Nuova tattica a Sion
27 Dicembre 2008
Peres ha 85 anni: dunque la «pace» è così vicina? Di colpo, non più
neocon, non più estremismo hassidico, non più guerra perpetua al
terrorismo, nemmeno più minaccia di annichilire le installazioni di
Teheran? Anzi, il vecchio prevede «un tavolo di negoziati». Come mai?
Si può credere che Peres - vecchio socialista dopotutto - condivida le
speranze di massa nate dall’elezione di Barack Obama?
Ci si potrebbe credere meglio, se lo stesso improvviso rovesciamento di
posizioni non dovesse essere registrato anche in Ehud Olmert: il capo
del governo uscente che - non dimentichiamolo - è il delfino ed erede
poltiico del duro Ariel Sharon. Ebbene: Olmert, che sta per uscire di
scena (per scandali e corruzione), in attesa delle elezioni anticipate
dov’è in gioco il suo partito Kadima fondato da Sharon, il 21 settembre
scorso dichiarata Yedioth Ahronoth:
«Dobbiamo arrivare a un accordo coi palestinesi, il che significa il
ritiro da quasi tutti, se non tutti, i territorii (occupati). Una parte
dei territori può restare in mano nostra, ma dobbiamo dare ai
palestinesi la stessa percentuale (di territori altrove); altrimenti,
non ci sarà pace».
Dobbiamo cedere anche su Gerusalemme?, chiede il giornalista. Ed
Olmert: «Anche Gerusalemme - con speciali accordi, io immagino, per il
Monte del Tempio (la spianata delle moschee) e i siti sacri»
(2).
Non ci si crede. Questo è lo stesso Olmert che ancora ieri ordinava di
espandere le «colonie» talmudiche e gli «insediamenti» dei fanatici su
terre rubate ai palestinesi; che completava la pulizia etnica; quello
che ordinava la costruzione accelerata di «centinaia di nuove
abitazioni» per soli giudei a Gerusalemme Est, nella parte araba di Har
Homa. E che di fronte alle flebili rimostranze di Angela Merkel, in
vista nel marzo scorso, replicava: «Ci sono posti dove si costruisce e
si costruirà perchè questi posti resteranno nelle mani di Israele.
Costruiamo a Gerusalemme perchè è escluso che Israele (la) cederà».
Un cambiamento di rotta di 180 gradi. Molto rischioso politicamente
all’interno, perchè Sion va ad elezioni anticipate a febbraio, e il
partito di Olmert (il Kadima, inventato da Sharon) rischia di perdere a
vantaggio del Likud, dell’estremista Netanyahu.
Più che un rischio, queste dichiarazioni sono la garanzia, per il
Kadima, di perdere l’appoggio dei partiti «religiosi» e dei rabbini
con molto denaro e vasto seguito fra i fanatici. Da sempre questi
partiti contano molto; la scusa dei «moderati» è sempre stata quella
che avevano le mani legate da questi talmudici occupatori di terre e
sparatori contro i palestinesi, li dovevano accontentare. E di colpo, i
talmudici non contano più.
Anzi. Il 13 novembre, come scrive stupefatto Haaretz, Olmert va alla
Knesset e «deplora la ‘deliberata e intollerabile discriminazione’
che gli arabi soffrono per mano dell’establishment israeliano». Intende
i pochi arabi che hanno cittadinanza israeliana, su cui Sion ha sempre
negato di esercitare discriminazione. Ma Olmert, di colpo, punta il
dito sulla «sproporzione fra il numero dei cittadini arabi in Israele e
quanti di loro sono ammessi nel pubblico impiego».
Beh, certo, è il noto stato di apartheid: fino ad ieri, chi lo faceva
notare era linciato in Europa e USA come antisemita. Ne sa qualcosa
l’ex presidente Jimmy Carter; l’onest’uomo, da quando ha osato scrivere
un saggio intitolato: «Palestine – Peace not Apartheid», è diventato
una non-persona. Tanto che Barack Obama, da candidato, per prudenza non
ha voluto che Carter parlasse a suo favore nelle riunioni del partito
democratico, nè tanto meno comparisse al suo fianco nelle
manifestazioni pubbliche.
