piuttosto il contrario. Anche la proposta di emettere eurobond, oltre che impossibile per la persistente opposizione tedesca, è ormai superata come soluzione. Resta solo il Quantitative Easing, ossia la stampa a manetta di euro sul modello Federal Reserve? Anche quella è una soluzione incerta, e invisa a Berlino. Ma Berlino che ci impone le austerità, sta creando la situazione di collasso, la quale ingoierà anche la sua forza economica. C’è un’altra soluzione: rompere l’euro in due (4). L’Euro-Nord (moneta di Germania, Olanda, Austria, Finlandia e forse Francia) e l’Euro-Sud (di Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, e forse Francia). La misura sarebbe meno caotica ed esplosiva del ritorno di ciascun Paese alla sua vecchia moneta nazionale (con relativo immmane problema di conteggiare debiti e crediuti, attivi e passivi) – e potrebbe ancora essere gestita dalla BCE, come una sorta di holding e clearing house, in rapporto con due sole Banche Centrali, la Nord e la Sud. L’euro-Sud si svaluterebbe immediatamente verso l’Euro-Nord, restituendo al Club Med la competitività perduta, e quindi il ritorno alla crescita in un breve volger di mesi. La Spagna ha da digerire la bolla immobiliare: un milione di case invendute sul gobbo delle sua banche. Queste dovrebbero abbassare i prezzi, ma non lo fanno per non deprezzare quei loro presunti attivi nei loro libri contabili, e l’effetto negativo che avrebbe sui mutui. Con la moneta svalutata, questo problema sarebbe risolto elegantemente: i prezzi delle case invendute diventerebbero attraenti per acquirenti della zona Euro-Nord, e ad altri benestanti del mondo. Il turismo tornerebbe ad essere conveniente per gli stranieri desiderosi di visitare Spagna, Italia, Grecia, Portogallo. E non solo i turisti potrebbero permettersi soggiorni più lunghi, ma anche acquisti più spensierati: apparirebbero sul volo di ritorno carichi di Armani, Gucci, D&G, e varie zapatillas, bottiglie di Porto e Fundador. Ciò significa aumento dei consumi. La soluzione a due euro sarebbe, ovvio, piena di problemi tecnici e sociali (per esempio, come valutare i debiti pubblici del Club Med: pagabili nel loro euro o in quello tedesco?), da studiare accuratamente. Ma potrebbe aiutare, politicamente, il fatto di presentarlo non come un divorzio definitivo, ma come una separazione temporanea, che non esclude future convergenze, una volta che i Paesi periferici siano tornati a crescere (e che l’Italia abbia risolto il suo problema principale: affamare la bestia della funzione pubblica centrale, regionale, provinciale, comunale, eccetera, scuotendosi di dosso il costo della politica). Per i cittadini italiani, sarebbero anni duri – ma almeno con una prospettiva positiva. Le austerità e le pseudo-manovre attuali promettono parimenti anni di stenti e di miseria, ma senza altra prospettiva che quella di continuare a servire il debito da 97 miliardi annui, in eterno, come Sisifo. È quello che vuole Draghi, a nome dei banchieri. Nella soluzione a due euro, a perderci sarebbe la Germania (l’Italia è il suo primo concorrente industriale, e ridiventa competitiva). Il che spiega che la cosa non si farà, se non sull’orlo dell’abisso, sotto la minaccia di una bancarotta italiana. Quel che ci mancano, in Europa, sono i politici di coraggio. Capaci di capire, e di far capire alle loro opinioni pubbliche, che la politica consiste «nella scelta fra il disastroso e lo sgradevole», come disse Galbraith. Ed oggi più che mai. Per non avere il coraggio di esigere da noi lo sgradevole, ci manderanno davvero al disastro?
1) L’ufficio-studi UIL pone la cifra del costo della politica più in basso: a 18,3 miliardi di euro l’anno, a cui aggiunge 6,4 miliardi dovuti a «un sistema istituzionale sovrabbondante» (pletorico). Si tratta pur sempre, ammette la insospettabile UIL, del 12,6% del gettito IRPEF, pari a 646 euro annui per contribuente (costi-perconferenza.pdf) 2) Per esempio. non mi pare che il geniale Calderoli, sedicente ministro della semplificazione, sia riuscito a chiudere uno dei più costosi enti inutili: l’UNIRE, l’ente per il miglioramento delle razze equine. Scopo che poteva avere anche un fondamento nel 1932 quando l’UNIRE fu fondato, ma non oggi. Di fatto l’UNIRE gestisce gli ippodromi, che sono in perdita per mancanza di pubblico: di fatto, noi contribuenti italiani sussidiamo i signori che si dilettano di ippica, e possiedono delle scuderie da gara. Al ritmo di 100 milioni di euro l’anno. L’UNIRE, che ne costa 250, è riuscito anche ad accumurale un debito di 83 milioni. Ha 176 dipendenti che totalizzano 4.528 giorni di assenza (forse vanno a lezione di equitazione) ma, in base al contratto integrativo del 2008, si spartiscono 276 mila euro di indennità di ente, 140 mila di straordinari, 25 mila per i turni, 350 mila di salario di professionalità e un milione e 138 mila euro di compensi incentivanti. Esistono altri mille enti della stessa inutilità, che il governo Bunga-Bunga s’è ben guardato dal chiudere. 3) Si veda l’ottimo studio CONTRO-INCHIESTA SUL DEBITO PUBBLICO ITALIANO E LA SUA SOSTENIBILITA'. Qui, da parte della sinistra, si propone il ripudio sovrano del debito. 4) Uno studio sulla divisione dell’euro in due, si legge qui: Break the euro zone in two
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