Invece oggi, il cuore gonfio di compassione umanitaria, Olmert annuncia
non solo misure per «aumentare il numero di arabi negli impieghi
statali», ma di voler «dichiarare tutti i villaggi non ebraici aree di
sviluppo industriale A», a cui stanziare investimenti per favorire la
nascita di industrie. Egli si dichiara deciso dunque a dare agli arabi
anche l’uguaglianza sociale.
«L’uguaglianza, da slogan, deve diventare realtà», dice.
E dall’11 novembre, viene annunciato che «Il governo israeliano ha
cominciato a promuovere attivamente il servizio militare volontario
per gli arabi israeliani». Arabi nel glorioso (e mono-razziale) Tsahal
persecutore! In un paese militarizzato, che è stato fatto vivere nella
paura e nell’odio per gli arabi, e che vota regolarmente generali, spie
ed aguzzini come suoi governanti perchè si sente «in pericolo nella sua
stessa esistenza».
Sogno o son desto? Eppure, bisogna arrendersi alla realtà. Israele cambia.
Almeno sulla carta, perchè continua a massacrare a Gaza e a devastare
oliveti coi carri armati, nè risulta che abbia smesso di costruire a
Gerusalemme. Ma nelle asserzioni - sicuramente concertate fra il
laborista Peres e lo sharoniano Olmert - è persino più avanti di Barack
Obama, che è andato a giurare davanti all’AIPAC il suo filo-israelismo
fino alla morte (dell’ultimo americano), che si è messo a capo di
gabinetto il figlio del terrorista israeliano Rahm Emanuel, che ha
paura di farsi vedere in giro con Carter, e che non fa che domandare a
Peres: «Cosa volete che faccia per Israele?».
Sion sembra addirittura «prevenire» Obama. Ed è questa, forse, la
chiave, o una delle possibili chiavi del mutamento: una nuova forma di
guerra preventiva.
Se Obama è visto come l’uomo di pace, e accompagnate dalle più rosee
speranze del mondo, Israele diventa rosea e pacifista ancor prima: mica
ha paura della lobbby ebraica, Israele. Così si posiziona meglio nelle
possibili trattative.
Infatti, il già citato articolo di Times attribuisce a Obama «un
ambizioso piano» che consiste in questo: Israele si ritira nei confini
pre-1967, e gli stati arabi in cambio riconoscono Israele
(3).
Non è una novità. E’ la proposta avanzata dall’Arabia Saudita nel 2002,
e su cui Bush, i neocon e Israele hanno fino ad oggi sputato. Ora
invece, dice il Times, il regime israeliano appare interessato. Eppure,
secondo questo piano, Sion dovrebbe restituire alla Siria il Golan, e
consentire che un pezzo di Gerusalemme diventi capitale di un
sub-staterello palestinese, governato da Al-Fatah. In cambio, certo,
Israele «otterrebbe il veto definitivo al ritorno dei palestinesi
cacciati nel 1948».
Ma non sembra abbastanza. C’è qualcosa d’altro in serbo, che solo gli
eventi futuri ci riveleranno. Certo è che per adesso, Sion sta’ al
gioco.
A luglio Obama, quando era solo un candidato, andò in Israele e disse
«privatamente» (privatamente, mi raccomando) che per Israele sarebbe
stata «una pazzia» rigettare la proposta saudita, che «darebbe agli
ebrei la pace col mondo islamico». Ed evidentemente Sion sapeva, a
luglio, che era Obama il futuro presidente. E con lui avrebbe dovuto
trattare.
Soprattutto, un gruppo di importanti analisti di politica estera delle
due parti «ha suggerito ad Obama di dare priorità immediata al piano
saudita subito dopo la vittoria elettorale».
Si tratta delle personalità che componevano lo «Iraq Study Group», il
gruppo di pezzi grossi messo insieme da Bush padre per «consigliare»
(mettere sotto tutela) Bush figlio, troppo palesemente in mano agli
allievi di Leo Strauss (neocon israelo-guerrafondai) e troppo pronto
alle loro strategie disastrose di guerra perpetua. A questi si è
aggiunto Zbig Brzezinski.
Uno di questi imperialisti moderati, Brent Scowcroft (ex consigliere
della sicurezza nazionale), ha fatto notare ad Obama che il Medio
Oriente è la fonte dei guai peggiori per gli Stati Uniti e che, se il
presidente deve occuparsi dei guai interni (il collasso del’economia),
è bene che dia una nuova spinta al piano arabo, onde «cambiare il clima
psicologico nella regione». Deve approfittare delle speranze che ha
creato, il momento favorevole passa.
Hans Riedel, un dirigente della CIA che è stato messo a fianco di Obama
per la spinosa questione del Pakistan (quotidianamente violato dalle
incursioni americane alla caccia di Talebani), è giunto persino ad
ammettere che la sua CIA aveva sbagliato tutto, in Pakistan come in
Afghanistan.
L’aria è cambiata, a Washington.
Veramente, Obama non ha risposto alla lettera di auguri che gli ha
mandato Ahmadinejad, per non irritare la lobby. Ma Peres,
ostentatamente più coraggioso di lui, pensa che «se Obama ha successo
nell’unire la comunità internazionale dietro una politica comune,
Israele vede una possibilità di dialogo con l’Iran». Nientemeno.
Su questo voltafaccia sono possibili varie ipotesi, tutte provvisorie.
Olmert sa che a febbraio non governerà più, e può permettersi qualche
verità imbarazzante, imbarazzante per chi gli succederà, se sarà
Netanyahu. Oppure la dirigenza israeliana ha valutato che i Wolfowitz,
i Perle, i Leeden hanno adempiuto al loro compito (hanno fatto sparire
l’Iraq dalla carta geografica), e che sarebbe pericoloso spingere
l’America ancora su quelle politiche di guerra mondiale e preventiva,
di unilateralismo aggressivo, che l’hanno dissanguata; dunque, che
restino in panchina per questo giro, secondo il dettame di Lenin su
come far avanzare la rivoluzione: «due passi avanti e uno indietro».
Forse, giudicano controproducente sfidare in modo troppo vistoso e
arrogante il nuovo presidente, accompagnato da speranze corali di
«pace», finchè dura il sogno; d’altra parte, con alle costole Emanuel,
sanno che Obama è abbastanza fermamente sotto il controllo della lobby,
per non dover temere da lui fughe in avanti e indipendenza
(4).
Con Emanuel, Israele è nell’Ufficio Ovale.
Forse, infine, assecondano il volonteroso neo-presidente nelle sue
velleità di «pace» in Medio Oriente perchè sanno che è imminente la
tanto profetizzata «crisi generata» che lo obbligherà a cambiare
programma, e combattere ancora una volta il Male apocalittico, ossia Al
Qaeda al-Mossad.
Solo una cosa non credo possibile: che veramente accettino di dividere
Gerusalemme coi palestinesi, e la cessione delle terre «sacre», per
avere «la pace col mondo islamico».
Tale pace sarebbe, per Israele, l’inizio della fine. Come aveva ben
capito Sharon, che metteva Israele in pericolo per poi ripetutamente
salvarla; perchè solo il pericolo tiene uniti sei milioni di cittadini
di cui molti hanno un’altra patria, un altro passaporto, case e
interessi a Parigi, in USA, a Londra, a Roma.
Senza pericolo, milioni di israeliani se ne tornerebbero alle loro
case, e il sogno sionista mostrerebbe la sua sostanza: un sogno
artificiale, l’oppio del popolo (eletto).
Ma posso sbagliare. Può essere persino che siano davvero disposti alla
«pace» alle loro condizioni (quali ostacoli hanno davanti ormai?), ed
abbiano selezionato
(5)
Obama come la giusta entità che farà la parte - come dice il nostro
Domenico Savino - del benefico Capo universale del governo mondiale
prossimo venturo, il Benefattore previsto da Solov’ev, «convinto
spiritualista, ammirevole filantropo, pacifista impegnato»
(6).
Il tempo è compiuto, l’utopia realizzata, «la Profezia si compie, e
Obama è il suo Profeta». La «pace», finalmente! E tutta l’umanità
pronta a salutare la «pace»!
Se questa ipotesi è giusta, non ci resta che evocare un’altra profezia.
Quella folgorante di San Paolo nella I Tessalonicesi (5, 3-6):
«
Quando diranno ‘pace e sicurezza’, allora improvvisamente
precipiterà su di essi la rovina, come i dolori del parto sulla donna
incinta; e non avranno scampo. Ma voi, fratelli, non siete nelle
tenebre, che quel giorno vi sorprenda come un ladro... Pertanto non
dormiamo come gli altri, ma vegliamo e siamo temperanti».
Maurizio Blondet
(articolo pubblicato il 20 novembre 2008)
1) Richard Beeston, «Barack Obama brings hope of Iran talks, says Shimon Peres», Times, 17 novembre 2008.
2) John Spritzler, «A new path for Israel?», www.newdemocracyworld.org, 17 novembre 2008.
3) Uzi Manhaimi, «Barack Obama links Israel peace plan to 1967 borders deal». Times, 16 novembre 2008.
4) Paul Craig
Roberts, «Conned Again», Counterpunch, 6 novembre 2008. «If the change
President-elect Obama has promised includes a halt to America’s wars of
aggression and an end to the rip-off of taxpayers by powerful financial
interests, what explains Obama’s choice of foreign and economic policy
advisors? Indeed, Obama’s selection of Rahm Israel Emanuel as White
House chief of staff is a signal that change ended with Obama’s
election. The only thing different about the new administration will be
the faces. Rahm Israel Emanuel is a supporter of Bush’s invasion of
Iraq. Emanuel rose to prominence in the Democratic Party as a result of
his fundraising connections to AIPAC. A strong supporter of the
American Israeli Public Affairs Committee, he comes from a terrorist
family. His father was a member of Irgun, a Jewish terrorist
organization that used violence to drive the British and Palestinians
out of Palestine in order to create the Jewish state. During the 1991
Gulf War, Rahm Israel Emanuel volunteered to serve in the Israel
Defense Forces. He was a member of the Freddie Mac board of directors
and received $231,655 in directors fees in 2001. (…) Richard
Holbrooke, son of Russian and German Jews, was an assistant secretary
of state and ambassador in the Clinton administration. He implemented
the policy to enlarge NATO and to place the military alliance on
Russia’s border in contravention of Reagan’s promise to Gorbachev. (…)
Madeline Albright was born Marie Jana Korbelova in Prague to Jewish
parents who had converted to Catholicism in order to escape
persecution. She is the Clinton era secretary of state who told Leslie
Stahl (60 Minutes) that the US policy of Iraq sanctions, which resulted
in the deaths of hundreds of thousands of Iraqi children, had goals
important enough to justify the children’s deaths. Albright’s infamous
words: «we think the price is worth it.» (..) Dennis Ross has long
associations with the Israeli-Palestinian «peace negotiations.» A
member of his Clinton era team, Aaron David Miller, wrote that during
1999-2000 the US negotiating team led by Ross acted as Israel’s lawyer:
«we had to run everything by Israel first.» This «stripped our policy
of the independence and flexibility required for serious peacemaking.
If we couldn't put proposals on the table without checking with the
Israelis first, and refused to push back when they said no, how
effective could our mediation be?» Ross is «chairman of a new
Jerusalem-based think tank, the Jewish People Policy Planning
Institute, funded and founded by the Jewish Agency».
5) Il motivo
della selezione l’ha forse centrato un giornalista del Chicago
Sun-Time: «Uno dei colleghi di Obama all’Università di Chicago, Rashid
Khalidi, mi ha detto questo dopo aver avuto un colloquio con il
president eletto sul Medio Oriente: ‘Te ne vai dicendoti: bello, è
d’accordo con me. Ma più tardi, arrivato a casa, ripensi alla
conversazione, e non sei più sicuro’. Ccome è stato notato più volte
durante la campagna presidenziale, Obama ha la qualità di fare in modo
che ogni sorta di gente proietti le sue aspirazioni su di lui. (...) Un
esempio tipico s’è visto dopo la rituale telefonata di congratulazioni
del presidente polacco Lech Kaczynski. Costui ha poi riferito che
Obama l’aveva assicurato che il programma di Bush, di piazzare missili
nell’Est-Europa, sarebbe continuato. Un portavoce di Obama ha smentito,
Obama non ha preso nessun impegno sulla questione». Steve Huntley,
«Obama worries national security hawks», Chicago Sun Times, 18
novembre 2008.
6) Domenico Savino, «Obama il Profeta», EFFEDIEFFE, 16 novembre 2008.
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